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Lo Stato visto dalle porto-frontiere. Il massimo del controllo nel massimo dell’abbandono

1 ottobre, sesto giorno

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1. Incipit. Per le strade di Lampedusa.

In questi giorni camminando per le strade di Lampedusa ci rendiamo conto che questo è uno dei pochi posti d’Europa dove non si vede neanche un migrante. A ben pensarci ci era successo anche a Pantelleria. Nei luoghi maggiormente attenzionati da tutto il paese sulla questione migratoria, descritti attraverso la retorica dell’invasione dei migranti, ci diluiamo in una folla di turisti: si fa fatica a camminare per strada nelle ore dell’aperitivo, rito che impera occupando baretti, muretti, giardini, camioncini mobili, a perdita d’occhio. Eppure. Eppure, in due giorni che siamo qui, tre sbarchi. Nell’ultimo a cui abbiamo assistito da lontano, su una novantina di persone i due terzi erano ragazzini ben sotto i 18 anni. Efficienza dei trasferimenti, quindi. Efficienza di Stato. Migranti subito portati dentro l’hotspot, in mezzo all’isola, distante da spiagge e da celebrazioni, chiusi ermeticamente. Nessuno dei migranti può uscire, nessuno può comunicare con l’esterno. In effetti, in porto la presenza di vedette della guardia costiera e della guardia di finanza è massiccia e sulla terra, camionette e auto della polizia stanno ovunque nelle strade.

La presenza di Stato è debordante qui.

Eppure.

Eppure, né a Pantelleria né a Lampedusa c’è un “punto nascita”, per fare un esempio. Le donne si trasferiscono in terra ferma, ci restano quel che gli dicono, poi tornano col neonato. Viaggi brevi, distacchi descritti con angoscia.

Lo Stato qui manca, ci dicono molti.

Quindi. Troppo Stato, poco Stato?

Poco stato sociale, molto stato d’ordine forse.

No, neanche. È più complicata di così.

Durante un’intervista, un attivista di Lampedusa ci racconta di un fatto qui noto e documentato: un ex sindaco ha provato qualche tempo fa a normare la gestione delle spiagge davanti alla crescita esponenziale delle occupazioni e dello sfruttamento della costa. Non ottenendo adesioni ai regolamenti, ha fatto rimuovere alcuni arredi dalle spiagge. È stata minacciata con violenza. Gli arredi sono restati, anzi sono cresciuti.

Quindi, una presenza abbondante dello Stato d’ordine, ma senza un gran ordine dello spazio pubblico.

Allora. Molto Stato o poco Stato? Molto o poco ordine?

La nostra etnografia di gruppo ci porta ad incontrare diversi lavoratori dello Stato, guardie costiere, guardie di finanze, ispettori di polizia, assessori dei servizi sociali. Ma ancora, volontari e cooperanti. Proviamo a rispondere dopo averli ascoltati.

2. Lo Stato frammentato e la “sea-level bureaucracy”.

In questi giorni, osservando e parlando con i rappresentanti delle istituzioni qui nei porti di Pantelleria e Lampedusa abbiamo cercato di capire come opera lo Stato nel contesto del confine marittimo e come si articola il governo del confine tracciato arbitrariamente (“il mare non può dividere in modo stabile” dice un comandante di guardia costiera come fosse ovvietà. Non è banale affatto, ci pare).

Troviamo la guardia costiera particolarmente disponibile a esporci e discutere le pratiche operative, come fosse un segmento professionale specifico, di interfaccia, esposto alla negoziazione dei significati di stato più degli altri segmenti presenti. Interessante.

Ci spiegano che in mare operano congiuntamente due forze di polizia ad ordinamento militare, la Guardia di Finanza (nata come corpo speciale di vigilanza finanziaria, divenuta per decreto legislativo del 2017 “unica forza di polizia sul mare”, con incremento notevole delle sue dotazioni) e la Guardia Costiera (da un lato, dedita agli usi civili del mare e inquadrata nell’ambito di diversi dicasteri – Infrastrutture e Mobilità, Transizione ecologica, Politiche Alimentari, dall’altro lato al tempo stesso, corpo specialistico della marina militare). Storie e ruoli diversissimi: la Guardia di Finanza – polizia originariamente dedita al controllo delle dogane e al monitoraggio di attività economiche illegali – ha nella difesa del territorio nazionale il suo focus primario. Nel nostro caso difesa a partire dall’istituzione del reato di immigrazione clandestina introdotto dalla legge n.94 del 2009, art. 10 bis., (non come categoria “delitto” ma come categoria “contravvenzione”, attualmente sanzionata con una ammenda da 5000 a 10000 euro), che in potenza può applicarsi a qualsiasi migrante in arrivo, qualsiasi siano le condizioni di salute e di vita, che solo poi saranno accertate. In questa funzione potremmo dire che la Guardia di Finanzia “territorializza” il confine di mare, cioè lo riproduce come spazio tracciato, delimitato da coordinate spaziali e controllabile nei termini del non attraversamento improprio.

