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«This is called Fascim»

La protesta di Ahmed e dei suoi compagni nel centro di detenzione di Balkova, in Repubblica Ceca

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Il pezzo è stato scritto con Clara Leonardi.

«Ero un oppositore politico in Egitto, nel 2014 ho partecipato alle proteste contro il colpo di stato militare. Per questo ho dovuto lasciare il mio paese a causa delle persecuzioni e delle sentenze politiche emesse contro di me dal tribunale illegittimo della giunta militare. Sono stato condannato a tre anni di carcere, è tutto documentato. Prima di iniziare il mio viaggio, la polizia interna ha fatto irruzione in casa mia, terrorizzando la mia famiglia. In quel periodo stavano arrestando chiunque partecipasse ad attività contro il regime. Mi sono nascosto a casa di mio zio e un avvocato mi ha detto che dovevo lasciare l’Egitto, altrimenti sarei finito in prigione, avrebbero inventato accuse contro di me e mi avrebbero torturato a morte. Per questo ho lasciato il mio paese, sono fuggito in Sudan, prima che il governo sudanese stipulasse un accordo con le autorità egiziane per la consegna di tutti gli oppositori politici egiziani che all’epoca (2016) risiedevano in Sudan».

Lui è Ahmed, con il Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino lo abbiamo conosciuto lo scorso agosto nel nord della Serbia, mentre cercava come tantə altrə di oltrepassare il muro ungherese per chiedere protezione in Europa. Sicuramente non immaginava l’accoglienza che l’Europa stessa gli avrebbe riservato. Dove pensava di trovare rifugio, ha trovato quello stesso fascismo da cui fuggiva.

Ora Ahmed si trova in un posto sicuro che non possiamo rivelare, e ci ha contattatə chiedendoci di fare eco alla sua storia, che è la storia di tantə: respinto più volte dall’Ungheria e dalla Romania, è stato infine respinto anche dal territorio tedesco, per essere poi detenuto per settimane in una località sperduta della Repubblica Ceca. Lì, recluso nel mese per 40 giorni in un centro di detenzione isolato tra i boschi, con altri richiedenti asilo ha scritto un manifesto di protesta e ha iniziato uno sciopero della fame. La sua storia dimostra come la guerra europea alle persone migranti non finisce sui confini esterni, ma si insinua dalla periferia – i Balcani – fino al centro del continente,  fino alla ‘civilissima’ Germania.

Una storia che getta luce sul cuore nero d’Europa, fatto di centri di detenzione, abusi sistematici da parte della polizia e negazione del diritto d’asilo. Ma è anche una storia di rivolta, di lotta e autorganizzazione contro un sistema che, ovunque, “si chiama fascismo”.

Di seguito il racconto di Ahmed a Melting Pot, tradotto, e l’appello scritto dal carcere di Balkova lo scorso ottobre. 

Ahmed e alcuni suoi compagni di viaggio, in un riparo lungo la rotta balcanica

L’inferno europeo non finisce con la rotta balcanica

Dopo aver raggiunto l’Ungheria, Ahmed è stato respinto in Serbia, nonostante avesse dichiarato di voler avanzare la richiesta d’asilo. Allo stesso modo è stato respinto dalla Romania e non ha potuto richiedere  asilo neppure in Slovacchia, consapevole di come molti migranti vengano da qui respinti a catena prima in Ungheria e poi in Serbia. Così si è fermato a Praga prima di ripartire in flixbus per la Germania. 

«Finché cercavo di raggiungere la Germania, qualche chilometro dopo il confine, la polizia tedesca mi ha fermato e respinto in Repubblica Ceca, anche se ho detto loro di avere diritto a richiedere l’asilo politico. Si tratta in realtà di un accordo tra i due paesi, chi viene catturato in Germania viene rimandato in Repubblica Ceca.

