Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
Ph: Solidarity With Migrants
/

Donne migranti: come vengono o sono state spesso raccontate?

Recensione del libro «Migranti e rifugiate. Antropologia, genere e politica»

Start

«Migranti e rifugiate. Antropologia, genere e politica» di Barbara Pinelli, edito da Cortina è un libro che contiene un quadro generale di sapere storico sui femminismi, sulle tappe dove la disciplina antropologica s’interroga sulle vite delle donne e, infine, su ciò che non è stato raccontato quando si è parlato di donne migranti.

L’opera getta sì linee generali, ma è puntellata da preziosi riferimenti bibliografici. Per chi legge Melting Pot è importante capire soprattutto cosa è mancato (o manca tutt’ora) negli scritti sulla migrazione, o ancora, come sono state erroneamente rappresentate le donne che migrano.

Il fattore genere nelle storie di migrazione determina spesso il tipo di lavoro e di ambiente vissuto. C’è una relazione che intercorre tra genere e migrazione, all’interno della quale troviamo fattori che influenzano l’uno e l’altro, come: il mercato del lavoro, il capitalismo globale, gli stati. Istituzioni come le famiglie e le reti affettive poi, influenzano il genere: per esempio, può capitare che in certi luoghi, la migrazione di una persona maschile possa essere letta come simbolo di mascolinità e carisma per chi compie il viaggio e si punterà a far partire lui e non lei. Le migrazioni riconfigurano sistemi d’ineguaglianza di genere e modificano rapporti di potere tra i generi. Il genere struttura le migrazioni ed è da loro, a sua volta, strutturato.

Se dovessimo rispondere brevemente alla domanda del titolo, potremmo dire che spesso le donne che migrano sono state e sono tutt’ora descritte come vittime. Non solo. Smettono di essere persone complete di storie, abitudini, tradizioni, modi di fare per diventare solo corpo.

Vengono, in altre parole, svuotate dalla loro unicità e rese corpi generali e generici che migrano.

Ciò ha delle conseguenze: semplifica la lettura di fenomeni complessi, silenzia le verità e, ancor prima di tutte, compie l’ennesimo atto coloniale.

È vero che le persone che migrano sono vittima di violenze: ma non sono solo questo.

Inoltre, si pensa tanto alle violenze avvenute fuori dall’Europa/prima dell’arrivo, eppure le violenze spesso non finiscono al varco dell’Europa. Lo stesso apparato delle politiche di asilo compie azioni a volte di protezione e di sorveglianza e, questa ambivalenza, comporta rischi di errori e di disattenzione verso il dolore della persona che necessita cura e ascolto.

Nella Convenzione di Ginevra (atto politico internazionale di giustizia firmato per lo più da, allora, stati aventi delle colonie!) si parla di violenze, ma sono tutt’ora difficili da dimostrare le violenze di genere così come le violenze compiute nel privato. Eppure, sappiamo che tra la sfera pubblica e quella privata, spesso le donne sono relegate nelle seconde o ci si ritrovano per lavori domestici.

Le violenze dentro le case non dovrebbero avere zero voce nel dibattito pubblico poiché anche loro sono esempi di modelli culturali e di relazioni di potere machisti e patriarcali incorporati da tempo. In sintesi, esse hanno una valenza politica tanto quanto ciò che accade nel pubblico.

Un altro modo spesso usato per descrivere le donne che migrano è che debbano essere educate (loro da noi: ecco che torna la matrice coloniale). Mi spiego meglio: spesso il sistema di asilo tende a prendersi cura sì della persona, ma svuotandola da tutta la cultura e le pratiche che l’abitano: in altre parole, spesso sembra come se la migrazione e le politiche umanitarie portassero verso la modernità, nonché verso l’unica via giusta di stare al mondo. Non è insolito poi che istituzioni umanitarie creino stereotipi di genere. In breve, le donne che migrano sono state costantemente cancellate dalla storia perché non si è scritto di loro oppure si è negato loro l’essere parte della Storia: certo, magari a questa parte di latitudine una storia meno conosciuta, ma pur sempre esistente e valida (se mai la storia dovesse esser validata da qualcuno…e guarda caso in questo ruolo ritroviamo sempre lui: l’uomo bianco occidentale etero cis di ieri e di oggi).

