Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
The photo published by Minister Mitarachis, showing naked people on the Greek-Turkish border

La Turchia non è un paese sicuro. E la Grecia nemmeno

Dalle 92 persone costrette a passare nude il confine dell’Evros alla designazione della Turchia come "safe third country"

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La foto, pubblicata il 15 ottobre dal ministro greco Notis Mitarachis sul suo account Twitter, in poche ore ha fatto il giro del web e scatenato una crisi diplomatica tra Grecia e Turchia. Nel tweet, Mitarachis definiva la Turchia “vergogna della civiltà”, accusando le autorità turche di aver condotto 92 persone al confine greco-turco del nord, costringendole ad attraversare nude il fiume Evros – presumibilmente dopo averle derubate e picchiate.

Questa fotografia di circa un anno fa denuncia le umiliazioni subite da un gruppo di persone sul versante greco del fiume Evros. Ph. SWM

Il ministro ellenico della migrazione e l’asilo annunciava inoltre di aver già segnalato il caso alla Commissione Europea e che avrebbe portato la questione all’attenzione delle Nazioni Unite durante la sua imminente visita a New York. Dopo poche ore, l’ONU si esprimeva per voce dell’agenzia UNHCR manifestando “profonda angoscia” e chiedendo “un’indagine completa sull’incidente”.

Ovviamente, la Turchia rispediva subito le accuse al mittente, capovolgendo la narrazione: “Esortiamo la Grecia ad abbandonare al più presto il suo duro trattamento dei rifugiati e a cessare le sue accuse infondate e false contro la Turchia“, ha scritto il principale collaboratore del presidente Erdoğan, Fahrettin Altun. E ancora: «Con questi sforzi inutili e ridicoli, la Grecia ha dimostrato ancora una volta al mondo intero che non rispetta la dignità dei rifugiati, pubblicando le foto di queste persone oppresse che ha deportato dopo aver estorto i loro beni personali».

Non è la prima volta che l’antica rivalità tra Atene e Ankara occupa il campo del trattamento delle persone migranti al confine, con reciproche accuse di inciviltà e invocazioni al rispetto dei diritti umani. Questo conflitto, che si consuma nella sfera della rappresentazione mediatica, assume caratteri sempre più grotteschi e contraddittori alla luce della violenza sistematica di entrambe le parti.

Infatti, secondo i dati raccolti da Aegean Boat Report, nei primi nove mesi del 2022 la Grecia ha respinto sul confine marittimo più di 18mila persone. Molte di loro erano già sbarcate nelle isole greche, venendo arrestate, derubate e torturate dalla polizia ellenica prima di essere rilasciate in mare, talvolta senza giubbotto salvagente e con le mani legate, come emerge da alcune testimonianze.

Allo stesso tempo, la frontiera terrestre lungo il fiume Evros, al confine tra Grecia e Turchia, è forse l’area di confine più militarizzata d’Europa, inaccessibile ad attivisti e giornalisti, scenario di quotidiani push-back e di violenze di ogni genere. Si susseguono le storie di persone abbandonate dalle autorità greche negli isolotti del fiume, senz’acqua e senza cibo per giorni, come quella della bambina siriana morta per un morso di scorpione. E i racconti di chi attraversa i Balcani parlano di detenzioni in luoghi sconosciuti, di torture con scosse elettriche, di pestaggi a morte, di cani addestrati a mordere.

Le persone migranti sono costrette a camminare per giorni nell’oscurità della notte e dei boschi per evitare i commandos greci, fino a raggiungere la Macedonia e la Serbia, nel terrore di essere avvistate dalla polizia o dai locali. La recente indagine di Lighthouse Report ha dimostrato come la polizia greca sfrutti i richiedenti asilo stessi per compiere le operazioni di respingimento violento. Il tutto con la complicità di Frontex, come denunciato (paradossalmente) dallo stesso collaboratore di Erdoğan, Fahrettin Altun, ma soprattutto dal rapporto Olaf reso pubblico recentemente da Der Spiegel, che pochi mesi fa portò alle dimissioni del direttore Fabrice Leggeri.

