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PH: Antonio Sempere

Le persone migranti, intrappolate nei boschi al Nord della Serbia: uno sguardo alla realtà

Testo e fotografie di Antonio Sempere

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La “Rotta dei Balcani” si è aperta nel 2015, quando migliaia di rifugiati si sono messi in viaggio attraverso gli Stati dei Balcani Occidentali dalla Grecia per giungere in Europa. In una fuga senza precedenti hanno attraversato Macedonia, Serbia, Ungheria e Croazia, fino alla chiusura delle frontiere nel 2016, con la firma dell’accordo tra UE e Turchia. Da quel momento la vecchia Rotta dei Balcani è stata di fatto chiusa e la quantità di persone in movimento è diminuita significativamente. Tuttavia, alcune persone rifugiate e migranti provano tutt’ora a raggiungere l’Europa, ricorrendo a rotte sempre più pericolose e nascoste per evitare di imbattersi nella polizia di frontiera croata e ungherese.

Nei Balcani, migliaia di rifugiati si trovano intrappolati in Serbia, Paese che ha quattro frontiere con l’Unione Europea e altrettante con i Paesi dell’ex Jugoslavia. Le persone arrivano in Serbia dopo aver attraversato la Grecia e la Macedonia dalla Turchia. Hanno percorso migliaia di chilometri, a volte a piedi nel bel mezzo della notte e con temperature di svariati gradi sotto lo zero. A partire dal 2010 sono cominciate ad arrivare nei boschi serbi persone che fuggivano dalle guerre in Afghanistan, Siria ed Iraq.

Anche in Pakistan, per via della forte repressione e violenza esercitata dai Talebani, migliaia di giovani si vedono costretti ad abbandonare le proprie case in cerca di una vita sicura e dignitosa.

Ph: Antonio Sempere

Fino al mese di settembre dell’anno passato c’erano almeno 10.000 persone rifugiate in Serbia, dove ci sono al massimo 6.000 posti distribuiti in 17 campi, secondo quanto ci è stato confermato da un funzionario serbo; “registriamo una situazione molto difficile a Subotica (località vicina alla frontiera con l’Ungheria), dove c’è il pericolo di una crisi umanitaria se non aumentiamo i posti a disposizione”, ha affermato la stessa fonte, che ha segnalato difficoltà anche a Presevo, nel Sud del Paese, o a Sombor, nel Nord, dove più di 600 persone dormono fuori dalla struttura di accoglienza.

Migliaia di persone sono entrate nel Paese balcanico soprattutto da Macedonia del Nord, Kosovo e Bulgaria. I freddi boschi della Serbia sono pieni di queste persone che trovano il passaggio bloccato da pericolose recinzioni e ne rimangono a centinaia intrappolate sotto il gelido castigo dell’inverno. La “giungla”, così come chiamano i luoghi dove abitano, sono posti reconditi dove il resto del mondo dimentica la tragedia umana delle persone rifugiate, che si aggrappano alla speranza di riuscire un giorno ad eludere i controlli delle guardie di frontiera e giungere dall’altro lato.

In Serbia lavorano molte Ong e associazioni che si occupano di mostrare al resto del mondo gli effetti sulle persone rifugiate delle politiche migratorie che l’Unione Europea applica alle sue frontiere. Una di queste organizzazioni è la spagnola No Name Kitchen, operativa nel Paese balcanico dall’inverno del 2017, quando ha iniziato a distribuire razioni di cibo a migliaia di persone che si trovavano stipate nelle baracche abbandonate a Belgrado. Da allora i volontari non hanno mai smesso di operare in vari punti di Serbia e Bosnia. Le loro azioni di monitoraggio della violenza che gli agenti di polizia di questi Paesi praticano contro le persone migranti, insieme anche al lavoro di altre organizzazioni, sono state raccolte in report, basati sulle testimonianze delle persone che hanno sofferto abusi durante il loro percorso migratorio nei Balcani e che sono state portate dinanzi alle più elevate istituzioni e comitati per i diritti umani degli organismi europei, come il Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite.

Molte ore di cammino nel freddo della notte, nascosti tra gli alberi, passando tra i posti di blocco senza essere scoperti. Questo è l’unico modo per andare in cerca di un futuro migliore, un posto dove sentirsi al sicuro dopo aver lasciato le proprie case in Paesi devastati da guerra, carestie, persecuzioni per motivi politici, religiosi o etnici o, semplicemente, per cercare la vita che qualsiasi essere umano merita, per costruirsi un futuro migliore; ciò nonostante, spesso queste persone si trovano intrappolate in circuiti di violenza, povertà e discriminazione, senza alcun tipo di accesso alle prestazioni essenziali.

