Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Il business della militarizzazione dei confini e dell’inazione climatica

Un’analisi del rapporto «Global Climate Wall»

Start

È ormai assodato che i cambiamenti climatici antropogenici siano causati perlopiù dai paesi del Nord del mondo e abbiano gli effetti più devastanti al Sud, diventando driver cruciali di migrazioni intra e transnazionali. I migranti climatici sono già una realtà e le proiezioni indicano che aumenteranno inesorabilmente: si stima che entro il 2050 centinaia di milioni di persone saranno sfollate per motivi ambientali 1.

Inondazioni del 2014 a Cap Haïtien, Haiti. Ph: Logan Abassi/UN photo (CC BY-NC-ND 2.0)

Nonostante ciò, «i paesi più ricchi del mondo hanno scelto come approcciarsi all’azione climatica globale – militarizzando i propri confini. (…) Questi paesi – storicamente i maggiori responsabili per la crisi climatica – spendono di più nell’armare i loro confini per tenere fuori i migranti rispetto a rivolgersi alla crisi che in primo luogo forza le persone a fuggire dai loro paesi».

Con queste parole si apre il report dal titolo «Global Climate Wall», 2 pubblicato nel 2021 dal Transnational Insitute (TNI), che mostra come sette tra i paesi maggiormente responsabili per la crisi climatica investono più del doppio per il controllo delle frontiere rispetto ai “finanziamenti per il clima,” ovvero in misure di adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici.

Il TNI calcola i budget di Stati Uniti, Canada, Australia, Gran Bretagna, Germania, Francia e Giappone, responsabili collettivamente del 48% delle emissioni di gas serra globali. Tra loro spiccano gli Stati Uniti, maggior investitori in assoluto in barriere esterne con una spesa di ben 19 miliardi, circa 11 volte rispetto agli investimenti per il clima; mentre Canada e Australia spendono rispettivamente circa 15 volte e 13 volte di più in frontiere che in climate finance. Dal rapporto emerge inoltre che l’investimento in militarizzazione dei confini dei paesi sovra citati è aumentato del 29% dal 2013 al 2018. In Europa, il budget per Frontex, l’agenzia di frontiera dell’Unione Europea è aumentato del 2763% dalla sua istituzione nel 2006 al 2020.

Usando le parole di uno dei coautori del report, «tutti insieme, i paesi del mondo più inquinanti stanno riparando un disastro causato dall’uomo creandone un altro» 3. Il nuovo disastro include la costruzione di 63 muri di confine in tutto il mondo (con nuovi in programma), decine di migliaia di guardie di frontiera, l’investimento di miliardi in tecnologie di sorveglianza e sistemi biometrici volti a bloccare e criminalizzare persone che si trovano in situazioni disperate, invece di fornire loro assistenza e la costruzione di centri di detenzione.

Tra il 2014 e il 2020, più di 41.000 persone (dato sottostimato) sono morte mentre stavano attraversando confini. Per dare un’idea, citando il politologo Cornelius, «negli ultimi anni, [solo] la frontiera fortificata tra Messico e Stati Uniti ha fatto più vittime tra i messicani di quante ne abbia causate il Muro di Berlino tra i tedeschi dell’Est nei suoi ventotto anni di esistenza» 4.

Erigere muri è un tentativo di limitare, allontanare, ritardare, tenere fuori le conseguenze di un fenomeno inesorabile come il cambiamento climatico: è chiaro come il “muro climatico globale” oltre ad essere disumano, non sia neppure una soluzione valida. Usando le parole di Mastrojenni e Pasini in Effetto Serra, 5 «[le soluzioni] non sono certamente i muri, che somiglierebbero al coperchio di una pentola a pressione sotto cui continuerà a bruciare il fuoco finché non esplode. Al contrario, si tratta di spegnere il fornello: prepararci assieme, paesi ricchi e poveri, vicini e lontani, a gestire cooperativamente quei territori che devono poter continuare a sfamare i popoli e a dare una speranza per il futuro anche sotto un clima che cambia».

Al posto di fermare la migrazione, l’inasprimento dei controlli ha aumentato i rischi del viaggio costringendo le persone in movimento a passare per vie più pericolose, determinando una “selezione naturale” di chi si arrischierà a provare il viaggio (quindi perlopiù giovani maschi sani e forti), incrementando drammaticamente il numero di decessi e il prezzo dei viaggi clandestini.
Se da una parte si investe abbondantemente in muri, dall’altra il rapporto evidenzia che i paesi più ricchi falliscono nell’investire in “finanziamenti per il clima” in maniera sufficiente: le spese sono nettamente minori di quelli promesse, inoltre vengono spesso sovra riportate e non sono trasparenti. Ancora, spesso finiscono per finanziare progetti che aumentano la crisi climatica.

Le conclusioni sono dure: secondo il TNI, «evidenze mostrano che i paesi più ricchi del mondo non accettano di assumersi la responsabilità per la crisi. Sembra inoltre che non abbiano alcun desiderio di investire in misure di mitigazione che minimizzerebbero il cambiamento climatico o in fornire adattamento (…) per assistere i paesi nell’affrontare le conseguenze, inclusi spostamenti forzati e migrazioni». «Questa è una strategia auto-difensiva (…) [che] accelera i processi di instabilità e la migrazione climatica».