Sono stato portato in una stazione di polizia in Repubblica Ceca, era un edificio molto vecchio che non sembrava neanche ufficiale, con sbarre di metallo e barriere; hanno messo tutti in stanze molto sporche e abbiamo subito controlli umilianti; ho sentito alcuni siriani raccontare che 8 o 9 di loro erano stati costretti a stare nudi uno accanto all’altro per essere “perquisiti” dalla polizia. Anche io sono stato “perquisito”; hanno chiamato un mediatore che continuava a minacciarmi di essere deportato in Egitto; ho cercato di raccontare la mia storia, ma non mi ha nemmeno ascoltato. I miei amici siriani mi hanno detto che avrei dovuto dichiarare di essere siriano. Infatti, hanno rilasciato due miei amici siriani e anche alcuni egiziani che hanno mentito sulla loro nazionalità.

Mi hanno mandato in isolamento in una stanza molto fredda, stavo cercando di chiedere i miei diritti e di parlare con un avvocato; ho detto loro che avevo bisogno di un interprete e che dovevo parlare con qualcuno della polizia per spiegare la mia storia, ma non è mai successo. La prima notte avevo una coperta e poi me l’hanno tolta, la seconda notte ho tremato tutto il tempo per il freddo, bussando alla porta per chiederne una. Un poliziotto è entrato nella stanza e mi ha spinto al muro, solo perché chiedevo il mio minimo diritto umano, chiedevo solo una coperta in una stanza molto fredda. Non riuscivo a distinguere il giorno dalla notte; c’era una finestra molto spessa, quindi la luce non entrava nella stanza. Dopo due giorni mi hanno detto che sarei entrato in un campo; pensavo che sarebbe stato un campo come quelli serbi, invece era una vera e propria prigione, chiamata Balkova».

Il centro di detenzione di Balkova

Balkova è una delle tre strutture di detenzione per persone migranti situate nel suolo nazionale ceco, le altre si trovano a Vyšní Lhoty e a Běla pod Bezdězem. La capacità di ogni struttura si aggira tra i 150 e i 200 detenuti e attualmente sono interamente occupate. Queste strutture si trovano in mezzo alla foresta, lontano dalla popolazione civile e da qualsiasi possibilità di contatto umano; questo non fa altro che aumentare, nei detenuti, la percezione di essere completamente in balia della polizia. Possono comunicare con l’esterno solo tramite alcuni telefoni, utilizzabili gratuitamente solo per pochi minuti. 

Il potere incontrastato della polizia è evidente soprattutto nel modo in cui vengono determinati i periodi di detenzione; nonostante l’esistenza di un formale limite massimo di 180 giorni le persone migranti vengono trattenute in queste strutture anche per periodi molto più lunghi, senza affrontare alcun tipo di giusto processo e senza che la loro storia sia valutata da un giudice.

All’interno del centro di detenzione non viene garantita alcuna attività e mancano anche i servizi più basilari, Ahmed racconta che erano costretti a lavarsi i vestiti a mano con l’acqua gelata. Inoltre, il cibo dato loro è insufficiente e di scarsissima qualità. 

«Nel primo momento in cui sono arrivato l’infermiera mi ha colpito in faccia. Sono stato trattato in modo molto violento, avevo le manette ai polsi. Una volta entrato nella prigione ho capito che tutti i prigionieri venivano trattati in questo modo, non solo io. 

Sono stato condannato a 90 giorni di carcere senza alcun processo ufficiale, secondo la legge ceca la polizia può determinare il destino dei migranti senza interpellare alcuna autorità giudiziaria o tribunale, questo è davvero come il fascismo, non è una democrazia, mi ricorda il mio paese. Sono stato mandato in prigione senza essere stato condannato».

Dopo aver scoperto di poterlo fare, Ahmed ha avanzato la richiesta per ottenere l’asilo in Repubblica Ceca e, la rappresentante dell’ufficio rifugiati gli ha detto che avrebbe dovuto rimanere altri 120 giorni a Balkova. In Repubblica Ceca, infatti, i richiedenti asilo vivono in strutture di fatto detentive. 

