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Tra identità personale e identità giuridica: lo spazio delle storie invisibili

Kerem Ahmad e la macchina burocratica del Regolamento Dublino impermeabile alle individualità

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«Ho dormito all’addiaccio per tante notti». Durante l’intervista, Kerem prova a ricostruire la sua storia. Racconta dei campi profughi in cui ha trascorso le settimane più fredde dell’inverno, dei focolari arrangiati davanti a casolari abbandonati, dell’odore di fumo e del pane ravviato alla fiamma. Alla fine di quelle notti, Kerem si svegliava con la sensazione di aver perso un altro pezzo di sé. Questa sensazione lo accompagna da quando è partito dal Pakistan, quasi tre anni fa, e non lo ha mai abbandonato. I suoi documenti identificativi sono stati distrutti dopo il quarto tentativo di game.

Su quel confine, tra la Bosnia e la Croazia, Kerem racconta di aver perso non solo i suoi documenti, ma anche la sua identità, dissolta tra le radure brulle e autunnali. Imponendogli una marcia coraggiosa e senza promesse di ricompensa, la rotta ha sfrondato pian piano gli slanci con cui era partito: del resto, Kerem è un rifugiato politico. La sua partenza dal Pakistan era a tutti gli effetti una fuga forzata: chi gli dava il diritto di sperare, desiderare, scegliere una vita serena?

Prendere la via della Turchia; sbarcare in Grecia; battere un bosco dopo l’altro; vedere la stagione cambiare sulla pelle degli alberi risalendo i Balcani. Mese dopo mese, chilometro dopo chilometro. Scolpendo le fatiche del cammino sul corpo, la via verso l’Unione Europea ha imposto a Kerem di restare quanto più possibile ancorato alla terra, di rinunciare a slanci e proiezioni, come spesso aveva fatto con zaini e oggetti in prossimità di un confine difficile da attraversare: la rotta la tracci spogliandoti del superfluo. Alla fine aveva superato il confine italo-sloveno. Era giunto sul Carso triestino e vi si era affacciato: golfo e mare. Come nelle altre brevi fermate, quei luoghi, che non lo conoscevano, continuavano a rammentargli “qui non sei nessuno”. Ben presto, a pochi metri da lì, due agenti lo avevano caricato su una camionetta militare e condotto alla caserma della Polizia di frontiera.

Alla caserma, Kerem era stato sottoposto alla procedura di identificazione. Aveva espresso l’intenzione di fare domanda di asilo, aveva rilasciato le sue impronte e i suoi dati personali. In quella stanza, il poliziotto e un mediatore linguistico avevano parlato molto velocemente di richiesta di asilo, status di rifugiato, permesso di soggiorno, ma nulla era stato spiegato nel dettaglio. Così, Kerem si era ritrovato in una comunità di prima accoglienza senza neanche rendersene conto. Ma ben presto aveva presto un treno per la Germania, dove suo fratello, partito per l’Europa anni prima, lo stava aspettando. Dopo aver ripetuto la procedura di identificazione e la richiesta di asilo in Germania, Kerem era stato richiamato in questura, dove gli avevano imposto di tornare in Italia. Di fronte all’incredulità di Kerem, gli agenti avevano cercato di spiegargli, nominando Dublino, il criterio-base per la domanda di asilo, la mancanza di elementi favorevoli al ricongiungimento familiare. Nella valanga di parole, una cosa era chiara: le sue impronte non erano nuove al sistema europeo di gestione dei flussi migratori. Quando le aveva rilasciate in Italia, erano state memorizzate negli archivi condivisi dagli stati-membri e poi riconosciute durante la procedura iniziata in Germania. Per Dublino, era costretto a tornare indietro. Da quel momento, Kerem avrebbe atteso il completamento della sua richiesta di asilo per quasi un anno, lontano da familiari e amici.

I dati e le impronte rilasciati da Kerem alla Polizia di frontiera italiana non sono rimasti dunque in un polveroso faldone della caserma, ma sono stati inseriti in Eurodac, il database che raccoglie le richieste di asilo dei cittadini di paesi terzi. Dal momento della sua istituzione nel 2000, Eurodac risponde all’esigenza, espressa nella Convenzione di Dublino, di identificare i richiedenti asilo e raccoglierne dati e impronte. Tramite il confronto delle impronte presenti in Eurodac, gli stati-membri possono verificare se un richiedente asilo o un cittadino straniero che si trova illegalmente su un certo territorio ha già presentato una domanda in un altro stato o se invece è entrato del tutto irregolarmente in territorio europeo.

L’impianto tecnologico che gestisce i flussi in ingresso e in uscita dall’Unione Europea, segnando passaggi, richieste e motivazioni, diventa sempre più interconnesso; gli Stati europei, tramite database condivisi, a partire da pochi dati possono ora risalire al percorso di un migrante in territorio europeo, ricostruendone tutti i movimenti.

