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Stare mare, appunti corali di navigazione verso Lampedusa

28 settembre, terzo giorno

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Abbiamo navigato 9 ore e 15 minuti e percorso 60 miglia. Ce ne restano altre 28 per arrivare a Lampedusa. 14 ore di navigazione per una distanza di circa 160 km, è un tempo a cui non siamo abituati, tempo dilatato… tempo per osservare il mare, un cielo stellato che sarà impossibile da dimenticare, tempo per ascoltare la storia di quando Tanimar è rimasta senza timone, alla deriva, ed è arrivata la guardia costiera ma… Sappiamo bene che non siamo tutti sulla stessa barca… Figurarsi, poi, se lo siamo tutte.

E l’università? La ricerca sociale collettiva ha delle potenzialità analitiche molto diverse dalla ricerca condotta in modo individuale ma… quando si fa davvero? Quando ci si prende il tempo per raccogliere dati insieme, per analizzare insieme? Serve trovarsi su una barca in mezzo al mare per prendersi il tempo necessario, non portare avanti 3 progetti diversi in parallelo e non essere impegnati per la maggior del tempo in compiti burocratici?

Sono qui da due giorni (o sono venti?) e il mio modo di muovermi, grazie all’esperienza in barca, è già cambiato. Il mio corpo si adatta velocemente a questi nuovi spazi stretti… Quanto tempo ci vuole ad adattarsi ai cancelli, e alle finestre con le sbarre? E ai container affollati? E al mal di mare? E a girar la testa dall’altra parte, ci si abitua? (Daniela)

La chiesa ha suonato le campane a morto, prima che lasciassimo il porto. Il viaggio inizia. Per alcuni di noi è un battesimo del mare, Il secchio del vomito è a portata di mano. L’onda formata spaesa chi fino ad oggi è stato in porto cullato dal beccheggio di Tanimar. A ognuno di noi viene dato un giubbotto e delle consegne di sicurezza. Abbiamo indumenti, abbiamo cibo, la sicurezza di due skipper a bordo, e la barca ci protegge dall’acqua che è sotto di noi. Mentre la radio gracchia e mantiene il contatto con lo spazio del soccorso e delle informazioni. I nostri corpi prendono confidenza con l’ambiente in cui ci muoviamo, passando attraverso la sofferenza. È ancora una volta un privilegio bianco il nostro, questo tipo di sofferenza. Ripenso alle barche del cimitero, a quelle condizioni di viaggio, a quei volti anonimi che provo ad immaginare. Ricordo le parole del nostro amico Georges, al racconto della sua traversata, le persone che piangono, le persone che pregano, le persone che vomitano e si pisciano addosso, le persone che urlano e si spingono, per salvarsi a volte a spese di altri. L’acqua ovunque, il motore che si arresta, i soccorsi che non ci sono, la radio che non risponde. Sul cellulare, appare un messaggio – è di una amica marinaia sbarcata da poco da una missione di soccorso della flotta civile. Ci augura buon vento e ci dice che in questo mare, non lontano da noi, Geo Barentz è da sei giorni in attesa di un porto sicuro con il suo carico di vite strappate al mare. (Luca)

Tanimar oscilla forte. Io provo quello che provo quando le cose non mi sono familiari: dall’esterno passo all’interno, dagli occhi mi sposto sulle viscere, per vedere come stanno. “Col corpo capisco” scrive Grossman, ed è vero, e anche io stamattina ascolto le mie viscere mentre Pantelleria si allontana. Che a dire il vero dopo un po’ mi sembra che ci venga dietro, resta imponente e vicina, noi navighiamo ma lei risucchia, mi pare, e resta lì a lunghissimo, orizzonte delle attese lasciate, alle spalle la intrasento, le voci degli isolani, quelle di cui abbiamo detto ieri, tanti Stati nello Stato, chi salva dall’annegamento, chi chiede i documenti, chi chiude nel container, ognuno un pezzo, nessuno il tutto, la voce dello stato sociale tace sommersa dai controlli e dalle paure… Comunque, le mie viscere sono ferme. Non ho il mal di mare. E visto che l’umanità stamattina si divide tra chi ha il mal di mare e chi no, io sto dalla parte giusta. Anche quando cerco di fare prove di annegamento, di scomodanza, di piedi nelle scarpe altrui, poi finisco tra i salvati, i sommersi tenuti dentro.

