Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
Ph. Valentina Delli Gatti (Muro di frontiera tra Messico e Stati Uniti, 2022)
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Dall’altra parte del Mondo

Etnografia decoloniale alla frontiera tra Messico e Stati Uniti

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Given a wall, what’s happening behind it?
Jean Tardieu

Dall’altra parte del Mondo è il risultato di un lavoro di ricerca sul campo condotto durante un viaggio lungo la rotta mesoamericana dal confine sud alla frontiera nord del Messico.
Pubblicheremo i capitoli di questo reportage in 3 articoli che usciranno i mercoledì del mese di dicembre (7, 14, 21).

Alcuni nomi delle persone migranti riportate sul retro del murales che compone la bandiera statunitense le cui stelle sono croci e le strisce riportanti “Rimpatriate”. Da “Deported veterans mural project”

Introduzione

Eretto un muro, che cosa accade al di là – e al di qua – di esso?

In “Specie di Spazi” (1989) la riflessione intorno alla muraglia proposta dallo scrittore francese Georges Perec – estesa qui alle teorie dei crossing e border studies – è lanciata e affidata ad una sola ma provocatoria paginetta introdotta da una citazione di Jean Tardieu. In poco più che un paragrafo, Perec ci offre un’analisi alquanto ermetica ed astratta dello spazio e di ciò che esso finisce per materializzare una volta perimetrato da pareti, persino a dimenticarne l’esistenza e il ruolo che assume l’ipotetico quadro ad esso sorretto.

E’ ciò che accadrebbe raggiungendo la maestosa barriera in cemento ‘armato’ color ruggine, eretta imponente alla frontiera tra gli stati uniti messicani e quelli statunitensi ed estesa a delimitare il confine da Oceano a Oceano correndo oltre 3000 chilometri 1. Una frontiera estremamente visibile da impedire, persino allo sguardo, di passare dall’altro lato.

Il confine in questione è quello materialmente identificabile con il limite fisico dell’oceano e quello politico del muro che si immerge nel golfo del Messico nella bassa California, separando il sud-ovest degli Stati Uniti dal Centroamerica.

L’incisione risale al 2 febbraio 1848, quando a Guadalupe Hidalgo vennero sanciti i nuovi confini degli Stati Uniti che per anni aveva condotto una guerra con il Messico al fine di espandere la propria frontiera verso sud, annettendo territori messicani ad oggi corrisposti dagli stati del Colorado, Texas, Nuovo Messico, Arizona e California, terre di frontiera a cavallo del confine che non assomigliano alla mappatura né di uno né dell’altro paese.

Ad accomunarle la storia di marginalità ed a-legalità che si protrae tra latenti tensioni in costante eruzione, una lacerazione incarnata nei muri, i fili spinati e i controlli della ‘migra’ (polizia di frontiera) da allora ispessiti che costituisce quella herida abierta2 di cui parla Gloria Anzaldua in La Frontera, e i cui estremi appartengono ad uno stesso territorio pre-colombiano, Aztlán, dove il sud del mondo si scontra da tempi immemori con il definito mondo regredito, che da allora – mai marginata – si dissangua mescolando la linfa vitale tra i due “lati” del territorio dal quale si è creato “un terzo paese – una cultura di confine” (Anzaldúa 1987, p. 29), una cultura s – confinata.. una cultura di frontiera, una zona guerrigliera, un campo di battaglia abitata dagli esclusi, gli irregolari e i non desiderati. E dove regna il margine, sappiamo, la morte non vi è “straniera”, così come la lotta per la vita. Una lotta che appartiene a l*s atravesad*s, i poveri, i matti, mestizos, indígenas, chicanos, indios, neri, i migranti perché solo chi attraversa i confini nel tentativo di superare le frontiere strategicamente costruite per controllare e smistare le eterogenee soggettività che le agiscono e dalle quali sono agite, ne conosce la violenza e la presenza.

B-ordering mobility: L’esternalizzazione della frontera Norte Messico – Usa

“La politica migratoria in Messico non è colpita da nessun tema sociale,
è meramente criminale.
k. L. k. Mujer activista hondureña

Dall’ultimo decennio del 1990 e con molta più determinazione a partire dagli accaduti del nuovo millennio 3, la strategia globale verso un processo di securitizzazione e la distribuzione sempre più tecnologica e violenta di forme di controllo, detenzione e negazione della circolazione emergono come una chiara condizione per ostacolare e rappresentare la mobilità umana, in particolare quella irregolarizzata, come una minaccia o un problema centrale della “governabilità migratoria”. Sotto la guerra preventiva al terrorismo, gli Stati Uniti precedenti e sotto Trump, lanciarono difatti un programma di portata globale per “migliorare” la sicurezza nazionale: attraverso l’implemento del Patriot Act del 2001 furono adottate misure frontaliere con l’obiettivo di impedire l’accesso di tutte quelle persone non documentate a cui, viziosamente nel circolo, a loro volta era stato negato un visto a causa delle restrizioni sui requisiti di accesso, tra cui i migranti e i richiedenti protezione e rifugio di origine latina.