In Turchia, intanto, i programmi governativi di deportazione sono ora pienamente attuativi. Il rapporto di Human Rights Watch 1 – basato su decine di interviste con siriani rimpatriati – racconta i raid della polizia nelle fabbriche e nei quartieri, gli arresti arbitrari delle persone nonostante il permesso di protezione temporanea (la Turchia applica la Convenzione di Ginevra solo per i cittadini europei), le detenzioni nei centri pre-rimpatrio, luoghi di violenza fisica e psicologica finanziati con i soldi europei, come quello di Tuzla ad Istanbul. Infine, i viaggi in manette fino ai border crossings di Öncüpınar/Bab al-Salam o Cilvegözü/Bab al-Hawa, e gli attraversamenti del confine ad arma puntata, non prima di aver firmato sotto ricatto i documenti di rimpatrio volontario.

Secondo i dati delle autorità locali, tra febbraio ed agosto 2022 11,645 persone sono state rimpatriate da Bab al-Hawa e 8,404 da Bab al-Salam, ma sicuramente sono molte di più. Le deportazioni avvengono verso i territori della Siria del nord-est, sotto il controllo di milizie turche o direttamente supportate dalla Turchia, con il chiaro obiettivo di de-curdizzare l’area. Per le persone non è nemmeno possibile tornare poi alla propria città d’origine, a causa dell’instabilità della Siria del nord e della mancanza di sicurezza. Infatti, oltre ad essere un paese distrutto da dieci anni di guerra e tutt’oggi attraversato da conflitti armati, il ritorno al potere di Bashar al-Assad mette a grave rischio chi ha combattuto nelle forze anti-governative o chi semplicemente è fuggito una volta scoppiato il conflitto. 

Le aree di controllo della Siria ad oggi, ottobre 2022. Da Humans Rights Watch

La vita delle persone migranti in Turchia – che ospita 3,6 milioni di profughi siriani – è messa a dura prova non solo dalla costante minaccia di rimpatrio (anche per i non-siriani: Erdoğan ha una vasta rete di accordi bilaterali con i paesi africani, per esempio), ma anche dallo sfruttamento lavorativo, dall’inflazione, e dalla spirale di razzismo che cresce con forza, fomentata dal clima elettorale verso le elezioni presidenziali del giugno 2023. Infatti, gli assalti per la strada da parte di privati cittadini, spesso militanti di estrema destra, a persone di origine siriana, che talvolta vivono e lavorano nel paese da quasi dieci anni, sono diventati la normalità soprattutto nei quartieri popolari delle grandi città, fino ad arrivare ad omicidi a freddo su base razziale.

Tra i non-turchi c’è la paura di essere sentiti parlare in arabo, di essere denunciati alla polizia dal padrone o dai vicini di casa. Inoltre, la maggior parte delle persone vive formalmente in violazione della restrizione geografica prevista dalla protezione temporanea, essendo quindi continuamente ricattabile e passibile di deportazione. Restrizione che impedisce di uscire dalla provincia assegnata e che viene dunque forzatamente ignorata, dato che impedirebbe di vivere nei principali centri, dove è forse ancora possibile trovare una casa e un lavoro. Infatti, da febbraio 2022, 16 province sono interdette alla registrazione di residenza degli aventi protezione, tra cui Istanbul, Ankara e Izmir, e ai profughi sono così riservate le regioni più isolate e periferiche. 

L’aspetto più farsesco delle reciproche accuse tra Grecia e Turchia è però la Joint Ministerial Decision (JMD) del governo greco risalente al 7 giugno 2021, con cui la Grecia dichiarava la Turchia safe third country per i richiedenti protezione provenienti da Afghanistan, Pakistan, Siria, Somalia e Bangladesh.