Mi ascolto. Non so perché, l’immagine che mi viene in mente è di due cugini tunisini che sono sul kayak insieme e uno vomita e l’altro no, uno rema, e l’altro no, uno muore e l’altro no. Oppure arrivano insieme e lottano per restare insieme, ma uno viene rimpatriato subito e l’altro no. Non so perchè due cugini, da dove sbuchino. Dai racconti di qualcuno ieri, dai ragionamenti se sia legittimo se abbia senso dividere maschi e femmine, padri e madri, due cugini. Mentre guardo l’acqua mi sento stanchissima di tutto questo smerdamento di chi viene dal sud, i tunisini oggi, i terroni ieri, la subalternità ingoiata, liberarsi dall’idea che davvero dobbiamo andare verso nord. Tanimar mi pare punti a sud, non so neanche bene, chiederò a chi ci sta portando. Benedetti i trasportatori, benedetti quelli che ci permettono di attraversare il mare, chiunque siano, e benedetti i miei cugini di viaggio di oggi. (Vincenza)

Siamo sulla stessa barca. Penso alle persone che attraversano questo stesso Stretto di Sicilia, in condizioni completamente diverse dalle nostre: stipati per ore e ore, sotto al sole, in piccole e fragili imbarcazioni di legno. Ustionati dal carburante, col rischio costante di naufragare e annegare, in questo mare… nero. No, non siamo sulla stessa barca. Molte volte mi sono chiesto, in modo un po’ naïve, se fossi in grado di salvare qualcuno. Partecipare ai salvataggi. Ma per prendersi cura di qualcuno bisogna essere in grado di prendersi cura di sé. Essere in una posizione sicura. Così penso la solidarietà. Non siamo sulla stessa barca, non abbiamo lo stesso posizionamento, ma non siamo del tutto salvi finché salvi non lo sono tutti. (Jacopo)

Che dire, chi dicu, un dicu nenti. Traggo nutrimento dal mare e dal sole. Mi sentu caliato e salato… cristallizzo momenti esperienze prime. Nel frattempo, penso attraverso le forme e i colori… attratto dai motivi delle cime, dai cavi inossidabili, da strumenti e processi meccanici ingegnerizzati. Staiuu navigando, viru la terra da una distesa di mare, cullato da un corpo galleggiante posato e aggraziato. Ma il pensiero torna indietro, a ieri, a lu cimiteri di lì varchii. Relitti che hanno perso la loro grazia… ancorati li su un fondale cementificato. Progettati per farsi guardare, colori brillanti… sono corpi inermi, gommoni sgonfi ma ugualmente gonfi (magari di speranze), convessi e conche che nascondono dettagli. Bottiglie d’acqua, cartoni di latte, biscotti andati a male. Cappelli, pinne, mute e tanti giubbotti fluorescenti gialli e arancio con righe catarifrangenti. Sbrilluccicano come gli occhi quando immagino, vedo persone che come me stavano alla ricerca navigando. Ricercare ognuno il suo… mondo fisico o interiore? Dentro al flusso mi preparo a non vedere, alla notte buia la fiducia è affidata a chi in porto sa navigare. (Anto)

L'equipaggio della Tanimar

Siamo un gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma. Per due settimane, dal 26 settembre all’11 ottobre, attraverseremo il Mediterraneo centrale facendo tappa nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo: Pantelleria, Lampedusa, Linosa, Malta.