Non è nuovo da affermare quanto, posteriormente agli attentati dell’11 settembre 2001, la politica estera statunitense ha subordinato con maggiore slancio l’agenda internazionale alle questioni di sicurezza nazionale ponendo al centro la retorica sulla mobilità umana di determinati popoli come una minaccia. Ma ciò che richiama maggiormente l’attenzione è quanto la gestione di certi movimenti sia stata delegata oltre i limiti territoriali attraverso un’estensione dei controllo e della sorveglianza a paesi terzi, in questo caso al Messico.

Il regime securitario ha introdotto infatti meccanismi di rafforzamento e di esternalizzazione della frontiera USA negli stati messicani e ad ulteriori paesi dell’america centrale implicando la cooperazione politica e militare tra paesi terzi per combattere “attori clandestini transnazionali” (Andreas, 2003) attraverso l’ampliamento di programmi di rinforzo del controllo migratorio alla frontiera sud, come il Plan Frontera Sur 4, ed ancora tramite la configurazione di dispositivi di sicurezza che confinano il transito delle persone migranti a zone rurali inospitali altamente pericolose o l’aumento degli accordi con il Messico per la detenzione, il rimpatrio e la deportazione delle persone migranti sul territorio.

Le fotografie pubblicate in questo articolo sono di Valentina Delli Gatti

L’inasprimento dei requisiti per la richiesta di rifugio o per il rilascio dei visti soprattutto a quei paesi con maggiore emigrazione verso gli Stati Uniti 5, ha giustificato, inoltre, la limitazione dei canali regolari di migrazione nonché l’istituzione di schemi come ”un paese terzo sicuro” e un “primo paese di arrivo”, esattamente come accade in Europa, che di fatto trasferiscono la responsabilità della protezione ad altri Stati.

In questo senso, lungi dal prendere in considerazione le retoriche di certe politiche migratorie attuate nella regione messicana 6, questa serie di misure per contenere, fermare o dissuadere i frequenti movimenti di persone che transitano nel territorio hanno confinato migliaia di migranti irregolarizzati e richiedenti asilo in un limbo dove ricevono esattamente l’opposto: immobilità e assenza di protezione.

Le politiche dissuasorie più dure si sono innescate principalmente durante la cosiddetta “crisi dei minori migranti” visibilizzata nell’estate del 2014, quando un cospicuo gruppo di famiglie, bambini e adolescenti non accompagnati giunse in diversi punti del confine meridionale degli Stati Uniti per lo più dal Centro America con l’intenzione di entrare nel Paese. A seguito di tale evento, questi ultimi hanno indirizzato i maggiori sforzi per dissuadere le persone attraverso l’aumento delle deportazioni, la separazione tra famiglie e le negoziazioni con i governi coinvolti mentre il Messico lanciava già il Southern Border Program, concepito come uno spazio di governo delle frontiere e il cui background era quello di contenere il transito di migranti non documentati senza considerare vulnerabilità delle persone e violando sistematicamente il diritto all’asilo contemplato dall’articolo 14.1. della dichiarazione universale (Castañeda, 2016), un limite già consolidato nel 2019 con i MPP (Migrant Protection Protocols) degli Stati Uniti ed aggravato poi con la pandemia da COVID-19, eretta come nuova barriera per limitare la mobilità transfrontaliera dal sud.

L’esternalizzazione delle frontiere e il meccanismo di vigilanza e liberticida schierato dai paesi potenti sui terzi, ha solo favorito, in questo senso, la formulazione e la ri “zonificazione” dello spazio globale in cui non tutti hanno equo accesso o si muovono con gli stessi diritti, una configurazione spazio politica non affatto casuale dal momento che gli Stati Uniti, così come accade per la maggior parte dei paesi europei, si posiziona tra i più ambiti per chi si muove dal Sur global.

La mobilità verso nord è sempre, quindi, spinta dalle logiche sottostanti al cosiddetto “paradosso liberale” di apertura ed integrazione con fini strettamente commerciali e convertito in un regime di securitizzazione in cui circola ogni tipo di capitale tranne quello umano, il quale – lungi dal creare un mondo transfrontaliero – ha provocato la profilazione di “stati murati” (W. Brown, 2010) o di zone di frontiera nonché l’aumento e il rinforzo degli scontri tra chi migra e le politiche del controllo su di essi.

