Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
Manifestazione a Zarzis. Ph: Anis Khouildi

Zarzis 18/18, una mobilitazione in Tunisia per i morti nel Mediterraneo

Verità e giustizia per le 18 persone che hanno perso la vita nel naufragio del 21 settembre 2022

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Dopo l’ennesimo naufragio in Tunisia, madri, sorelle, famiglie, pescatori, attivisti, associazioni e società civile protestano contro le autorità tunisine che hanno abbandonato i corpi in mare e li hanno seppelliti senza identificarli.

Poi la folla si è radunata, in una rivolta pacifica, ma determinata e combattiva.
Tutto ciò che vogliono è la verità, come sono stati trattati i loro figli, durante la strana intercettazione in mare, della loro barca in navigazione.
Dove sono gli altri corpi, o quelli eventualmente dispersi, se anche loro sono morti, se così il destino ha voluto.
Tutti hanno giurato, dal loro antenato Sidi Essayah, per volontà di Allah, di lottare per raggiungere la verità.
Decine di migliaia di uomini e donne, portano insieme la fiamma di un risveglio collettivo determinato a superare la mediocrità per riportare giustizia nel mondo Che sia giusto, dignitoso e onesto, dove il cittadino, vivo o morto, sia rispettato e abbia dignità.
Era necessario gridarlo, ripetutamente e ancora, che il nemico non è necessariamente altrove, ma è nel nostro misero sistema (..)
Lihidheb Mohsen 18.10.2022

Azione in memoria del mare e dell’uomo, per le vittime del naufragio di Zarzis del 21.09.2022 e delle proteste delle famiglie tunisine

Zarzis, 18 ottobre. Ph: Felice Rosa

Il naufragio 21.9: le ricerche dei pescatori e della società civile

Da circa due settimane la città di Zarzis, sponda tunisina al confine con la Libia, è in preda alle proteste. Soprattutto madri e sorelle ma anche padri e fratelli, famiglie, associazioni sono scesi in piazza per chiedere la verità sulla scomparsa in mare dei propri concittadini. E’ l’ennesimo naufragio che interessa il sud della Tunisia, l’ennesima storia di ingiustizia, dolore e rabbia.

Tutto è iniziato dopo il 21 settembre scorso, giorno in cui 18 persone di Zarzis, tra cui due donne e un bambino di 8 mesi, sono partite verso l’Italia in barca senza mai arrivare a destinazione. Le famiglie ignare, in attesa da giorni, hanno cominciato a contattare le autorità tunisine, italiane, maltesi e ad allertare le ONG internazionali per avere notizie.

Nel frattempo, nella regione era circolata una voce che l’imbarcazione si fosse capovolta al largo delle coste della Libia. Alcuni avevano persino affermato che i migranti erano stati intercettati dalle forze libiche e arrestati. Si trattava solo di una voce che le autorità tunisine non sono state in grado di confermare o smentire. L’Associazione dei pescatori di Zarzis, guidata dal pescatore Chamseddine Bourassin – che negli ultimi anni ha salvato decine di migranti in mare – ha lanciato autonomamente delle operazioni di ricerca in mare. Il naufragio viene confermato quando un corpo, quello di Malek, viene ritrovato sulle spiagge di Djerba. I parenti delle vittime hanno allora cominciato ad indagare scoprendo che altri corpi erano stati recuperati dalle autorità locali nello stesso periodo ed erano stati sepolti senza prelievo del DNA nel “Jardin d’Afrique“, un cimitero dove vengono tumulati i migranti senza nome, per lo più di origine subsahariana.

Questi fatti hanno scatenato l’indignazione della comunità di Zarzis che ha cominciato ad organizzare azioni dimostrative e bloccare le strade per costringere le autorità locali e regionali a rispondere e ad intervenire nell’identificazione immediata delle salme. La repressione delle proteste non è mancata e il padre di Ryan, uno dei 18 dispersi, è stato arrestato e malmenato dalle forze di polizia a Gabes.