Cosa non fare più / Cose da ricordare su migrazioni, corpi e ricerca
  • Descrivere le donne che rientrano nelle categorie donne e migranti come ad un gruppo omogeneo al loro interno: nessun gruppo lo è mai stato; inoltre, omogeneizzare un gruppo silenzia la pluralità di voci che invece sono utili per comprendere situazioni complesse come patriarcato, violenze ecc. o la stessa realtà vissuta da quelle donne facente parti quelle due categorie.
  • Non soffermarci sul presunto assunto per cui uomo vuol dire neutro o universale: gli studi sulla migrazione (così come altri) che non dicono espressamente donna o altro, non sono universali, non coinvolgono scontatamente le donne. Solitamente l’uso del maschile non è una parola neutra e universale, bensì è una parola escludente e di potere sulle donne o su chi è diverso da lui. Per anni le migrazioni sono state studiate considerando solo persone migranti facenti parte corpi maschili, anche se la migrazione non riguardava, non era fatta solo da loro.
    Per esempio, grazie al lavoro di alcune storiche femministe della migrazione come Gisela Brock è stato possibile scoprire che nelle Germania della Seconda Guerra Mondiale le donne straniere ricoprivano spesso ambienti e lavori degradanti e mal pagati; spesso avevano solo vent’anni, e, se fossero state incinte, avrebbero rischiato violenze da parte di uomini di quella nazione, poiché così diceva la legge (le violenze per evitare nascite erano legali!). Erano, in breve, alla mercé degli uomini etero-cis nazionalisti dell’epoca o di chi non riusciva a ribellarsi dal mito-obiettivo del maschio alfa rispettabile se visibilmente violento.
  • Guardare alle migrazioni da più punti di vista, dove ogni persona è vista come viva e posizionata in certe posizioni in merito a dimensioni quali la classe economica, il sesso ecc.
  • Decostruire l’apparente naturalità che circonda la maternità transnazionale. Esistono variabili culturali, norme sociali, nonché rapporti di forza che concorrono a creare il ruolo della donna nella dimensione della parentela. Gli studi sul transnazionalismo ci vengono in aiuto nel capire come è certo che i processi migratori creano delle alterazioni nelle relazioni affettive: cambia cioè la prossimità con chi amiamo, ma ciò non riguarda solo eventuali figlie e figli, ma anche amiche, sorelle, compagne. Le strutture familiari e amicali del lì (del luogo lasciato), cambieranno anche in base al tipo di reti, forti o deboli esistenti.
  • Ricordarci che uno studio che prenda in considerazione l’emotività della ricercatrice e/o delle persone intervistate non è uno studio meno scientifico di altri. La sfera delle emozioni è un qualcosa che ci riguarda e plasma tutte e saperlo vuol dire esserne consapevoli.
  • Pensare che uno studio possa essere scientifico, oggettivo e completo: ogni studio sarà sempre parziale e contingente.
  • Ripensare alle violenze di genere: evitare essenzialismi e fissità che le vedono presenti solo in certi culture, luoghi o corpi. Importante sarà allora che gli strumenti legali tutelino le persone da violenze esercitate anche da apparati e che si studi la violenza in maniera intersezionale.

    Mara Degiorgi

    Per dire qualcosa, bisogna essere qualcosa/qualcuno? E cos’è che fa di te quel qualcuno/qualcosa? Scrivo, leggo, penso. Sono un’antropologa, una geografa, altro. Nata a Lausanne nei primi anni Novanta da un padre salentino e da una madre limeña. Cresciuta tra San Francisco, Torre Vado, Lima.