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La SAR che non salva

Il secondo episodio del reportage «Crepa. Testimonianze e riflessioni dal Mediterraneo centrale»

CC-BY-SA RESQSHIP

«Crepa» nasce dalle esperienze ed emozioni che ho vissuto a bordo del veliero Nadir di RESQSHIP, l’ONG tedesca proprietaria della nave, durante una missione di monitoraggio, ricerca e soccorso. E’ un racconto in cinque articoli che escono ogni mercoledì di novembre, a partire dal 2 novembre 2022: un giorno infame per il rinnovo del Memorandum tra Italia e Libia. «Crepa» è una parte di quello che vorrei dire alla fortezza Europa 1.

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La nostra missione è durata 21 giorni, di cui 15 giorni trascorsi in mare. Abbiamo soccorso circa 110 persone da tre imbarcazioni diverse. In questo articolo scrivo della realtà geografica, amministrativa e politica che ha fatto da sfondo a tutte le nostre operazioni: la zona SAR. Ne racconto anche le contraddizioni attraverso la lente del nostro primo salvataggio.

È il settimo giorno di navigazione. Sono a prua, armeggio con una qualche fune quando sento sul canale radio 16 un’allerta. È (presumibilmente) un peschereccio tunisino che ha avvistato un’imbarcazione in difficoltà. Mi si attiva una concatenazione di meccanismi più o meno riassumibile con: tuffo al cuore, concentrazione, smettere di fare qualsiasi cosa stessi facendo e andare verso la radio, trovare carta e matita, accendere il registratore.

L’allerta che sentiamo è pronunciata in un misto di italiano e francese, marcata da parole chiave ripetute “bateau, bateau”, “clandestino”; il tono è concitato ma non caotico. Arriva la risposta dalle autorità portuali lampedusane: “ho capito, dovete aspettare”. Poi ancora, “dovete aspettare”. Loro parlano italiano e traduco per Johannes, il nostro skipper (capitano). Sono informazioni che ci fanno quasi sperare: una comunicazione abbastanza funzionante, a Lampedusa sono allertatə, si staranno organizzando per coordinare una risposta. Invece poi sentiamo quel “abbiamo inoltrato la richiesta alle autorità competenti” e capiamo che non ci sarà nessun supporto. Ci dirigiamo verso le coordinate che il peschereccio ha indicato, senza risparmiare il motore.

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SAR significa Search and Rescue e si riferisce alle attività che devono essere svolte quando un’imbarcazione è in pericolo. Il diritto marittimo internazionale, in particolare attraverso la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo del 1979, chiarisce che in caso di necessità gli Stati competenti devono intraprendere azioni urgenti per garantire l’assistenza necessaria nella corrispettiva zona SAR. Le coordinate che abbiamo sentito via radio posizionano l’imbarcazione in zona SAR maltese, quindi spetta a Malta coordinare le operazioni di soccorso.

Il primo cortocircuito della SAR nel Mediterraneo centrale è che spesso le imbarcazioni in difficoltà si trovano in zona SAR maltese, ma sono molto più vicine a Lampedusa. Sarebbe naturale quindi che fossero le autorità italiane a coordinare le operazioni di soccorso. Invece l’Italia nella maggior parte dei casi obietta che le autorità responsabili sono quelle maltesi e rimbalza le richieste a Malta.

Questa falla nella SAR è in realtà una voragine perché si interseca con l’abdicazione di responsabilità da parte di Malta. Con una semplicità disarmante, Malta non risponde alle richieste di soccorso. Dopo poco ci si abitua, si perde sensibilità verso quella che è una grave violazione del diritto internazionale. Per come l’ho metabolizzato io, le navi della civil fleet, tra cui la Nadir, ormai inoltrano a Malta mayday relays e richieste di coordinare le operazioni di soccorso non tanto perché sperano di trovare un supporto, quanto per rispetto unilaterale del diritto.

Per sintetizzare quello che spesso succede quando un’imbarcazione della civil fleet ne soccorre una in difficoltà: 1. Malta ignora le richieste di supporto, 2. si chiama l’Italia, 3. l’Italia dice di non avere competenza o di aver inoltrato la richiesta alle autorità competenti, le maltesi. Può andare avanti in loop in modo frustrante, a rimetterci sono sempre le persone che rischiano la vita.

In mare le distanze sono ingrandite dalla lentezza a cui le barche procedono, a causa dell’attrito. La Nadir, ad esempio, raramente sorpassa gli 8 nodi, 15 km orari. Impieghiamo circa 8 ore per raggiungere il punto dove finalmente troviamo l’imbarcazione, con un motore non funzionante e 34 persone a bordo. Mantenendo una distanza di sicurezza, ci avviciniamo, prendo il megafono e inizio a parlare.

