Per quanto si può ricavare dai comunicati stampa del governo e dai soliti giornalisti bene informati, il Consiglio dei ministri avrebbe approvato un Decreto legge che prevede non un Codice di condotta, che dovrebbe avere carattere consensuale, ma vere e proprie norme cogenti in materia di soccorsi in mare, norme che appaiono in evidente violazione delle Convenzioni internazionali, dei Regolamenti europei e del diritto interno, come applicato dalla consolidata giurisprudenza, che con le eccezioni dei procedimenti in corso a Trapani ed a Ragusa ha archiviato tutte le inchieste avviate contro le ONG a partire dal caso Iuventa nel 2017.
La formulazione del decreto, come al solito, non è stata ancora comunicata nel suo articolato, e probabilmente sarà oggetto di una ulteriore trattativa notturna con la Presidenza della Repubblica, che non dovrebbe apporre la firma ad un testo legislativo che appare in palese violazione degli articoli 2, 3, 10 e 117 della Costituzione italiana. L’indirizzo politico del nuovo decreto legge è tuttavia evidente, un codice di condotta imposto per legge, per creare i presupposti di violazioni il cui accertamento, affidato ai prefetti, potrebbe portare alla confisca delle navi, e forse anche a nuove denunce penali, una netta inversione di rotta, dopo il fallimento dei provvedimenti amministrativi con cui il ministro dell’interno Piantedosi voleva limitare le attività di ricerca e salvataggio delle ONG impegnate nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. E’ stato comunque sconfitto il tentativo del ministro dell’interno che appena pochi giorni dopo il suo insediamento al Viminale dichiarava che avrebbe concesso un porto di sbarco sicuro “solo dopo che i migranti a bordo chiederanno asilo agli stati di bandiera delle imbarcazioni“.
Secondo il nuovo decreto legge «il transito e la sosta in territorio nazionale sono comunque garantiti ai soli fini di assicurare il soccorso e l’assistenza a terra delle persone prese a bordo a tutela della loro incolumità». Si riconosce quindi la impossibilità di considerare “non inoffensivo”, ai sensi dell’art. 19 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay, il transito e la sosta nelle acque territoriali di navi straniere che abbiano effettuato attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali. Si abbandona dunque, per quanto sembra, la base dei divieti di ingresso in porto che erano stati introdotti con il richiamo a questa norma internazionale dal Decreto sicurezza bis di Salvini n. 53 del 2019, sostanzialmente confermato con poche modifiche dal successivo Decreto legge n.130 del 2020.
Le nuove previsioni normative adottate il 28 dicembre dal governo, se non saranno modificate prima della firma del Presidente della Repubblica, o nel corso dell’iter parlamentare per la conversione del Decreto, smentiscono le basi della difesa di Salvini nel processo Open Arms a Palermo, che si gioca per intero su una interpretazione distorcente dell’art.19 della Convenzione UNCLOS e quindi sulla legittimità del divieto di ingresso imposto dall’ex ministro dell’interno nell’agosto del 2019, anche dopo il decreto del TAR Lazio che ne sospendeva l’efficacia. Si riconosce in definitiva, come peraltro impongono le Convenzioni internazionali di diritto del mare ed il Regolamento Frontex n.656 del 2014, che il transito attraverso le acque territoriali per sbarcare i naufraghi in un porto sicuro ha carattere di passaggio “non inoffensivo”. Anche se poi, con un autentica piroetta logica, si dettano le condizioni per vietare l’ingresso della nave del soccorso civile che abbia operato in modo “non occasionale” ed abbia effettuato “soccorsi plurimi”. In ogni caso si estende l’area di responsabilità delle autorità italiane in acque internazionali e si riconoscono precisi obblighi di garantire un porto sicuro di sbarco in Italia. Anche se si impone che la nave socorritrice abbia effettuato un unico intervento di ricerca e salvataggio.
Le Convenzioni internazionali, per come richiamate dal Consiglio d’Europa e nelle linee guida emanate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), agenzia delle Nazioni unite, anche nel nuovo Piano SAR nazionale del 2020 prevedono che il primo Comando centrale di Guardia costiera (MRCC) che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR –Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004), sempre che sia garantito lo sbarco in un porto sicuro ed il rispetto del divieto di respingimenti collettivi.
