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Nadir: la sorella piccola della civil fleet

Il primo episodio del reportage «Crepa. Testimonianze e riflessioni dal Mediterraneo centrale»

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«Crepa» nasce dalle esperienze ed emozioni che ho vissuto a bordo del veliero Nadir di RESQSHIP, l’ONG tedesca proprietaria della nave, durante una missione di monitoraggio, ricerca e soccorso. E’ un racconto in cinque articoli che escono ogni mercoledì di novembre, a partire da oggi: un giorno infame per il rinnovo del Memorandum tra Italia e Libia. «Crepa» è una parte di quello che vorrei dire alla fortezza Europa 1.

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Ripensando alla missione di monitoraggio, ricerca e soccorso che abbiamo concluso un mese fa, mi vengono in mente immagini flash, istantanee brevissime ma dense. M., che ci supporta per la distribuzione dei giubbetti di salvataggio. I due ragazzi che, nonostante la fatica del viaggio e il mare alto, tirano le funi per mantenere la loro imbarcazione affiancata alla nostra, e permettono il trasbordo. L’interazione con la guardia costiera italiana. Le notti passate al timone, bevendo tè allo zenzero. Cerco di ristabilire un ordine tra le immagini, e dedico questo primo articolo a situarle.

Abbiamo operato nel Mediterraneo centrale, in un tratto di mare stretto tra l’Africa e l’Europa, dove si affacciano Italia, Malta, Libia e Tunisia. E’ la rotta migratoria più mortifera al mondo: solo a partire dal 2014, i decessi ufficialmente registrati sono oltre 20.000 2. Persone morte a causa di una politica europea che osteggia e criminalizza la migrazione e, quando avrebbe il dovere di coordinare le operazioni di salvataggio, spesso le ostacola.

Eravamo a bordo di Nadir, un veliero motorizzato: il più delle volte va a vela, quando serve si aggiunge il motore. Piccolo!, avevo pensato la prima volta che l’ho visto, ancorato al molo, a Malta. Già sapevo che non faceva nemmeno 18 metri di lunghezza, forse però avevo interiorizzato le dimensioni delle navi più note della civil fleet, quelle grandi giganti gentili come Geo Barens, Open Arms Uno, Sea-Watch 4, che tendono alla lunghezza di un campo da calcio. Di vela, sapevo poco o niente, e mi preoccupavo perché l’unico nodo che sapevo fare era quello delle scarpe. Un dubbio, recondito e mai dichiarato, ce l’avevo: perché vogliamo fare monitoraggio, ricerca e soccorso in mare, con una barca a vela? Ha il suo stile, certo, ma insomma, non potevamo attrezzarci meglio?

In realtà le vele del Nadir ci hanno permesso di condurre la missione in modo efficace ad una frazione dei costi convenzionali: nei 15 giorni che abbiamo passato in mare, la maggior parte del tempo siamo andatə a vela. Ho imparato che la vela maestra era fondamentale per dare alla barca stabilità (nonostante la inclinasse, e non vi parlo degli effetti sui nostri stomaci). Ho poi imparato che il genoa, la vela a prua, dava velocità, e che il fiocco è la vela più piccola (l’ho sempre chiamata con il termine tedesco che mi hanno impartito, “fock”). A questa capacità di raccogliere vento, abbiamo aggiunto il motore se dovevamo andare veloce, quando eravamo al corrente di un’imbarcazione in difficoltà.

Per assicurare la vigilanza notte e giorno, il nostro piccolo equipaggio si era organizzato in turni a rotazione. Si tratta di stare in uno stand-by continuo, logorante, per essere sempre prontə a reagire alle richieste di aiuto. In mare, le comunicazioni passano attraverso frequenze radio aperte e noi eravamo sempre sintonizzatə sul canale 16, dedicato agli allarmi. E’ sul 16, infatti, che un’imbarcazione in difficoltà, o un’imbarcazione che ne avvista un’altra in pericolo, lancia un mayday, o mayday relay. Quando non eravamo di turno con l’orecchio teso a captare i messaggi radio, ci avreste spesso trovatə in cuccetta, cercando di recuperare le energie.

Meno male che c’era la crew, perché se devi fare una cosa sola per 15 giorni, è più bello farla con altrə con cui ti senti bene. Eravamo sette: Abbi, la dottoressa, che riusciva a farti ridere anche col mal di mare. Gio, l’elettricista, che non si fermava mai e amava le cipolle crude. Linda, deckhand (un ruolo di supporto trasversale), che riciclava le banane troppo mature in un banana bread dietro l’altro. Niels, che ogni tanto ho chiamato “pirata” perché gli piaceva il mare in tempesta, esperto di navigazione. Gerd, il co-capitano, in due giorni si è finito un libro sull’India. Johannes, il capitano, ma anche macchinista, idraulico, elettricista, paramedico, informatico, etc. Poi c’ero io, come coordinatore alla comunicazione, molto abile anche nel farmi rovesciare caffè bollente addosso -capita, sopratutto con le onde alte. Abbiamo anche potuto contare sulla land crew, l’equipaggio di terra, che ha garantito un supporto logistico, medico e legale 24 ore su 24.

I ruoli che ho elencato sono solo i principali, perché le mansioni erano più del numero dei membri del nostro equipaggio. Per rispondere al carico di lavoro si era instaurata tra di noi una cooperazione spontanea ed efficace, rafforzata anche dai debrief giornalieri, un importante meccanismo di ascolto e confronto reciproco. Le dinamiche a bordo mi hanno fatto sperimentare il Nadir come uno spazio orizzontale. Ad eccezione del capitano eravamo tutti volontarie di RESQSHIP, l’associazione dal basso basata in Germania e proprietaria della nave.

Nel prossimo articolo parlo del primo soccorso che abbiamo effettuato, di zona SAR, di come l’abbiamo vissuta noi, rispetto a quello che dovrebbe essere.

  1. Le opinioni contenute in questi articoli sono personali
  2. I dati sulla migrazione nel Mediterraneo

Pietro Desideri

E se i confini non esistessero? Cerco di trovare risposte (spoiler: si starebbe meglio). Lavoro in programmi di cooperazione internazionale, dove porto una prospettiva anticoloniale e antirazzista.
Ho approfondito le tematiche legate all'asilo e all'immigrazione vivendo a Lesbo, in Grecia. Ho partecipato a una missione SAR con l'associazione RESQSHIP, a bordo della Nadir. Mi piace il copyleft e Banksy.
Per contattarmi: [email protected]