18/18: le proteste e le richieste delle famiglie

In mancanza di interventi decisivi da parte delle autorità di Tunisi, nella rabbia generale, alcuni familiari sono andati al “Jardin d’Afrique” per prendere i corpi per cui era stata data autorizzazione alla tumulazione. Così è emersa la verità: si trattava dei loro cari partiti il 21 settembre. Dopo questo episodio, su decisione del giudice, alcuni corpi sono stati dissotterrati ed è stato disposto un esame forense per determinarne l’identità.

Davanti alla collera delle famiglie, la direzione del Governatorato di Medenine ha ripetutamente affermato che le forze militari hanno impiegato molti mezzi nella ricerca dei naufraghi, ma senza trovare nulla. Tuttavia, l’incapacità delle forze statali di gestire le ricerche è stata dimostrata dall’azione efficace dei pescatori che hanno messo in piedi campagne di ispezione delle coste, organizzando pattuglie e setacciando diverse aree di mare e di terra. Solo in questo modo è stato possibile scoprire la verità. Così, poco a poco, diversi corpi sono stati recuperati, sebbene ne manchino diversi alla conta finale, come rivendicano le famiglie di Zarzis. 18/18 è la richiesta non trattabile dei manifestanti: verità e giustizia, ritrovamento e seppellimento di tutte e 18 le persone che hanno perso la vita.

Gli abitanti della regione accusano le autorità non solo di negligenza ma anche di non adempiere alle procedure legali relative alle morti sospette, cioè autorizzando la sepoltura immediata dei corpi ritrovati in mare: il governatore avrebbe firmato i documenti che consentivano il seppellimento delle salme corpi senza il prelievo del DNA sulla base di un rapporto di un medico che avrebbe suggerito l’accelerazione della procedura di inumazione in quanto i corpi si trovavano in avanzato stato di decomposizione. Tuttavia la prassi prevede che per morte sospetta sia sempre e comunque effettuata l’estrazione del materiale genetico. Proprio per questo, durante la visita del 14 ottobre 2022, il governatore di Medenine, giunto per incontrare la delegazione della comunità di Zarzis a distanza di settimane dal naufragio, è stato cacciato dai manifestanti.

La situazione nei giorni passati si è scaldata molto: sono state innalzate barricate e sono stati incendiati cassonetti. I cittadini in stato di agitazione hanno chiesto spiegazioni e un maggiore coinvolgimento delle autorità locali e centrali, sottolineando la mancanza di interesse sul tema dell’harga da parte del governo.

Partiti da stranieri, morti da sconosciuti

Maha, la sorella di uno scomparso di Zarzis ha affermato:

I nostri giovani sono partiti come stranieri del loro Paese e ugualmente sono stati sepolti come stranieri, non riconosciuti”

Infatti, sono migliaia i giovani tunisini che lasciano la Tunisia perché si sentono traditi dal loro Paese, privati delle possibilità di poter lavorare e condurre una vita dignitosa; altrettanti quelli che in questi anni hanno perso la vita in mare, mentre cercavano di raggiungere un maggior benessere, e sono stati seppelliti senza nome, ridotti a numeri.

Come dice Maha, è lo Stato che sembra renderli stranieri – ed estranei – al loro stesso Paese, perché non riconosce i loro bisogni e li spinge a partire, perché non riconosce le loro morti e li abbandona sulle spiagge locali o in qualche loculo italiano.

Proprio in queste ultime settimane autunnali – in cui le partenze dalla Tunisia verso la Sicilia e la Sardegna sono state molto intense – diversi barchini di persone migranti non sono giunte alla destinazione sperata e le loro vite si sono scontrate con il muro delle frontiere mortifere. Negli ultimi giorni, le autorità tunisine hanno annunciato di aver ritrovato circa 30 corpi – 15 giovedì scorso e altri 15 il martedì passato – appartenenti a persone di varie nazionalità, sulle coste di Mahdia. Tra questi, una famiglia tunisina di 4 persone, con due bambini piccoli, anche loro partiti dalla Tunisia il 22 settembre scorso.

Sul lato europeo, nelle ultime settimane 5 corpi sono stati recuperati presso le coste sarde di Cagliari, 3 vicino alle coste trapanesi di Marsala (Trapani) e 2 presso le tristemente note acque di Lampedusa (Agrigento). Si presume che siano tutte persone di origine tunisina, tutte persone le cui famiglie sono in attesa di sapere la verità, confrontandosi in Tunisia e in Italia con percorsi di ricerca complessi e incerti.

