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Metterci una croce

30 settembre, quinto giorno

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Lampedusa. 35°31’ N – 12°35’ E

Ogni volta che il barchino era sul punto di rovesciarsi, loro urlavano. Fissavo quei volti terrorizzati e pensavo: è la prima volta che li vedo e anche l’ultima. Li guardavo uno per uno: devo guardarli bene in faccia perché fra poco saranno morti tutti, e nessuno saprà che faccia avevano. Io devo saperlo, devo riuscirci. Quella ragazza con il velo. Quel ragazzino con i ricci. Memorizzali, forza. Mi sentivo la loro tomba” (Caterina Bonvicini, Mediterraneo a bordo delle navi umanitarie).

Nel cimitero di Lampedusa c’è una camera mortuaria. Un piccolo locale con infissi in metallo anodizzato e i vetri rotti. Una di noi affacciandosi nota che c’è ancora una bara, chiusa. Quelli del Forum Solidale Lampedusa ci dicono che è di un ragazzo del Bangladesh. Sta lì da quindici giorni. E chissà quanto dovrà stare ancora lì.

Si può essere dimenticati anche prima di avere un posto dove giacere.

Un volontario del Forum ci mostra le targhe che fino a poco tempo fa ponevano sulle sepolture delle persone migranti. In PVC. C’è l’emblema del Comune di Lampedusa e Linosa, scritto in corsivo inglese; poi c’è una data, e poche righe che raccontano dove e in che circostanza era stato rinvenuto il corpo. A volte c’era un nome, a volte no.

Ora, grazie alla disponibilità di un artista, il Forum si è fatto carico di dare dignità e visibilità alle sepolture dei migranti. Così, oggi, le tombe di chi è scomparso nel corso del processo migratorio sono coperte da piastrelle che riproducono con tinte pastello fili spinati che rappresentano il confine, piume che forse alludono alla leggerezza dell’anima portata via ma anche onde e nuvole. Solo in un caso, il disegno raffigura un volto, e un nome: Weleba.

In effetti, mediamente, le tombe delle persone migranti sono più colorate di quelle dei lampedusani. E pare che alcuni inizino a lamentarsi anche del fatto che nel “loro” cimitero le tombe dei turchi siano sempre di più e sempre più visibili.

La visita alle tombe dei migranti nel cimitero di Lampedusa sollecita in noi sentimenti contrastanti. Ci ricorda che tutti siamo umani; questo sembra essere lo spirito che anima i volontari del Forum. D’altra parte, questo luogo sembra dare forma materiale alla necropolitica che innerva le politiche di controllo confinario nel Mediterraneo; da decenni.

È il Forum che si occupa delle tombe delle persone migranti morte in mare, ma il resto della società lampedusana sembra essere lontana. Quasi mai, i volontari del Forum riescono a rintracciarne i contatti nei paesi d’origine. Se i modi in cui celebriamo la morte di una persona dicono molto del modo in cui una società pensa se stessa, mi domando cosa racconta questa indifferenza. Mi domando se, alla fine, l’opera del Forum, più che delle persone migranti, parli di questo pezzo di Lampedusa che non si riconosce in un sentire comune che vuole rimuovere dal discorso isolano, e dalla sua proiezione pubblica, il tema delle migrazioni.

Il vecchio passa tutti i pomeriggi in fondo a Via Roma. Osserva il porto dall’alto, controllando gli sbarchi. “Tutta l’Africa in Italia non ci sta! Aiutiamoli a restare a casa loro…” ripete a chiunque gli si avvicini. “Io nel 2011 andavo tutti i giorni a prendere i cadaveri dalle barche. Ne ho sepolto più di ottanta. Non devono morire in mare”. A parlare è l’ex-custode del cimitero, che seppelliva i corpi dei migranti, ponendo una croce sui tumuli. Una croce fatta da lui. Sapeva benissimo che non tutti erano cristiani ma non era un segno di sfregio. Era un segno di rispetto. “Per me tutti sono cristiani”, diceva. “Io li ho seppelliti come tutti gli altri”. La morte affratella. E non è importante la religione, quanto il rispetto. “Finché il fisico me lo permetteva andavo a pregare sulle loro tombe, tutti i giorni”.

Sotto un’enorme pianta con dei fiori gialli, c’è una lapide che riporta una frase di Cesare Pavese:

“Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva e arriverò”

Mentre scrivo queste note, davanti a una gastronomia in una piazza vicino a Via Roma, due uomini si dividono un pollo mangiandolo con le mani. Uno dei due ringrazia l’altro per averlo invitato a pranzare con lui e gli dice “canuscivu omini bianchi cun un cori nivuru, e uomini nivuri cun un cori biancu”.

L'equipaggio della Tanimar

Siamo un gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma. Per due settimane, dal 26 settembre all’11 ottobre, attraverseremo il Mediterraneo centrale facendo tappa nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo: Pantelleria, Lampedusa, Linosa, Malta.