Photo credit: Francesco Cibati

Questa capacità dei database informativi dell’Unione di scambiare dati e informazioni – detta “interoperabilità” – rappresenta soltanto un’estensione sul piano tecnologico di quell’esigenza di controllo e gestione delle immigrazioni che è già espressa chiaramente a livello giuridico: obiettivo primario di queste tecnologie è limitare i movimenti secondari dei migranti tra stati-membri, imponendo loro di rimanere nel primo paese di identificazione e richiesta di asilo fino al completamento della procedura.

Questo costringe molti richiedenti asilo, come Kerem, a congelare per mesi o anni il proprio progetto migratorio e ad attendere in un dato stato fino al momento della piena regolarizzazione giuridica. Gli automatismi delle tecnologie implementate sui confini e nei database europei, insieme alla giurisprudenza elaborata a tavolino per esternalizzare la gestione dei flussi, hanno prodotto una distanza incolmabile tra i bisogni essenziali delle persone che arrivano in Europa (tra le loro storie individuali, la loro memoria storica, il loro contesto di riferimento) e lo status giuridico acquisito nel nuovo continente: questo status, sulla carta presupposto fondamentale proprio per il soddisfacimento di quei bisogni, è prodotto da una macchina giuridica e burocratica che è impermeabile alle individualità, e fa del percorso delle persone migranti un susseguirsi di attese e di svalutazioni, a partire dai numerosi casi di ricongiungimento familiare negato e dalla difficoltà di accesso a un lavoro regolare.

Ad aggravare il quadro, vi sono numerose testimonianze della mancanza di un’opportuna informativa sul rilascio dei dati personali proprio in fasi cruciali, come quella dell’identificazione e del rilascio di informazioni sensibili: spesso i migranti non sono posti nella condizione di comprendere i criteri con cui i vengono raccolti certi dati, né le motivazioni di questa raccolta. C’è di più: non si dovrebbe soltanto di informare i richiedenti asilo circa l’uso e il trattamento dei loro dati, ma anche delle ragioni stesse per cui questo tipo di informativa viene svolta: provenendo da un contesto giuridico e culturale radicalmente diverso, spesso i migranti non possiedono neanche le categorie culturali per riconoscere un abuso subìto o una procedura disattesa; nell’attuale stato di cose, dunque, la cessione di dati avviene in una condizione di profonda asimmetria di potere tra i migranti che subiscono e i soggetti (polizie di frontiera, ONG, operatori dell’accoglienza) che in vario modo agiscono tale trattamento.

In Italia, Kerem aveva rilasciato i propri dati per la prima volta da quando era partito. Nel pronunciare il suo nome completo dopo tanti mesi, aveva percepito una sensazione di estraneità. Kerem Ahmad: gli sembrava che quel nome, incollato al suo corpo da quando ricordava di esistere, non lo identificasse più. Del resto, tra le persone che aveva incontrato dal giorno della partenza, non c’era nessuno che avrebbe potuto rammentargli quel legame indissolubile: avrebbe potuto portare qualsiasi altro nome e non avrebbe fatto alcuna differenza. Erano rimaste al villaggio le memorie e i legami che gli restituivano il senso profondo della sua identità. Al di fuori di quello spazio di intimità, la sua identità era mutilata.

Dopo la rotta, le procedure di identificazione a cui era stato sottoposto in Italia e poi in Germania, nel fissare quella corrispondenza inequivocabile tra il suo corpo e le informazioni personali di cui è portatore, non ne avevano tuttavia ricomposto l’identità, non lo avevano riabilitato dopo una traversata “irregolare”, anzi: ne avevano tranciato gli slanci fino a stravolgere il suo progetto migratorio. Nonostante dunque rilasciare i dati personali siano l’unico modo possibile per usufruire di una serie di diritti fondamentali, questi dati non esauriscono la vicenda personale di chi tenta con ogni mezzo di farsi uno spazio in Europa. E anche la vicenda personale portata in sede di intervista con la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale – forse il momento in cui il vissuto e le prospettive dei migranti vengono sottoposte all’attenzione delle istituzioni europee nella maniera più lampante – è spesso soggetta a rimaneggiamenti finalizzati a soddisfare criteri di coerenza, credibilità e consistenza imposti dalla macchina dell’asilo: non esiste spazio in cui la storia delle persone possa darsi nella sua nuda forma, al di fuori delle maglie distorcenti delle categorie europee.

Dopo molti anni, finalmente Kerem ha un lavoro regolare; con tutti i documenti in regola, è riuscito a prendere in affitto un appartamento insieme ad altri tre compagni di officina. Per il momento, la Germania è sfumata dal suo orizzonte: il trasferimento e il periodo di ricerca di un’occupazione in una nuova città comporterebbero sacrifici che al momento non può permettersi. Spera di rivedere suo fratello in futuro. La rotta non è ancora finita.

Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.