La Guardia costiera al contrario mette al centro il mare, o meglio “la vita in mare come bene giuridico da tutelare”, per citare, cioè in pratica le persone non devono morire in acqua.

[Intermezzo:
Ricercatrice: Mi scusi, per capire meglio, ma se l’azione di salvataggio la fa la guardia costiera libica con cui collaborate, e li riportano dentro i centri di detenzione in cui si muore, per cui si salva il naufrago ma il migrante muore, non capisco bene il concetto di “bene giuridico vita”.
GC: A noi è affidata la vita del naufrago.
Ric: Ma sono la stessa persona.
GC: Ha ragione.
Fine Intermezzo]

Ma come operano in pratica queste parti dello Stato nel caso dell’arrivo di un “natante non identificato” (noi leggiamo: imbarcazione con migranti)?

Dipende.

Se il natante non identificato è in “distress” è previsto un intervento Search and Rescue (SAR), cioè ricerca e soccorso, altrimenti è previsto un intervento Law Enforcement, cioè quanto segue la rilevazione di un illecito. Insomma, due percorsi diversissimi. Del primo si occupa la Guardia costiera, del secondo la Guardia di finanza. Non ci pare così facile capire chi non è in difficoltà se si viaggia anche semplicemente senza equipaggiamento adatto e senza essere esperti del mare.

Secondo quanto ci dicono gli uomini delle istituzioni, la distinzione tra Search and Rescue e Law Enforcement non è netta e tutto avviene con valutazioni discrezionali, seguendo alcuni indicatori come il sovraffollamento, la lentezza del mezzo, la coerenza della traiettoria. Ma resta legato alla esperienza nella lettura dei dati che arrivano dagli avvistamenti e dalle tecnologie di rilevazione. Ci sono le segnalazioni delle barche che assistono a un evento in mare, i radar, le fotografie provenienti dagli aerei di Frontex, ma la valutazione se ci si trovi davanti a un evento distress o meno sta – entro le 12 miglia delle acque territoriali – in capo al comandante dell’unità in loco. Valutazioni di Stato, molto lontane da quel discorso per cui la norma non è discrezionale.

Ci viene in mente che potremmo chiamare “sea-level bureaucracy” questo processo, cioè richiamare qui gli studi centrati sulla forza dell’elemento discrezionale proprio dentro contesti professionali ideologicamente convinti che la norma sia garanzia di percorso. In molti studi sul mare si vede come questa discrezionalità agisca in funzione delle pressioni ambientali circostanti, della presenza o meno di ONG o di attori dello stato sociale e così via.

In questo scenario la zona SAR è molto interessante perché garantisce un’azione di Stato “finalizzata alla salvezza della vita umana”, quindi una sorta di esercizio di uno “stato sanitario marittimo” (è una nostra forzatura) che si sposta continuamente e non coincide affatto con la fissità del confine di Stato in acqua, posto a 12 miglia dalla costa. La SAR, come confine dell’azione di stato, si sposta continuamente. La zona SAR italiana, ad esempio, si è contratta, cioè avvicinata alle nostre coste, nel 2018, in accordo alla contrattazione avallata dagli altri stati limitrofi attraverso organismi vari di cui ci dicono. Si è ritratta perché è stata istituita la SAR libica grazie al fatto che la guardia costiera libica è stata attrezzata dall’Europa e formata, in particolare dall’Italia, mostrando “capacità di sviluppo e di governo del caos, insomma di civiltà”.

Ma se uno stato a sud del Mediterraneo ferma i propri cittadini che fuggono dalla miseria o dalla guerra o dalle violenze che lo Stato stesso esercita, mostra “governo e capacità di civiltà” perché aderisce agli interessi della fortezza Europa? I ragionamenti sullo sviluppo delle competenze di Stato ci riporta ad impliciti coloniali con i quali è difficile interloquire dentro al campo etnografico, ma ne teniamo traccia. Imporre la propria convenienza e chiamarla civiltà pare un elemento pregnante della logica di stato europea.