L’appello e lo sciopero della fame

«A questo punto ho cominciato uno sciopero della fame, ho scritto un testo in inglese per spiegare le mie motivazioni. Il mio obiettivo era solo affrontare una giuria e un giusto processo, non ottenere immediatamente la libertà ma solo fare in modo che fosse un giudice, e non dei poliziotti, a determinare il mio destino. Se loro hanno una giornata buona puoi essere libero immediatamente, altrimenti sei costretto a rimanere lì per 90 giorni o più. È completamente folle: se gli agenti di polizia hanno un tale potere sulla vita delle persone si tratta di un paese fascista.

Al sesto giorno di sciopero della fame ho perso i sensi, perché anche prima dello sciopero non stavo ricevendo abbastanza cibo e quindi dopo soli 6 giorni ero già troppo debole. Hanno scoperto che avevo perso molto peso, tutti i valori erano troppo bassi, ma mi hanno detto che era un mio problema, che avrei dovuto risolverlo da solo».

Ahmed ha cercato di coinvolgere gli altri migranti nella protesta, anche in sostegno a un uomo a cui era stato notificato un ordine di espulsione. Nonostante tutti fossero spaventati dalle possibili conseguenze si sono riuniti in cortile e hanno scandito slogan contro le deportazioni.

«Non accettavo le ingiustizie nel mio paese e non avevo intenzione di accettarle a Balkova; mi sono proposto come responsabile della protesta e ho scritto un documento in inglese per tutti i migranti che si trovavano nel carcere. 

Avevamo tutti una storia diversa nel viaggio verso l’Europa e diversi paesi di origine, ma avevamo condiviso questa situazione a Balkova. Chiedevamo giustizia e diritti, di non essere sotto il controllo della polizia ma di affrontare un processo. Dopo la protesta hanno portato un rappresentante del ministro degli Interni, che mi ha minacciato, dicendo che stavo creando problemi. Ho risposto che sono solo un pacifista e un attivista politico, non sto invocando la violenza o l’esercito, ma solo il mio diritto legale e la pace, il mio diritto a protestare. Mi ha minacciato dicendo che potevano sabotarmi. Mi hanno detto che mi avrebbero tolto ogni libertà perché stavo cercando di aiutare gli altri detenuti, traducendo i documenti degli altri prigionieri per farli incontrare il rappresentante per i rifugiati».

Di seguito, la foto dell’appello scritto a mano nel carcere di Balkova con le firme allegate. Sotto la traduzione.

Nel nome di 89 migranti di varie nazionalità imprigionati a Balkova, abbiamo scritto il seguente manifesto.

Tutti noi siamo migranti scappati dalla guerra, persecuzioni e ingiustizie, cercando di trovare una nuova casa in un paese firmatario della Convenzione sui rifugiati. Abbiamo avuto storie dure a casa e in viaggio, storie diverse di cui tutti condividiamo una parte, ed è per questo che stiamo scrivendo questo testo.

Tutti noi siamo stati fermati dalla polizia ceca che ci ha trattato in modo violento, razzista, con un doppio standard. Siamo stati perquisiti in modo inumano e poi alcuni di noi sono stati rilasciati sulla base della provenienza dichiarata, senza una vera verifica dell’identità, poi siamo stati ingannati da interpreti che non potevamo rifiutare altrimenti la polizia avrebbe continuato la procedura con o senza la nostra approvazione e firma. Dopo due o tre giorni di detenzione senza cibo e caldo sufficienti, trattati come pericolosi criminali, siamo stati spediti in una prigione – “un remoto campo chiuso” – senza essere sottoposti ad alcun processo. 