«Siamo amichə, veniamo dall’Europa. Vi aiuteremo. Per favore rimanete sedutə, così la vostra barca sarà più stabile» dico in francese. Prima della missione avevo paura che la comunicazione di cui ero responsabile non avrebbe funzionato, che non sarei stato capace. Non riuscivo a proiettarmi nella situazione, nonostante il training. Invece mentre parlo una parte di me sente il sollievo che sta funzionando, riusciamo non solo a scambiare informazioni, ma anche a collaborare in modo efficace.

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Il primo contatto ha due obiettivi principali: stabilire il meccanismo di comunicazione e fare una ricognizione generale, tra cui l’identificazione di eventuali problemi medici gravi, dello stato del motore e delle condizioni dell’imbarcazione. E’ notte, li illuminiamo con un fascio di luce. Mi vergogno a illuminarli e scrutarle. Non sono nemmeno sicuro di come mai, forse sento il peso dell’ingiustizia che porta me ad avere un passaporto rosso e loro a tentare di arrivare in Europa come stanno facendo.

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L’imbarcazione contiene troppe persone in uno spazio troppo angusto. La linea d’acqua è alta, per il peso di chi è a bordo. Non ci sono però emergenze mediche gravi e sembra che il motivo per cui il motore non funziona sia che manca il carburante. Fa male, ma decidiamo che se possibile continueranno il viaggio nella loro barca. Daremo loro una tanica di benzina e li scorteremo da vicino, fino a Lampedusa, prontə a intervenire in caso di necessità.

Mentre faccio luce con una torcia per mantenere il contatto visivo, penso al fallimento collettivo, sociale che stiamo vivendo. Io voglio solo prenderlə a bordo. E sono sicuro che lo preferirebbe ognunə di noi. Abbi mi dice «E’ molto difficile per me, in quanto dottoressa, non portare immediatamente aiuto». Eppure la situazione politica non ce lo permette. Infatti gli Stati non solo non aiutano durante le richieste di soccorso – Malta non rispondendo, l’Italia rimbalzando a Malta, etc.- ma sono anche ostacoli attivi. Spesso, quando una nave della civil fleet tenta di sbarcare le persone in un porto sicuro, le autorità negano l’accesso. O fanno aspettare giorni su giorni. La politica dei “porti chiusi”, purtroppo ritornata attuale, coesiste infatti con quella più nascosta delle trafile amministrative e delle paludi burocratiche. Non vogliamo rischiare di vedere la Nadir bloccata per un tempo indefinito, attendendo l’assegnazione di un porto sicuro dove sbarcare le persone soccorse, e di lasciare nel frattempo il Mediterraneo centrale ancora più sguarnito.

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Continuiamo a scortare lentamente l’imbarcazione per circa un’ora, fino a quando le condizioni peggiorano, una persona ha bisogno di attenzioni mediche. La evacuiamo, assieme alle donne ed a una bambina. Chiediamo agli uomini di rimanere a bordo e loro rispondono con la massima collaborazione. Sembra assurdo, ma è tutto così reale: gli uomini ancora sull’imbarcazione procedono alla velocità che il loro motore permette, 2 nodi, nemmeno 5km orari, poi il motore cede completamente. Per la terza volta dobbiamo decidere di lasciarli sul loro barchino, anche se ormai senza propulsione. Passiamo loro una fune e iniziamo a trainarli. Ormai è mattina e, mentre procediamo verso Lampedusa, li sento cantare. Sono contenti che tutto questo stia per finire.

Charlie Papa 319, la Guardia Costiera italiana, è avvertita, ci viene incontro in prossimità di quel confine immaginario che delimita la zona SAR italiana, entro la quale non si può più rispondere “abbiamo inoltrato la richiesta alle autorità competenti”. Quando terminiamo il trasbordo delle persone e le vedo allontanarsi a bordo di Charlie Papa, ci salutano. Ripenso alle persone soccorse. È di loro che parla il prossimo articolo.

  1. Le opinioni contenute in questi articoli sono personali

Pietro Desideri

E se i confini non esistessero? Cerco di trovare risposte (spoiler: si starebbe meglio). Lavoro in programmi di cooperazione internazionale, dove porto una prospettiva anticoloniale e antirazzista.
Ho approfondito le tematiche legate all'asilo e all'immigrazione vivendo a Lesbo, in Grecia. Ho partecipato a una missione SAR con l'associazione RESQSHIP, a bordo della Nadir. Mi piace il copyleft e Banksy.
Per contattarmi: [email protected]