3. “Separare la farina bianca e la crusca per poi rimetterle insieme nel pane integrale”. Il “confine logistico” e le sue tensioni con il discorso umanitario.

Tornando alla tensione interna tra culture istituzionali e organizzazioni statuali diverse ci pare di rincontrarla ancora e tanto. Qui lo Stato ha impedito varie volte lo sbarco di migranti per molti giorni, giorni di sete e di freddo, per poi mandare personale sanitario sul molo. “Lo Stato ti ammala e poi ti cura”, dicono spesso i detenuti in carcere.

Ancora, qui lo Stato ti separa all’arrivo da quelli che hanno viaggiato con te, secondo criteri di genere, provenienza ma anche presunta pericolosità.

[Intermezzo breve:
Prime valutazioni allo sbarco. Polizie. Frontex.
Chi guidava? Lui è vestito meglio di tutti…”
Fine intermezzo]

Capire prima di tutto chi è buono e chi è cattivo (e di solito seguendo piste con logiche non chiare e pratiche le cui radici normative stentiamo a identificare), quindi “dividere farina bianca da crusca”. Dividere spesso le famiglie, ad esempio, i figli con la madre, il padre non è semplice, non è automatico, dipende dai posti.

Poi però sulle navi quarantena c’è una figura specifica di un operatore/trice che ha il compito di indagare dove siano i parenti per riunire possibilmente il nucleo famigliare in seguito. Lo Stato lavora per dividere e poi riunire. Ancora, ti salva dall’acqua e ti consegna a destini tragici, a contesti cruenti.

Viene in mente un tipo di logica che potremmo chiamare “logistica” e che si basa sulla suddivisione tra sottoinsiemi operativi. Ogni sottoinsieme opera una funzione specifica che lo sottrae dall’idea che una visione complessiva sia parte della sua responsabilità. Una forma specifica di catena di produzione.

A conferma di questo, scopriamo il tipo di turn-over dei funzionari di polizia: il responsabile della polizia a terra ha turni di 15 giorni, l’unico comandante fisso è quello di guardia costiera. Così, non solo è più difficile che operino tra loro con spazi di “visione d’insieme”, cioè seguendo insieme il destino del migrante da prima a dopo il mare, ma diventa poi di fatto quasi impossibile per chi vive qui – associazioni, ONG, gruppi sociali implicati nella solidarietà – interagire con loro in modo stabile, sedimentare discorsi di contrapposizione o di collaborazione densi e incrementali.

E allora, infine, come agisce in tutto questo la parte di stato che chiamiamo lo Stato sociale? Quello che dovrebbe avere le sue operatività tecniche specialistiche per definire una accoglienza realmente accogliente? Non c’è. “Non possiamo identificare qui, accogliere qui stabilmente, fare il lavoro sociale previsto in un vero hotspot” ci dice un amministratore “perché lo spazio isolano è piccolo, e se accogliamo stabilmente poi rischiamo che li lascino qui a lungo”. Rischiamo che la terra scarichi sull’isola la miseria della frontiera. Racconti che evocano ripetutamente i concetti di “centro e periferia” che, per quanto discutibili, qui evocano un tipo di diseguaglianza sociale che deriva anche dalla posizione, una diseguaglianza territoriale.

Infine, non solo non c’è il punto nascita, per tornare al nostro incipit, ma non c’è l’accoglienza: i migranti sono chiusi dentro centri hotspot gestiti attraverso appalti e secondo capitolati a cui partecipano soggetti di varia natura. Per rispondere alla domanda iniziale, uno stato sociale assente.

Concludendo

Siamo al bar di pescatori, quelli precari, senza mezzi di produzione.
Pescatore: Ma voi cosa ci fate qui? Si vede che non siete di qui. Che venite da nord. Che non bevete davvero birra.
Ricercatrice: Beviamo birra.
Pesc.: No dai seriamente, cosa fai qui?
Ric: Cerchiamo di capire cosa succede intorno alla questione dei migranti.
Pesc.: Allora ti dico subito che ho votato a destra perché qui c’è troppo poco Stato. Magari la Meloni che è una tipa molto decisa porta qui servizi.
Ric.: Io credo che manderà motovedette.
Pesc.: Non lo so. Intanto almeno qualcosa lo Stato lo farà.

L'equipaggio della Tanimar

Siamo un gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma. Per due settimane, dal 26 settembre all’11 ottobre, attraverseremo il Mediterraneo centrale facendo tappa nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo: Pantelleria, Lampedusa, Linosa, Malta.