Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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Le frontiere invisibili

Osservazioni sulla formazione «Operare in Frontiera» di Asgi

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Per il quarto anno consecutivo ASGI e Spazi Circolari, hanno promosso la formazione gratuita «Operare in Frontiera» 1 che si è svolta a Lampedusa il 7 e 8 ottobre 2022. Quest’anno la formazione «Le frontiere del diritto» ha avuto come focus il tema della libertà di movimento, provando a scostarsi da una prospettiva esclusivamente giuridica per abbracciare una prospettiva multidisciplinare che restituisse diverse visioni del tema.
Di ritorno da Lampedusa, ne ha scritto Lidia Tortarolo.

Che cos’è una frontiera?

Intendiamo i confini come linee nette, che separano un noi da un loro, un qui da un là. Ma essi non possono più essere intesi come il tratto più esterno di un insieme, che separa territori e popolazioni. Il confine è processuale, in continuo cambiamento, fluido; è creato dalle persone che lo concepiscono, dalle istituzioni che lo definiscono, dalle idee che chi lo attraversa proietta su di esso. Il confine è un prodotto delle molteplici intersezioni tra tutte le pratiche, immagini, memorie, idee, leggi, politiche che lo riguardano. È certamente qualcosa che filtra il passaggio delle persone, ma non lo interrompe. È discriminante nel senso letterale del termine: differenzia, pone dei criteri di accettazione e negazione dei corpi che possono oltrepassarlo, e definisce le modalità di queste possibilità. È il sito dove più emerge il potere che controlla le soggettività, e le plasma; ed è un luogo di rivendicazione e risignificazione dello stesso, il luogo in cui è possibile attuare una resistenza. Il confine è anche sito di negoziazione, un campo dove le interazioni di potere, subordinazione, marginalizzazione emergono con più evidenza e ferocia, ma dove anche le pratiche di resistenza trovano un terreno fertile dove nascere e rafforzarsi.

E ad oggi dov’è il confine? A quali nuovi pratiche si rifà, quali soggettività e pratiche compartecipano alla sua riproduzione? Il 7 e l’8 ottobre ci siamo incontratə a Lampedusa: professionisti della migrazione, attivistə, avvocatə, studentə, ricercatorə. Ce lo siamo dettə: abbiamo riconosciuto Lampedusa come un luogo di frontiera. Riconoscendola come tale, portandoci sul suo territorio, attraversandolo con le pratiche, le parole, e gli immaginari di tuttə noi, abbiamo contribuito alla sua esistenza come effettivo luogo di confine. Questo è un primo punto: i corpi e tutto ciò che essi possono fare, pensare, agire, plasmano lo spazio, lo modificano, ne reiterano o contrastano i significati.

Abbiamo dialogato per due giorni, navigando tra quelle che sono le frontiere più o meno visibili, più o meno materiali, che condizionano la vita delle persone in movimento, di chi è visto come costitutivamente diverso. L’Altro è la diversità dalla quale non può prescindere, così radicalmente che si trasforma in essa.

Una prima osservazione: il confine cambia nel tempo, ma la sua logica rimane invariata. Osservando alcuni esempi storici, si riesce a cogliere tale continuità, significando la perseverante violenza che descrive così tristemente la gestione dei corpi estreanei, ad oggi. Michele Colucci, ricercatore del CRN (Istituto di Studi sul Mediterraneo), ci ricorda che fino al 1961 – anno in cui vengono finalmente abolite le reggi fasciste sull’urbanesimo – in Italia non era possibile trasferirsi in un Comune diverso dal proprio se non per motivi di lavoro. Così l’Italia vedeva i suoi cittadini impossibilitati a muoversi liberamente sul territorio, se non attraverso mezzi irregolari. È dunque l’immagine di un’Italia – di per sé storicamente frammentata – che si divide ancor di più a causa di barriere interne, invisibili ma strutturali, frontiere che impediscono la mobilità se non all’interno della cornice legittimante del lavoro. Confini invisibili, definiti dalla cornice giudiziaria delle leggi fasciste, che frammentano un’Italia da poco resasi unita, ma che soprattutto definiscono chi e per quali motivi ha il privilegio dello spostamento.

È familiare, tutto questo. È familiare al cittadino extracomunitario che, per poter accedere al territorio europeo regolarmente, deve essere invitato dal futuro datore di lavoro. È familiare alla persona che quel contatto non lo riesce a trovare – dell’Europa conosce solo le storie che gli sono state raccontate.