I requisiti per la legittimità dei soccorsi operati da navi private, previsti dal nuovo decreto, sono in contrasto con il Regolamento Dublino III del 2013 sulla competenza del primo paese di ingresso per l’esame delle domande di protezione internazionale, e con quanto previsto dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea dell’1 agosto scorso, secondo cui le navi delle ONG non possono essere costrette a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato che è obbligato a garantire il porto di sbarco (POS), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione. Come non potrà più avvenire in futuro. Nel caso dell’Italia queste certificazioni non sono peraltro previste neppure dai registri del naviglio civile e saranno ancora in futuro oggetto di richieste arbitrarie da parte delle autorità amministrative. Lo stato costiero non ha alcuna competenza ad accertare ulteriori “requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione nelle acque territoriali”.
Secondo la Corte europea di Lussemburgo, “lo Stato di approdo non può imporre che venga provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione. Peraltro, nel caso in cui l’ispezione riveli l’esistenza di carenze, lo Stato di approdo può adottare le azioni correttive che ritenga necessarie. Tuttavia, queste ultime devono, in ogni caso, essere adeguate, necessarie e proporzionate. Lo Stato di approdo non può poi subordinare la revoca del fermo di una nave alla condizione che tale nave disponga di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera”.
Rimane comunque confermato il principio desumibile dalla Convenzione SOLAS e richiamato dall’art.2 della Direttiva 2009/16/CE, secondo cui l’idoneità al servizio per la quale la nave è “destinata” debba essere intesa in senso astratto, avuto riguardo alla tipologia di classificazione della nave, e non invece in senso concreto, avuto riguardo alla specifica tipologia di attività effettivamente espletata, che potrebbe essere variamente apprezzata da ogni autorità portuale. Non esistono a livello internazionale parametri di classificazione delle navi impiegate in attività di ricerca e salvataggio che permettano di individuare requisiti specifici da verificare in sede di ispezioni portuali (PSC). L’art.94 della Convenzione UNCLOS esclude chiaramente la possibilità che in sede di controllo lo stato di approdo possa riqualificare diversamente una nave già certificata dal proprio Stato di bandiera o ritenere non sufficiente la certificazione rilasciata da questo Stato.

Le disposizioni del decreto
Secondo il nuovo decreto, le navi che effettuano in via non occasionale attività di ricerca e soccorso in mare devono:
1) avere i requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione nelle acque territoriali;
Nessuna norma internazionale o di Regolamenti europei consente ad uno Stato costiero di adottare prescrizioni discriminatorie soltanto nei confronti delle navi che effettuano “in via non occasionale attività di ricerca e soccorso in mare“. Gli obblighi di soccorso a carico dei comandanti ed a carico degli Stati costieri sono gli stessi senza che rilevi il carattere “non occasionale” delle attività di ricerca e salvataggio (SAR), richiamo che mira soltanto a penalizzare i soccorsi umanitari operati dalle ONG.
Un Decreto legge non può modificare gli obblighi di ricerca e soccorso previsti a carico dei comandanti e degli Stati costieri, e se in contrasto con quanto previsto dalle Convenzioni internazionali e dal Regolamento europeo n.656 del 2014, risulta di conseguenza incostituzionale per violazione degli articoli 2,3 10 e 117 della Costituzione italiana.
2) aver avviato tempestivamente iniziative volte ad acquisire le intenzioni di richiedere la protezione internazionale;
Le prescrizioni internazionali e le line guida dell’UNHCR escludono espressamente che i comandanti delle navi, oltre a ricevere eventuali manifestazioni di volontà di chiedere protezione da parte dei naufraghi, siano tenuti ad ulteriori adempimenti, o ad inoltrare richieste di asilo allo Stato di bandiera, prassi che è stata esclusa di recente da esplicite dichiarazioni dei governi di Spagna, Francia, Germania e Norvegia, oltre che dalla Commissione Europea, in occasione dei casi SOS Humanity 1 e Geo Barents, lo scorso novembre a Catania, quando il governo italiano tentava di imporre la pratica illegale degli sbarchi selettivi, pratica che con l’ultimo decreto viene evidentemente abbandonata.