Fonte: TNI/Centre Delas/StopWapenhandel (2020) A Walled World – Towards a Global Apartheid

E allora che cosa c’è dietro questa apparente ossessione con i confini e l’inazione climatica?

Il report presenta un ventaglio di risposte che si possono riassumere tutte con: i soldi.

Tutti prendono una fetta della torta: paesi ricchi e inquinanti, compagnie di sicurezza di confine e compagnie di combustibili fossili, in un nesso di potere che ha un costo umano e ambientale devastante.

In primo luogo, l’industria delle frontiere trae profitto dal rafforzamento dei confini. Se da una parte le motivazioni ufficiali alla progressiva militarizzazione dei confini sono state la war on drugs degli anni 70 degli USA, l’abolizione dei confini interni con Schengen in Europa e quindi la “necessità” di frontiere uniche esterne, la “minaccia” del terrorismo dopo l’11 settembre in tutto l’Occidente e con il 2011 e 2015 la paura di un’ ”invasione”; dall’altra parte, le industrie private che forniscono servizi di detenzione, sorveglianza tecnologica, sistemi biometrici, droni e database hanno partecipato in maniera sempre maggiore alla fortificazione dei confini vedendoci possibilità di lucro e hanno influenzato le decisioni dei governi con uno spaventoso potere di lobby 6.

Qui entra in gioco il cambiamento climatico, riconosciuto dalle super potenze come una minaccia alla sicurezza, in particolare come “moltiplicatore di minaccia” (threat multiplier), ovvero capace di intensificare, tra gli altri, le migrazioni. Perciò, c’è stato un riconoscimento tra le maggiori imprese di sicurezza di frontiera che la devastazione climatica, esacerbando i flussi migratori, può essere fonte di ulteriore guadagno.

Fonte: Global Climate Wall

Un altro elemento di profitto economico è da ricercare nella collusione tra compagnie di combustibili fossili e l’industria delle frontiere. Il report esamina 4 delle 10 multinazionali maggiormente responsabili di emissioni di gas serra (Chevron, Exxon Mobil, British Petroleum e Royal Dutch Shell), mostrando come siano strettamente collegate con i paesi e zone con enormi budget di frontiere (l’UE, il Regno Unito e gli USA): queste compagnie hanno contratti con le stesse imprese che forniscono “sicurezza” nel confine tra USA e Messico, nelle coste mediterranee e nel resto del mondo.

Non sorprende che le compagnie di combustibili fossili e le imprese di sicurezza di frontiera vedano molti degli stessi individui seduti ai reciproci consigli esecutivi.

Appurato che se si riducesse o abbandonasse la sicurezza in frontiera si potrebbero finanziare interi programmi per il clima, resta da cambiare mentalità: il report si conclude sottolineando come sia fondamentale spostarsi dall’idea di migrazione come minaccia e iniziare a considerarla come una strategia di adattamento. Perciò, anche i programmi dovrebbero andare in questa direzione: smettere di costruire muri e iniziare a investire in servizi di assistenza per persone obbligate a spostarsi e costruire infrastrutture nei paesi di destinazione. La migrazione climatica sta già avvenendo e aumenterà ancora, è necessario riconoscerlo e abbracciare un nuovo modo di guardare alle migrazioni.

Citando l’antropologo Khorsavi, in una conversazione avuta con un noto “trafficante” curdo, Amir Heidari, riportata nel libro «Io sono confine»:
K. «Una volta, in Pakistan, un [trafficante] mi ha detto che nessuno può chiudere la porta del mondo».
A.H. «Aveva ragione. [La migrazione] è come un fiume: se lo blocchi da qualche parte, l’acqua troverà un’altra strada» 7.

Quindi, riportando le conclusioni del report: «perché non assistere le persone obbligate a spostarsi al posto di respingerle, aiutare a costruire case nei posti dove arrivano al posto di prigioni?»

  1. I dati su Migration Data Portal
  2. Vai al rapporto in .pdf
  3. Defund the global climate wall, Todd Miller Roar Magazine (3 novembre 2021)
  4. Cornelius, W. A. (2005) Controllig “unwanted” immigration. Lessons from the United States, 1993-2004, Journal of Ethic and Migration Studies, 31(4), 775-794
  5. Effetto Guerra, Mastrojenni, G.; Pasini, A. (2020) Effetto Serra, Effetto Guerra. Chiarelettere, p. 5
  6. Per approfondire la questione della militarizzazione delle frontiere, il TNI ha prodotto una serie di report scaricabili qui
  7. Khorsavi, S. (2019). Io sono confine. Elèuthera. p. 184

Sara Minolfi

Laureanda magistrale in Peace and conflict studies all’Università di Torino. Come studentessa, attivista e aspirante ricercatrice, mi occupo di confini e delle persone che li attraversano nonché delle interconnessioni tra cambiamenti climatici, migrazioni e conflitti.