I cimiteri dei “senza nome” in Tunisia

Il caso di Zarzis ha messo in discussione in Tunisia la credibilità delle procedure messe in atto per il recupero dei cadaveri e la loro identificazione nel corso degli anni. Un processo che non riguarda solo quest’ ultimo naufragio ma il sistematico approccio al tema degli scomparsi nell’area euro-mediterranea.

Di migranti morti in mare ne è piena la Tunisia: non solo l’area di Zarzis – dove il “Cimitero degli sconosciuti” curato da Chamseddine Marzoug si è riempito fino ad esaurirsi e il “Jardin d’Afrique” ha quasi raggiunto il limite massimo – ma soprattutto la zona di Sfax dove, nei tre cimiteri comunali, sono sepolti centinaia di corpi non identificati – in particolare di persone di origine sub-sahariana. Numerosi sono anche i corpi che per mesi sono rimasti nella camera mortuaria dell’Ospedale universitario Habib Bouguiba della città di Sfax, senza un nulla osta delle autorità che autorizzasse la procedura di tumulazione, anche in mancanza di posti disponibili per il seppellimento nei cimiteri locali. Migliaia sono poi le persone considerate disperse in mare, le cui famiglie hanno fatto segnalazione di scomparsa alle autorità competenti senza mai ricevere risposte.

Queste sepolture anonime o non sepolture – che testimoniano delle morti a causa dell’esternalizzazione delle frontiere europee e degli accordi con i Paesi terzi – sollevano numerose questioni: Quale supporto per le famiglie che denunciano le scomparse alle autorità? Quali procedure hanno guidato la ricerca e l’identificazione delle centinaia di vittime, autoctone e straniere, seppellite nel territorio nazionale? Quali risorse umane e materiali sono state effettivamente impiegate allo scopo di ricercare e identificare gli scomparsi?

La maggior parte degli sforzi delle autorità – economici e tecnici – sembra essere rivolto ad altre questioni, come agli arresti delle barche in mare al fine di bloccare con tutti i mezzi gli harraga.

Intercettazioni in mare e oblio in terra

Infatti, andare alla ricerca di barche che attraversano il Mediterraneo fa parte delle competenze delle autorità tunisine, soprattutto negli ultimi mesi, come dimostra l’aumento del numero delle operazioni della Guardia Costiera tunisina per fermare le partenze dalla Tunisia, in particolar modo dalle spiagge di Sfax: le intercettazioni in mare, finanziate grazie al memorandum tra Italia e Tunisia, sono praticate però in nome della protezione e della sorveglianza dei confini.

Paradossalmente, proprio mentre le mobilitazioni della comunità di Zarzis erano in corso, le autorità tunisine continuavano il loro lavoro di intercettazione delle persone – vive – in mare: solo nel fine settimana dell’8 e 9 ottobre, secondo il Ministero della Difesa tunisino, sono stati arrestati quasi 200 migranti nel tentativo di partire; e dall’inizio dell’anno, 22.500 persone, di varia origine, sono state intercettate nello stesso modo lungo la costa tunisina dalle imbarcazioni militari nazionali, quelle stesse imbarcazioni accusate di non aver adempiuto al lavoro di soccorso e salvataggio.

Queste contraddizioni hanno risvegliato la rabbia di tutte quelle famiglie che dal 2011 sono rimaste in attesa che i governi rispondessero alle richieste sul destino dei loro giovani e che oggi – sull’onda di un crescente aumento delle partenze e delle morti – non ha più nessuna remora ad esprimersi.

Ph: Anis Khouildi

Infatti, l’importanza di quello che sta accadendo a Zarzis può essere compreso solo inserendo questi fatti nel più ampio dibattito nazionale sul tema dell’harga, in cui le famiglie passano dall’essere ignorate, all’essere manipolate per interessi politici fino all’essere accusate di colpevolezza da parte delle istituzioni, come nel caso recente delle madri/ sorelle tunisine di migranti dispersi che poche settimane fa sono state criminalizzante come responsabili delle partenze e quindi delle morti dei figli da parte di Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr nel Mediterraneo.