3) aver richiesto all’Autorità SAR competente, nell’immediatezza dell’evento, l’assegnazione del porto di sbarco;
Per ritenere legittimo il soccorso di una nave civile operato in acque internazionali rientranti nella vasta zona SAR “libica”, frutto di una dichiarazione politica del governo di Tripoli, nel giugno del 2018, dopo il Memorandum d’intesa Gentiloni del 2 febbraio 2017, non occorre accertare che l’unità di soccorso abbia richiesto il coordinamento alle autorità di un paese che, oltre a non avere unità territoriale, non ha ancora i requisiti previsti dall’IMO per il riconoscimento di una zona SAR di propria competenza, a partire, oltre che dalla dotazione di mezzi, da una centrale di coordinamento unica (MRCC). Non si può dunque attribuire alcuna valenza al Decreto emesso dal Consiglio presidenziale del Governo provvisorio di Tripoli (G.N.A.) n 1034/2019 del 14 settembre 2019, che imponeva alle ONG di inoltrare una richiesta di autorizzazione per potere svolgere attività di ricerca e salvataggio nella cd. zona SAR “libica” e di restare vincolati ad un obbligo di obbedienza nei confronti delle direttive impartite dalle autorità locali in ordine allo sbarco in porto dei naufraghi soccorsi in alto mare. Quasi una versione “libica” del Codice di condotta Minniti, ed in particolare degli obblighi stabiliti a carico delle ONG nel Decreto sicurezza n. 53 del 2019 che pure subordinava le navi delle ONG che operavano attività di soccorso nella zona SAR “libica” al coordinamento di una inesistente Centrale di coordinamento congiunto (JRCC) “libica”.
La ripartizione delle zone SAR nel Mediterraneo centrale non tiene conto che alcuni paesi come la Libia e la Tunisia non garantiscono per i naufraghi di diversa nazionalità porti sicuri di sbarco e procedure eque ed accessibili per il riconoscimento dello status di rifugiato. Malta non ha ratificato l’emendamento alla Convenzione SAR di Amburgo contenuto nella Risoluzione IMO 167-78 del 2004 e dunque non può essere considerata come un paese al quale il comandante della nave che effettua un, soccorso nella vastissima zona SAR attribuita alle autorità di La Valletta, possa essere obbligato a rivolgersi per chiedere coordinamento di soccorsi operati in acque internazionali o l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro.
Nell’applicazione delle norme cogenti derivanti da queste Convenzioni occorre anche considerare la Convenzione di Ginevra del 1951 a tutela dei rifugiati perché da questa Convenzione si ricava il fondamentale principio di non respingimento (articolo 33) secondo il quale nessuna persona può essere respinta verso un paese nel quale rischia la vita o la integrità fisica. Questa norma, se incrociata con le prescrizioni di diritto internazionale del mare, assume particolare rilievo quando si pensa che nel Mediterraneo centrale la maggior parte delle attività di respingimento, adesso delegate alla sedicente Guardia Costiera Libica e in parte promosse anche dalle autorità di Malta, che hanno stipulato appositi accordi con il governo di Tripoli, sono attività che hanno come target persone in fuga dalla Libia dove hanno subito abusi di ogni genere e dove questi abusi ritroveranno se saranno riportate indietro, magari con la collaborazione delle autorità italiane, maltesi o europee. Ma anche chi fugge dalla Tunisia, soprattutto se di altra nazionalità, ha diritto di essere soccorso in mare e non può essere costretto a pagare con la vita il tentativo di sopravvivenza ad una crisi economica devastante che attanaglia quel paese. Gli obblighi di soccorso in mare non vengono meno a seconda delle persone da salvare o degli accordi tra Stati.
Come riferisce Nello Scavo dopo una documentata inchiesta condotta sulle pagine de l’Avvenire, il Tribunale di Napoli ha condannato ad un anno di reclusione il comandante del rimorchiatore ASSO 28, di servizio nel luglio del 2018 alla piattaforma petrolifera offshore Sabratha in acque internazionali, per avere riconsegnato ad una motovedetta libica al largo del porto di Tripoli oltre cento persone soccorse nei pressi della piattaforma, dunque al di fuori delle acque territoriali libiche. Anche in questo caso, per garantire la conoscenza dei fatti, è risultata decisiva la presenza di una nave ONG nei pressi dell’evento di soccorso.