Si stima che i quasi 20 milioni di persone migranti non documentate di cui si ha costanza che vivono al confine o al di là di esso, negli Stati Uniti, siano per l’80 % originarie dell’America Latina di cui un 98% ha accesso solo attraverso i canali irregolari dal Messico (ONU DAES, 2020; Passel y Cohn 2010 7) ed è solitamente affidandosi alla guida di un coyote o attraversando le rotte per mezzo di camion, a piedi o per tunnel e canali sotterranei, che chi riesce, passa una delle frontiere più vigilate e pericolose del mondo. Infatti, le zone di transito al confine della frontiera tra Messico e Usa, come quella configurata a partire dalla frontiera europea esternalizzata nel mar Mediterraneo, incluso il nord est dell’Africa figurano tra le più dinamiche e violente del mondo, le cui fatali traversate marittime e nel deserto, oltre a generare miliardi di dollari, implicano esposizioni a molteplici forme di violenza e violazioni da parte dello Stato e trafficanti di ogni genere il che significa transitare tra la vita e la morte delle molte persone che le attraversano. A questa violenza sistematica si aggiunge inoltre quella ben strutturata del narcotraffico e del traffico umano lungo la rotta. Sequestro e assassinio delle persone in cammino è l’espressione massima dai tempi più recenti ma non la sola: corruzione e complicità delle autorità impediscono ai migranti in transito qualsiasi accesso a giustizia e protezione.

Si ricorda infatti il massacro di San Fernando Tamaulipas in cui nel 2010 72 persone migranti furono brutalmente assassinate 8 e i cui corpi, un anno più tardi, vennero rinvenuti con la scoperta di fosse comuni in cui i resti umani presentavano chiari segni di esecuzioni e tortura.

Sebbene sono anche tante altre le causali connesse e interconnesse con l’incremento della mobilità irregolazizzata e sempre più controllata, come la violenza sociale e statale dei paesi di origine, la militarizzazione e sorveglianza quotidiana della vita, l’insicurezza umana, il cambio climatico, la carenza o totale assenza di opportunità lavorative, sono la disuguaglianza sistemica e il regime di securizzazione le due principali cause strutturali a livello globale e comune a provocare non solo la proliferazione dei movimenti ma anche proporzionalmente le dimensioni catastrofiche e drammatiche delle stesse, cui responsabilità è per questo sempre e in qualche modo politica e politicizzata.

Suddetta concentrazione migratoria verso nord rivela quindi un aspetto essenziale e storico inerente al “modus operandi” dello sviluppo geopolitico disuguale del mondo che dipende e risponde quindi a genealogie sistemiche coloniali tuttora protratte 9.

E’ così che questo corridoio geografico si è convertito via via in una frontiera preliminare o esternalizzata della principale meta migratoria del mondo, per fungere da meccanismo di filtraggio delle persone migranti diretti verso nord.

Momento di arrivo a Tapachula, Chiapas, di alcune madri e familiari delle persone migranti scomparse lungo la rotta mesoamericana

Dovuto alla vicinanza geografica e ad un processo migratorio storicamente sostenuto e segnato da decenni di guerre civili, la maggior parte dei migranti che transitano per il Messico proviene da Guatemala, Honduras, Nicaragua, El Salvador o Haiti, nonostante i dati ufficiali registrati sulle detenzioni e i respingimenti realizzati a Tapachula, nello stato del Chiapas, alla frontera sur del Messico, rivelano anche un incremento sempre più alto di migranti originari di oltre 50 paesi differenti dell’Africa 10, dell’Asia ed Europa, che utilizzano diverse rotte marittime, aeree e terrestri offerte dai coyotes transitando dai Caraibi, Haiti, Colombia, Venezuela, Brasile ed Ecuador con il medesimo obiettivo di raggiungere e passare dall’altro lato della grande barricata nordamericana (INM 2021; Sin frontera 2013).

Il muro di confine sulla spiaggia di Tijuana termina in mezzo al mare
  1. Trump to Order Mexican Border Wall and Curtail Immigration, The New York Times
  2. La Frontera, Gloria Anzandùa
  3. Ci riferiamo all’11 settembre 2001
  4. ¿Qué es el Programa Frontera Sur? (2016)
  5. Honduras,Guatemala, El Salvador, Nicaragua, Haití, Venezuela
  6. Il concetto di “regione” in questa ricerca è teso ad indicare una regione territoriale o geografica che spesso fa riferimento a più Stati-Nazione e non sottintende necessariamente un’organizzazione amministrativa omogenea. I riferimenti più noti sono in questo caso alle regioni o macro-regioni del Centro e Sud America
  7. U.S. Unauthorized Immigrant Total Dips to Lowest Level in a Decade, by Jeffrey S. Passel and D’Vera Cohn – Pew Research Center (novembre 2018)
  8. Masacre de San Fernando, Tamaulipas – Masacre de los 72 migrantes, CNDH Mexico
  9. La externalización en Centroamérica: Deportaciones, acuerdos migratorios y necesidades humanitarias, Re Lac (gennaio 2020)
  10. Los africanos que miran al paso centroamericano como alternativa a Europa, El Pais (10 ottobre 2022)

Valentina Delli Gatti

Antropologa e attivista per la libertà di movimento e il supporto delle persone migranti.
Sono specializzata in migrazioni internazionali e indago il tema della mobilità e delle mobilitazioni migranti con particolare attenzione all’etnografia delle frontiere e le strategie di lotta nell’area euromediterranea e nel contesto sud e centro americano.
Sono operatrice del progetto Mem.Med per la ricerca e l'identificazione delle persone migranti scomparse.