Si tratta delle stesse donne tunisine che quotidianamente combattono l’indifferenza delle istituzioni e che proprio in queste ore hanno scritto una lettera di solidarietà alle madri di Zarzis, stimandone il coraggio e la forza con cui hanno presentato le loro istanze costringendo le autorità a rispondere delle proprie responsabilità.

La mobilitazione per i 18 di Zarzis riguarda tutti

Una rabbia coraggiosa che, partita dal profondo sud tunisino, è salita a nord e sta animando tutta la Tunisia, colpita da una crisi economica sempre più grave, dove la gente deve contendersi lo zucchero, l’olio e il riso in mancanza di bene di prima necessità. Infatti il tema dell’harga non può essere svincolato dalla degradazione delle condizioni sociali che rendono oggi la Tunisia un Paese pronto ad esplodere: la direzione autoritaria e liberticida del governo di Kais Said, l’inflazione record al 9%, l’aumento dei prezzi e la crescita del tasso di disoccupazione stanno colpendo la popolazione, soprattutto quella giovanile che sempre di più è spinta a lasciare la propria terra a costo della vita. A Tunisi, il 15 ottobre una protesta di centinaia di persone guidata dalle famiglie dei migranti scomparsi si è concentrata davanti al Teatro comunale della capitale, proprio accanto alla manifestazione contro le politiche del governo e la violenze della polizia che nello stesso giorno ha occupato il centro tunisino.

I nomi dei 18 sono stati urlati in Avenue Bourguiba e hanno occupato le bacheche Facebook, i giornali e le tv locali: Yassmine Abdelkrim, Mouhamed Ali knichli, Aymen Wrimi, Saif Edin Belhiba, Mouna Awida, Malek Wrimi, Aymen Mcherek, Louay Abdelkarim, Mohamed Abdelkarim, Omar Abdelkarim, Yessine Chtioui, Mohamed Lhedi Jirtila, Welid zridette, Rayen Al-awdi, Hazem Mohandes, Sejda Nassr, Zehir Aajmi.Nnomi dei morti per mano della frontiera del mare che continuano a risuonare nelle strade di Zarzis in queste ore.

Proprio per loro, il 18 ottobre, un grande sciopero generale – indetto da Union générale tunisienne du travail (UGTT) – ha fermato la cittadina di Zarzis, dove ogni attività è stata interrotta: dalla pesca al mercato, dalle scuole agli uffici, tutto è rimasto chiuso. La popolazione ha accompagnato la salma di uno degli ultimi identificati, Yassmine, ed ha partecipato al seppellimento, alla cerimonia funebre nel cimitero e poi al corteo che ha attraversato la città.

E’ stato qualcosa che non si vedeva dalla rivoluzione del 2011” ha detto Walid, un attivista di Zarzis.

Una mobilitazione importante che non riguarda solo Zarzis, né solo la Tunisia: riguarda tutti i testimoni di questi crimini, che interpellano anche i governi europei, in primis quello italiano. Migliaia di persone hanno invaso le strade con richieste precise per fare luce su una storia che si ripete in silenzio da troppi anni. Una storia che nessuno sembra davvero ascoltare perché nessuno sembra avere davvero interesse ad intervenire. Allora queste voci vanno amplificate e riconosciute con urgenza: per i 18 che sono partiti quel 21 settembre scorso senza mai più tornare. Per un atto di giustizia verso tutti coloro che giacciono senza nome, in mare o in terra, partiti da stranieri e morti da sconosciuti.

Silvia Di Meo

Sono antropologa, ricercatrice e dottoranda in Scienze Sociali, attivista antirazzista. Opero nell’area del Mediterraneo, in particolare in Sicilia e in Tunisia. Mi occupo di etnografia delle frontiere, delle mobilità e delle mobilitazioni migranti, oltreché dell’analisi delle politiche migratorie ai confini esterni ed esternalizzati. Sono attiva nelle reti nazionali e internazionali per la libertà di movimento e per il supporto alle persone migranti.