Chi controlla davvero le diverse guardie costiere libiche? Cosa si nasconde davvero dietro la sigla dei GACS (General Administration for Coastal Security)? Che tipo di coordinamento operativo garantiscono a queste forze l’Unione Europea e il governo italiano? E’ ammissibile l’apposizione del segreto militare a tutte le fasi attuative degli accordi con i libici, misura adottata dall’ex Ministro dell’interno Lamorgese.
Sono peraltro noti a tutti i collegamenti tra la stessa sedicente “guardia costiera libica” e le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di migranti dalla Libia, e dalla Tripolitania, in particolare. Si tratta di rapporti che ormai appaiono istituzionalizzati, come emerge dalla nomina del noto trafficante Al Milad Bija a comandante dell’Accademia navale libica. Fino a quando gli Stati europei continueranno a collaborare con autorità marittime e militari che non garantiscono il rispetto dei diritti umani?
Di certo le autorità italiane non coordinano più le motovedette libiche, come invece avveniva in passato, coordinamento che, secondo quanto dichiarato dall’ex ministro della difesa Guerini, sarebbe venuto meno nel mese di luglio del 2020. Da quando, dopo la stipula di un accordo tra la Turchia di Erdogan e il governo provvisorio di Tripoli le autorità turche hanno preso il controllo della maggior parte delle coste della Tripolitania, istituendo una base navale turca ad Al Khums (Khoms) e gestendo direttamente i rapporti con le milizie che controllavano in precedenza le diverse guardie costiere libiche, di fatto una per ogni città. Nessuna autorità libica può essere definita oggi una “autorità SAR competente”.
L’autorità SAR “competente” per il coordinamento dei soccorsi e quindi per l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro è soltanto l’autorità SAR (dunque la Centrale di coordinamento – MRCC della Guardia costiera) di un paese che può garantire porti di sbarco sicuri.
4) il porto di sbarco individuato dalle competenti autorità è raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso;
La Convenzione di Amburgo, del 1979, determina che «gli Stati costieri dovrebbero autorizzare – come enuncia il cap.3.1.2 – l’ingresso immediato nel mare territoriale di navi di soccorso di altri Stati se il loro unico scopo è la ricerca e il salvataggio»
In base al punto 3.1.9 dell’Annesso alla Convenzione di Amburgo del 1979, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, che Malta non ha mai ratificato, «la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Questa norma si applica sempre, senza distinzioni possibili in base al tipo di nave soccorritrice, della sua nazionalità, o dello status dei naufraghi. Anche se la nave appartiene ad una ONG e non ha una rotta predeterminata, esercitando il diritto di libera navigazione in acque internazionali.
Se per “autorità competenti” dalle quali si dovrebbe attendere il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio, fino alla indicazione del porto di sbarco sicuro, non si intendono le autorità di paesi che non possono garantire place of safety (POS) o si rifiutano di offrire porti di sbarco sicuri, l’Italia, come paese di primo contatto deve garantire il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio e la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Appare però evidente che, se dopo il primo soccorso effettuato da una nave civile il comandante della nave è obbligato a dirigere verso il porto di sbarco sicuro assegnato dalle autorità italiane, queste stesse autorità italiane rimangono obbligate a garantire con propri mezzi, in acque internazionali, anche in zona SAR che rientra nell’area di responsabilità libica o maltese, al fine della salvaguardia della vita umana in mare, interventi con propri assetti navali ed aerei, eventualmente supportati dagli assetti aerei Frontex presenti in zona perché ospitati dallo Stato italiano (nel caso di Frontex a Lampedusa ed a Fontanarossa – CT). Se questa capacità di intervento immediato, una volta impartito l’ordine alla nave civile di raggiungere un porto di sbarco sicuro in Italia dopo il primo soccorso, non viene garantito, si possono profilare i reati di omissione di atti di ufficio, di omissione di soccorso e di concorso in naufragio.