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Queste persone sopravvivono grazie alle organizzazioni che gli forniscono il minimo indispensabile per non morire di fame o di freddo. Malgrado gli sforzi dei volontari di procurargli le risorse essenziali, queste persone continuano a dover fare i conti con condizioni di vita deplorevoli. L’ultimo giorno dell’anno, in un accampamento dentro al bosco, quattro giovani afgani preparavano la cena sul fuoco acceso con la legna, estranei alle celebrazioni per l’arrivo, di lì a poche ore, del nuovo anno. Quei giovani sanno che presto diventerà difficile sopravvivere nel posto dove abitano. Le nevicate invernali renderanno impraticabili i sentieri di accesso al bosco e sarà impossibile per organizzazioni come No Name Kitchen prestare soccorso fin lì. Questa organizzazione, con mezza dozzina di volontari a Subotica, mette a disposizione docce, vestiti, cibo e sostegno morale nei vari accampamenti improvvisati dove i profughi rimangano in attesa di poter attraversare la frontiera. I migranti sanno che sarà meglio provare ad accedere ad un campo dove almeno potranno occupare una stanza con il riscaldamento fino alla fine dell’inverno. Sanno anche che è molto difficile tentare il “game” per superare le barriere che li separano dall’Ungheria. Il “game” è il nome che hanno dato al tentativo di oltrepassare le recinzioni con filo spinato costruite dall’Ungheria nel 2015 e che percorrono i 175 km di frontiera con la Serbia.

A rendere la situazione ancora peggiore, molte delle persone migranti subiscono violenza e abusi da parte delle guardie di frontiera. Inoltre, non hanno accesso agli strumenti legali e, per questo motivo, non possono far valere i loro diritti. Questi casi di violenza e abuso sono solitamente ignorati dalle autorità di governo, che negano l’accesso all’assistenza medica. È importante tenere a mente che la situazione in cui si trovano queste persone non è solo un problema umanitario, ma è anche un problema politico.

Ph: Antonio Sempere

Le persone rifugiate che vivono nascoste nei boschi vicini al confine con l’Ungheria, nel Nord, provano a scavalcare le temibili recinzioni che l’Ungheria ha costruito con l’aiuto dell’Unione Europea. Barriere di filo spinato che sono testimoni della violenza che la polizia di frontiera ungherese esercita nei confronti delle persone che tentano di raggiungere l’altro lato. La nuova legge del Paese magiaro prevede come reato la condotta di rompere la recinzione di filo spinato al confine e inasprisce le pene per i trafficanti. Il Governo ungaro ha chiuso due valichi di frontiera con la Serbia nel 2015. Altre persone scelgono di attraversare il confine con la Croazia, ad est, nel tentativo di arrivare in Italia.

Nei campi di Sid, Tabankut o Subotica al nord del Paese, centinaia di persone, molte delle quali non raggiungono neppure la maggiore età, provenienti da Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Marocco, Eritrea, Sudan del Sud e Somalia, che sono riuscite a giungere in Serbia, denunciano percosse e torture da parte degli agenti di sicurezza ai valichi di frontiera. Fare volontariato in Serbia è un’attività difficile, soggetta a costante pressione ed intimidazione in un Paese dove l’aiuto umanitario è criminalizzato, non si può offrire cibo caldo né tanto meno medicine di base, a meno che tu non sia un medico serbo. Il Governo serbo non offre alcun tipo di aiuto, quindi sono le ONG che si fanno carico dei pasti e di offrire aiuto alle persone rifugiate. Volontari provenienti da molti Paesi rischiano di essere espulsi dalla Serbia per il solo tentativo di prestare aiuto.

Ph: Antonio Sempere

Il Governo serbo, con il finanziamento dell’Unione Europea, attraverso il Commissariato Serbo per i Rifugiati, è incaricato di gestire i 17 campi di rifugiati che sono sparsi in territorio serbo. Alcuni di questi sono centri chiusi dove fanno ingresso le persone che, vedendo rigettata la propria richiesta di asilo, aspettano di essere espulse dalla Serbia, cosa che non accade per la mancanza di risorse e che costringe un numero indeterminato di queste a girovagare per le strade di paesi e città e a chiedere l’elemosina per sopravvivere. In altri casi, molti di quelli che hanno abbandonato i campi provano a superare la frontiera con l’Ungheria o la Croazia, non senza prima aspettare l’occasione giusta nascosti nei boschi. “Molti vengono respinti dall’Ungheria feriti e non hanno nessuno che li soccorra. Ci sono molte famiglie che non mangiano da due giorni. La situazione è grave. Non so cosa succederà a tutte queste persone, però se continua così prima o poi succederà qualche disgrazia perché non è garantita alcuna assistenza a quei casi che necessitano di cure mediche” confessa una giovane serba che collabora con un’organizzazione religiosa, particolarmente scossa per la situazione che sta vivendo.

I freddi boschi della Serbia, uno dei luoghi più inospitali del mondo, da tempo accolgono queste persone, un posto gelido dove ripararsi dalla solitudine. In un mondo che gli chiude le porte e gli volta le spalle, queste persone sognano e si fanno coraggio dentro la fitta giunga, gelida e disumanizzata, lontani dalla civiltà testimone di quella che è una tragedia umana. Queste condizioni mettono alla prova la resistenza di esseri umani che, addirittura nelle circostanze più difficili, sono disposti a sacrificarsi, mentre non perdono la speranza di ottenere una vita migliore.