La prigione è costruita nel mezzo di una remota foresta, con una rete di filo spinato alta 5 metri, è costruita specificatamente per migranti e all’interno ci sono due tipi di prigionieri. Innanzitutto, ci sono quelli che hanno fatto domanda d’asilo e che devono stare nel carcere per 120 giorni, poi ci sono quelli che non hanno avuto la possibilità di chiedere asilo, dato che si può presentare la domanda solo nei primi 7 giorni di detenzione. Per questi ultimi il destino è tutto nelle mani della polizia, che può rilasciarli come estendere la detenzione o addirittura emettere un provvedimento di espulsione senza averli nemmeno ascoltati. Dare all’autorità esecutiva queste prerogative avvantaggiati sulle altre autorità si chiama FASCISMO quindi quei migranti sono sottoposti a regole fasciste. Assistiamo tutti a doppi standard, ogni giorno un ragazzo è rilasciato prima di suo fratello che ha la stessa storia, siamo trattati come pericolosi criminali, terrorizzati dai cani della polizia e dal confinamento, privati delle nostre necessità essenziali, obbligati a mangiare cibo di scarsissima qualità senza nessun ingrediente fresco. 

Noi protestiamo contro questa politica ipocrita dei doppi standard, contro la segregazione e il potere della polizia qui a Balkova. Domandiamo giustizia e incarichiamo Ahmed Metaewa di parlare a nostro nome.

Il rilascio ‘con addebito’ e la politica delle deportazioni

A questo punto è stato detto ad Ahmed che, se avesse ritirato la sua richiesta d’asilo, sarebbe stato rilasciato entro 15 giorni e così è stato.

Prima di essere rilasciato ha dovuto pagare 550 €; secondo la legge ceca i detenuti sono costretti a pagare circa 10 € per ogni giorno trascorso in carcere.

«Quindi hanno usato i miei soldi per nutrirmi il minimo indispensabile e per trattarmi in maniera violenta e razzista. E dopo tutto questo hanno ancora le mie impronte digitali registrate, dal momento in cui ho fatto domanda di asilo, e questo mi causerà molti problemi.

In questo momento, se tornassi in Repubblica Ceca verrei deportato in Egitto perché ho cancellato la mia richiesta di asilo, quindi se andassi lì avrei 30 giorni per lasciare il Paese. In realtà, qualche giorno fa hanno deportato in Egitto un ragazzo, lo so da un’organizzazione ceca per i diritti umani con cui sono ancora in contatto.

Il periodo in Repubblica Ceca è stata una delle esperienze più terribili della mia vita, ho passato 40 giorni in quella prigione e ogni notte avevo incubi sull’essere deportato in Egitto. Ho assistito a molte deportazioni, ragazzi con le manette e dei cappucci in testa che venivano rispediti ai loro Paesi senza che nessuno ascoltasse le loro storie, che nessuno potesse sentire le loro voci.

Essere deportato per me significa una minaccia diretta alla mia vita. Se tornassi in Egitto verrei torturato e probabilmente ucciso dalla polizia, i poliziotti egiziani sono assassini e di questo ci sono molte prove, anche alcuni dei miei amici sono stati uccisi in prigione. Li imploravo di rimandarmi in Serbia, preferivo passare mesi nella foresta che rischiare la deportazione».

Ora Ahmed è richiedente asilo in un altro paese europeo, ed è tutelato anche da Amnesty International in quanto dissidente del regime egiziano ed attivista per la libertà di espressione ed opposizione. Mentre Ahmed è stato liberato da Balkova ed è riuscito a fuggire, tante altre persone migranti sono recluse nei centri di detenzione e rimpatrio della Repubblica Ceca, paese che attua sistematica la detenzione dei richiedenti asilo. A chi da dietro le sbarre e i fili spinati continua a lottare per la vita, tra le foreste dell’Europa centrale come nell’Egitto di al-Sisi, il nostro pensiero e la nostra solidarietà. 

Giovanni Marenda

Studente magistrale di Sociologia e Ricerca Sociale all'Università di Trento. Ho trascorso la maggior parte del 2020 ad Atene, in Grecia, impegnato nel lavoro di solidarietà. Sono un attivista del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, che promuove la libertà di movimento e supporta le persone migranti lungo le rotte balcaniche e sui confini italiani.