Il governo maltese ha stretto da tempo accordi (MoU) che prevedono l’ingresso delle motovedette libiche nella sua vasta zona SAR e non accetta i naufraghi soccorsi dalle ONG in acque internazionali, garantendo loro un porto di sbarco sicuro. Come sarebbe obbligato a fare in base alle Convenzioni internazionali, in quanto Stato responsabile della zona SAR che gli viene riconosciuta. Lo stesso governo omette sistematicamente le attività di coordinamento delle attività SAR in questa vasta zona che, per ragioni storiche ed economiche, si è attribuita da tempo, ed ha anche utilizzato mezzi privati con base a Malta per effettuare respingimenti in Libia, come è emerso drammaticamente nel 2020 in occasione della strage di Pasquetta. Le inchieste giornalistiche hanno svelato che anche in occasione di quella strage erano coinvolti personaggi legati ad organizzazioni criminali che agivano in acque internazionali operando respingimenti collettivi per conto del governo. Persino il difensore dei diritti umani nominato all’interno dell’agenzia FRONTEX ha criticato severamente queste prassi. Eppure il governo italiano continua a ritenere che le ONG che operano soccorsi nella zona SAR maltese debbano rivolgersi a La Valletta per la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Le “competenti autorità” che indicano un porto di sbarco sicuro da raggiungere nel tempo più breve non possono essere dunque autorità maltesi, che peraltro, come si è già detto, non hanno mai sottoscritto gli emendamenti alla Convenzione SAR di Amburgo del 1979, contenuti nell’Annesso per effetto della Risoluzione IMO del Comitato MSC 167-78.
5) devono fornire alle autorità per la ricerca e il soccorso in mare italiane, ovvero, nel caso di assegnazione del porto di sbarco, alle autorità di pubblica sicurezza, le informazioni richieste ai fini dell’acquisizione di elementi relativi alla ricostruzione dettagliata delle fasi dell’operazione di soccorso effettuata;
Le operazioni di soccorso devono essere «immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si svolge l’evento e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità». Si ripete qui una manipolazione mediatica che era servita per la propaganda contro i soccorsi operati dalle ONG, sostenendosi che queste non comunicavano quanto prescritto dalle Convenzioni internazionali, circostanza poi smentita in tutti i procedimenti penali fin qui aperti contro le ONG, e nella più recente documentazione resa pubblica dalle ONG Humanity 1 e MSF Geo Barents, ai primi dello scorso novembre dopo il loro ingresso nel porto di Catania.
I procedimenti penali intentati nei confronti delle ONG, a partire dal caso Cap Anamur, nel 2004 hanno sempre dimostrato che i comandanti delle navi avevano assolto tutti gli obblighi di informazione nei confronti delle autorità italiane, ed erano state semmai queste ultime ad omettere la circolazione di informazioni utili ai soccorsi, come nel caso della nave Libra, in occasione della strage di bambini nel 2013, come recentemente accertato da una sentenza del Tribunale di Roma, che pur riconoscendo la prescrizione del reato, ha sancito la responsabilità per il naufragio delle autorità italiane.
6) le modalità di ricerca e soccorso in mare da parte della nave non devono aggravare situazioni di pericolo a bordo né impedire di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco;
“Le modalità di ricerca e soccorso in acque internazionali” possono essere imposte soltanto dalle autorità marittime di uno Stato costiero che assuma la responsabilità di coordinamento tramite il proprio MRCC, anche al di fuori della propria zona SAR. Anche in questo caso il Decreto legge prevede l’esercizio di un potere di imperio e dunque l’esercizio della giurisdizione italiana in acque internazionali, come si era verificato nel 2014 con l’operazione Mare Nostrum. E dunque correlativamente a questo riconoscimento di giurisdizione in acque internazionali, indipendentemente dalla zona SAR nella quale si verifichino le attività di ricerca e soccorso, le autorità italiane hanno il dovere di coordinarsi con le autorità marittime degli Stati titolari di zone SAR confinanti e di garantire soccorsi in acque internazionali e poi lo sbarco nel porto sicuro, nel tempo più breve ragionevolmente possibile. Dunque lo sbarco dei naufraghi deve avvenire nel porto sicuro più vicino, come ha ricordato al governo italiano la Francia, al termine dell’ultimo caso di conflitto riguardante la Ocean Viking della ONG SOS Mediterraneé. Nello stesso senso le più recenti posizioni del governo spagnolo. Come ha confermato del resto la Commisione europea quando ha richiesto all’Italia lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino.
Lo sbarco nel porto sicuro più vicino non può essere escluso in base a scelte discrezionali del governo, o di singoli ministri, che ritengono di avvalersi dell’art.19 comma 2 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay perché qualificano le attività di salvataggio delle Ong, condotte “in autonomia” come “soccorsi multipli”, se non come “trasporto di persone in violazione di legge”.