Come riportato dal Greek Council For Refugees, queste cinque nazionalità rappresentavano il 67% della popolazione richiedente asilo in Grecia e oltre il 60% della popolazione rifugiata, con un tasso di accettazione delle domande di asilo tra il 76% e il 95%. Come ha sottolineato Equal Rights Beyond Borders, la decisione ministeriale si basava su un “parere” emesso dal direttore del servizio greco per l’asilo, sicuramente non giuridicamente sufficiente, tuttavia pienamente in linea con le politiche europee di respingimento e ricollocazione nei paesi esterni.

Infatti, già con l’accordo Ue-Turchia del 2016 veniva stabilito un meccanismo di ammissione della domanda d’asilo riservato ai profughi siriani, che prevedeva quindi la possibilità di non ammettere le richieste d’asilo e di espellere il richiedente prima dell’effettiva analisi della domanda. Allora, la Commissione Europea aveva giustificato le criticità legali di questa misura con le circostanze emergenziali, indicando di fatto la direzione che le politiche nazionali ed europee avrebbero consolidato negli anni seguenti, nel quadro del Patto Europeo per la Migrazione e l’Asilo.

Ad oggi, per le cinque nazionalità citate, tutte le interviste condotte dalle autorità greche nei centri di ricezione ed identificazione delle isole e sulla terraferma riguardano solamente la condizione di vita in Turchia e il passaggio di confine greco-turco, secondo la Fast Track Border Procedure. È esplicitamente impedito alle persone di parlare del paese d’origine, del resto del viaggio, del vero motivo della richiesta d’asilo. L’obiettivo è rendere legale ciò che viene già fatto su larga scala con i respingimenti informali, tuttavia alla pioggia di inammissibilità (nel 2021 sono aumentate del 126%) non è corrisposto finora alcun trasferimento in Turchia. Infatti, da marzo 2020 il paese anatolico non accetta ritorni dalla Grecia, ed ha ufficialmente chiesto al governo ellenico di ritirare la decisione. Così, le persone si trovano in un limbo giuridico ed esistenziale: irricevibili dalla Turchia, inammissibili e illegalizzate in Grecia.

Una delle proteste autorganizzate da persone migranti contro la designazione della Turchia come paese sicuro. Ritsona camp, Atene – agosto 2021. Ph: Solidarity with Migrants

Ad un anno dalla designazione della Turchia come paese sicuro, è stata lanciata una petizione firmata da molte ONG 2, che chiede al governo greco di revocare la decisione, definendola con tre aggettivi: illegittima, inumana, inattuabile. Illegittima perché senza fondamenti giuridici, basandosi su un parere contraddittorio ed insufficiente. Inumana perché la Turchia non garantisce la piena protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1951, non applica il principio di non respingimento, si è ritirata dalla Convenzione di Istanbul del 2014 sulla lotta alla violenza contro le donne, non possiede un sistema giudiziario indipendente, perseguita le minoranze etniche e religiose, le comunità LGBTQI+, gli oppositori politici e i difensori dei diritti umani. Inattuabile perché le riammissioni non sono di fatto possibili, mantenendo quindi le persone in un limbo di incertezza, sofferenze, sfruttamento, senza accesso ai servizi di base. 

Per il governo greco, dunque, la Turchia è “vergogna della civiltà” o un paese sicuro? È un gioco delle parti fatto sulla pelle delle persone, di reciproche accuse di fake news davanti alle evidenze e di ipocriti richiami all’accoglienza e ai diritti umani. Se a picchiare e denudare al confine siano la polizia greca o quella turca, poco cambia. Tanto sappiamo che lo fanno entrambe.

  1. Turkey: Hundreds of Refugees Deported to Syria, ottobre 2022
  2. La petizione promossa da 48 ONG europee è disponibile in inglese, greco, tedesco, francese, arabo, farsi, spagnolo, italiano e urdu: clicca qui

Giovanni Marenda

Studente magistrale di Sociologia e Ricerca Sociale all'Università di Trento. Ho trascorso la maggior parte del 2020 ad Atene, in Grecia, impegnato nel lavoro di solidarietà. Sono un attivista del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, che promuove la libertà di movimento e supporta le persone migranti lungo le rotte balcaniche e sui confini italiani.