Dialogando, abbiamo ritrovato il confine in luoghi familiari, interrogandoci sulle pratiche che lo rendono vivo e sul ruolo di chi compartecipa alla sua riproduzione. Giovanna Di Matteo, ricercatrice in geografia dell’Università di Padova, pone l’accento sulle pratiche di costituzione della frontiera nelle isole di Lampedusa e Lesbo, osservando le narrazioni legate a questi luoghi – fatte di invasioni, tragedie, talvolta accoglienze. Narrazioni che mutano nel tempo e che impattano strutturalmente sulle pratiche di gestione migratoria, che definiscono le possibilità delle persone direttamente interessate ad attraversare questi luoghi. Confini sempre più esterni, marcati dal binomio invisibilità/ipervisibilità a seconda delle esigenze; luoghi di controllo primario, di identificazione, di filtraggio. Prime barriere, apparentemente insormontabili (ma il confine discerne, non arresta).

All’interno di questi contesti, assumono un ruolo sempre più significativo le realtà umanitarie che, se da un lato rivendicano la necessità di rispettare i diritti umani delle persone, dall’altro, attraverso la presenza sul territorio frontaliero, contribuiscono al perpetuarsi dello spazio di confine, reiterando talvolta quelle stesse modalità deumanizzanti e vittimizzanti che si vorrebbero contrastare.

Ma il confine non è sempre così identificabile; si ripropone anche all’interno, nel qui.

Prendiamo il sistema delle banche dati. Federica Remiddi e Giovanni Popotti, avvocatə Asgi, ci raccontano del loro funzionamento, e dell’impatto che esse hanno sull’esistenza delle persone straniere. L’accesso al territorio italiano implica l’inizio di un controllo costante, fatto di foto-segnalamenti, impronte digitali, richieste di documenti, dati e narrazioni personali. Una mappatura continua dell’identità della persona, in un sistema sempre più raffinato di controllo e gestione dei dati, che tende verso l’interoperabilità: diverse banche dati che possono attingere alle informazioni reciproche, migliorando le prestazioni di identificazione e segnalazione dei soggetti. Questi ultimi, di conseguenza, vengono sempre più deumanizzati, all’interno di un sistema caratterizzato dal bias strutturale della razza, dove chi è Altro è pericoloso in potenza, e sospetto nell’essenza. Il confine dunque si smaterializza, e il controllo sul corpo estraneo si ramifica, all’interno di un sistema che sovrappone i criteri amministrativi con quelli penali.

La frontiera si manifesta anche nei luoghi dell’accoglienza dove l’integrazione viene ancora intesa come appiattimento delle differenze: l’Altro che si adatta a nuove regole, pratiche, atteggiamenti del qui. Non è scambio ma unidirezionalità d’insegnamento, dall’alto verso il basso, in una catena che subito s’interrompe: io do a te, senza che tu possa dare a me.

Paolo Novak, professore in Development Studies,ci racconta della sua ricerca tra i CAS calabresi. Un complesso sistema che svela la volontà delle direttive istituzionali: il soggetto estraneo deve essere accolto secondo la discorsività del diritto umano, ma nella prassi si manifesta tutta la violenza di movenze politiche altre. I CAS sono dislocati in territori remoti, nell’invisibilizzazione strategica dei corpi. L’accesso ai servizi locali viene resa appositamente complessa, la distanza viene mantenuta, il confine si replica all’interno dello spazio, oltre lo spazio confinato di quella che dovrebbe essere, oramai, l’appartenenza. Ma quest’ultima viene negata, l’altro rimane altro.

Alla fine dei conti, dunque, il confine sta tutto e innanzitutto nella nostra concezione identitaria del noi; un noi coeso e inscalfibile, tutto uguale a sé stesso, senza possibilità di sfumature al suo interno, o meglio con sfumatura predeterminate e specifiche, con colori adeguati, ed altri meno, altri ancora inaccettabili. Il confine è davvero in noi e viene riprodotto all’esterno con una violenza e una forza che si moltiplica, ingurgita tutto, si estende sempre un po’ oltre, inondando nuove pratiche, istituzioni, ambienti. L’esclusione dell’altro e l’esclusività dell’io diventano, in fondo, sempre più pervasivi.

E cosa rimane da fare, a chi è contrario a tutta quest’illusione retorica e performativa?

Forse non rimane che esserci. Esserci innanzitutto come testimonianza, ponendo attenzione alle modalità della propria presenza, consapevoli del rischio contraddittorio di poter contribuire alla riproduzione di un sistema verso il quale si cerca di combattere.

  1. Qui il programma della due giorni

Lidia Tortarolo

Quasi antropologa e aspirante ricercatrice. Vivo a Milano ma vorrei spesso essere Altrove. Mi interesso di migrazione perché non posso non farlo: è qualcosa che mi prende lo stomaco, me lo rigira. Al momento mi sto occupando principalmente di temi legati all’antropologia della violenza e all’antropologia medica, in relazione al contesto migratorio della Rotta Balcanica.