Secondo il Regolamento europeo n.656 del 2014, al Considerando 15 si stabilisce che “Gli Stati membri dovrebbero ottemperare all’obbligo di prestare assistenza alle persone in pericolo conformemente alle pertinenti disposizioni degli strumenti internazionali che disciplinano le situazioni di ricerca e soccorso e ai requisiti relativi al rispetto dei diritti fondamentali. Il presente regolamento non dovrebbe pregiudicare gli obblighi delle autorità preposte alla ricerca e al soccorso, compreso quello di assicurare che il coordinamento e la cooperazione siano effettuati secondo modalità che consentono alle persone tratte in salvo di essere trasferite in un luogo sicuro.
7) nel caso di operazioni di soccorso plurime, le operazioni successive alla prima devono essere effettuate in conformità agli obblighi di notifica e non devono compromettere l’obbligo di raggiungimento, senza ritardo, del porto di sbarco.
Nessuno Stato costiero può vietare i soccorsi multipli, soprattutto se le autorità marittime nazionali sono avvertite tempestivamente, come nel caso dell’Italia, delle attività di salvataggio in acque internazionali delle ONG, ma poi non comunicano immediatamente di assumere il coordinamento delle attività SAR, continuando a negare la ricorrenza di una situazione di distress o nascondendosi dietro i conflitti di competenza con Malta.
Secondo l’art. 9 del Regolamento europeo n. 656 del 2014, “gli Stati membri osservano l’obbligo di prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare e durante un’operazione marittima assicurano che le rispettive unità partecipanti si attengano a tale obbligo, conformemente al diritto internazionale e nel rispetto dei diritti fondamentali, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova”. Sono dunque gli Stati membri e non le ONG i principali soggetti obbligati ad adempiere agli obblighi di soccorso, tanto nelle acque del mare territoriale, quanto in acque internazionali, altrimenti definite “alto mare”.
In acque internazionali gli stati costieri al di fuori delle zone SAR di propria competenza non possono imporre dunque alle navi delle ONG limiti al compimento di attività di salvataggio, ed obblighi di notifica che non siano già previsti dalle Convenzioni internazionali. Le navi che compiono soccorsi “non occasionali” sono le navi delle ONG, le uniche a farlo, in assenza degli assetti militari statali. Non si può ordinare a queste stesse navi civili e soltanto a loro, di abbandonare la scena dei soccorsi, magari in situazioni in cui è nota la presenza di altre imbarcazioni da soccorrere, per raggiungere “senza ritardo” il porto di sbarco assegnato. In caso di altri soccorsi che si rendano necessari, per salvaguardare la vita umana in mare è lecito, anzi doveroso, che il comandante della nave provveda ai soccorsi ulteriori, senza curarsi dell’eventuale ritardo nel raggiungimento del porto di sbarco sicuro indicato dallo Stato costiero.
Ripetiamo, se gli Stati costieri dovessero adottare questo tipo di atti di imperio al di fuori della propria zona SAR, questa circostanza sarebbe una prova lampante di esercizio della giurisdizione ed obbligherebbe di conseguenza gli stessi Stati costieri ad intervenire in tutte le successive attività di ricerca e salvataggio che si rendessero necessarie per la salvaguardia della vita umana in mare. Sono troppe le vittime di abbandono in mare, anche quest’anno, dopo che gli Stati hanno ritirato dal Mediterraneo centrale, i loro assetti di soccorso, contrastato con ogni mezzo i soccorsi umanitari operati dalle ONG, ed imposto alle navi militari compiti di sorveglianza che esulavano dall’adempimento dei doveri di soccorso stabiliti dalle Convenzioni internazionali e dal Regolamento europeo n. 656 del 2014. Dopo questo decreto legge diventa più esplicito l’obbligo degli Stati di intervenire in operazioni di ricerca e salvataggio in acque internazionali, al di fuori della propria zona SAR, dopo avere esercitato la giurisdizione assumendo il coordinamento di un assetto navale delle ONG presente nelle stesse acque internazionali, al quale si è ordinato di dirigere verso un porto di sbarco sicuro dopo la prima operazione di soccorso effettuata.

Le sanzioni amministrative
Le sanzioni previste dal decreto appaiono del tutto generiche circa la individuazione dei presupposti, sostanzialmente rimessi alla discrezionalità delle autorità amministrative, e richiamano l’istituto del “fermo amministrativo”, del “sequestro” e della “confisca della nave,” a fronte di provvedimenti di incerta natura (di divieto di ingresso o sosta) che dovrebbero essere assunti dalle autorità italiane nei confronti dei comandanti delle navi oggetto delle sanzioni. Cosa si intende per violazione delle regole, di quali regole si parla esattamente per ciascun tipo di sanzione? I relativi provvedimenti amministrativi rimangono indefiniti nei contenuti e nelle competenze (cosa intendere per “contestazione della violazione”)?.
Gli stessi provvedimenti amministrativi che dovrebbero essere assunti prima della adozione delle sanzioni, sfuggono così al principio di legalità e non garantiscono un effettivo esercizio dei diritti di difesa previsti, contro tutti gli atti amministrativi, dall’art. 24 della Costituzione italiana. Si può davvero ritenere che spetti ai prefetti, diretta emanazione del ministero dell’interno, il potere di sequestro cautelare e confisca di una nave in violazione di norme di rango sovranazionali come quelle contenute nelle Convenzioni di diritto del mare e nei Regolamenti europei?
- Se si violano le regole «si applica al comandante della nave la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 50.000. La responsabilità solidale si estende all’armatore e al proprietario della nave».
- Alla contestazione «della violazione consegue l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo per due mesi della nave utilizzata per commettere la violazione. L’organo accertatore, che applica la sanzione del fermo amministrativo, nomina custode l’armatore o, in sua assenza, il comandante o altro soggetto obbligato in solido, che fa cessare la navigazione e provvede alla custodia della nave a proprie spese».
- Contro il fermo amministrativo della nave «è ammesso ricorso, entro sessanta giorni dalla notificazione del verbale di contestazione, al Prefetto che provvede nei successivi venti giorni».
- In caso di reiterazione della violazione «commessa con l’utilizzo della medesima nave, si applica la sanzione amministrativa accessoria della confisca della nave e l’organo accertatore procede immediatamente a sequestro cautelare».
- Quando il comandante della nave o l’armatore «non fornisce le informazioni richieste dalla competente autorità nazionale per la ricerca e il soccorso in mare o non si uniforma alle indicazioni della medesima autorità si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 2.000 a euro 10.000. Alla violazione consegue l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo per venti giorni della nave utilizzata per commettere la violazione. In caso di reiterazione della violazione, la sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo è di due mesi.

Provvedimenti privi di fondamento giuridico
I provvedimenti amministrativi e legislativi annunciati dal governo, come divieti di soccorsi multipli, e codici di condotta che impongano collaborazione con autorità di Stati che non garantiscono porti sicuri di sbarco, sono dunque privi di fondamento alla luce del diritto internazionale ed euro-unitario. Se non saranno impugnati e bloccati in Italia dalla giurisprudenza, determineranno uno scontro senza precedenti a livello europeo, anche se qualche Ong dovesse cedere ai ricatti del ministro dell’interno ed accettare codici di condotta e porti di destinazione (POD), che non sono place of safety (POS), sempre più lontani.
Vedremo se la giurisprudenza confermerà i suoi precedenti, che hanno portato all’archiviazione della maggior parte dei procedimenti penali intentati contro le ONG, oppure se cederà agli indirizzi politici del nuovo governo. Il vero banco di prova sarà il processo Salvini a Palermo ed è a quello che molto probabilmente mirano i provvedimenti contro i soccorsi umanitari che il governo si accinge ad adottare, anche se la formulazione che traspare dalle notizie sul decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri potrebbe tradursi in un vero e proprio boomerang proprio per il ministro Salvini, da sempre fautore della linea dei “porti chiusi”. Perché di certo questo nuovo decreto legge i porti non li chiude proprio, come non potrebbe chiuderli, senza esasperare lo scontro già in atto con l’Unione Europea, e con Stati più importanti dell’Unione, come la Francia, la Spagna, la Germania.
Tocca alle organizzazioni della società civile ed ai team legali specializzati nella difesa dei diritti umani, anche a livello internazionale, al di là dell’eventuale acquiescenza di qualche ONG, fare emergere questi profili di illegittimità costituzionale e il contrasto tra il decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri ed il diritto sovranazionale.
* Tratto da: ADIF – Associazione Diritti e Frontiere