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Lesznowola camp, 7 gennaio, presidio di solidarietà con lo sciopero. Via No borders team

Polonia: scioperi della fame e proteste nei centri di detenzione e fuori

Quattro richiedenti asilo iracheni chiedono libertà dopo più di un anno di detenzione

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Da ormai dieci giorni prosegue lo sciopero della fame di quattro ragazzi iracheni presso il centro di detenzione di Lesznowola, nei pressi di Varsavia. Gli scioperanti sono detenuti da oltre un anno e mezzo, dopo aver vissuto diverse ma simili storie di violenza, dal paese d’origine fino al confine polacco-bielorusso. Sono disposti a mettere in gioco la loro vita perché la deportazione significherebbe morte, a costo di procurarsi gravi danni fisici o di subire le percosse delle guardie, che finora hanno accompagnato a suon di botte l’azione degli internati. Infatti, gli scioperanti vivono da tempo nella costante minaccia di rimpatrio, e sono già stati brutalmente pestati dalla polizia in servizio. Uno di loro sta lottando anche per ottenere il ricongiungimento familiare con la moglie e la figlia, che si trovano in Svezia, dove hanno la cittadinanza. Ma questo non è bastato alle autorità polacche, che hanno più volte minacciato il rimpatrio e rimbalzato le responsabilità alla Svezia. Rimpatrio che per l’uomo sarebbe particolarmente pericoloso, dato il passato da attivista in Iraq.

La lettera scritta in inglese con cui i quattro ragazzi iracheni hanno motivato l’entrata in sciopero

Lo sciopero dei quattro, iniziato il 3 gennaio con una lettera al comandante del centro, ha coinciso con il trasferimento in cella di isolamento di Muhammad al-Zirjawi, ventiseienne iracheno che si trovava al ventesimo giorno di sciopero della fame nel centro di detenzione di Przemyśl, nel sud-est del paese. Muhammad è stato costretto ad interrompere lo sciopero dall’inasprirsi delle condizioni carcerarie, ma la sua lunga resistenza ha in qualche modo innescato una reazione a catena. Ad oggi le condizioni dei quattro stanno peggiorando costantemente. Sabato 5 gennaio uno di loro ha iniziato a vomitare sangue ed è stato portato all’ospedale. Lì ha rifiutato l’alimentazione via endovenosa ed è stato riportato nel centro di detenzione dopo poche ore. Nella notte tra il 6 e il 7 gennaio un altro scioperante ha perso i sensi un paio di volte, ma non è stato aiutato dalle guardie presenti: le attivistǝ che presidiavano l’esterno della struttura hanno chiamato due ambulanze, di cui una non è stata fatta entrare e l’altra, dopo essere entrata, non ha comunque potuto soccorrere lo scioperante. Beffardamente, ad uno delle attivistǝ è stato addebitato il costo per aver chiamato l’ambulanza senza ragione. 

Lesznowola camp, 7 gennaio, presidio di solidarietà con lo sciopero. Via No borders team

Un anno fa, secondo gli ultimi dati Ecre, erano oltre 1.500 le persone detenute nei nove centri di detenzione polacchi, quasi tutte entrate nel paese dalla Bielorussia durante lo scorso inverno. Nei centri di detenzione – che sono gestiti dalla polizia di frontiera e sono definiti “centri sorvegliati per stranieri” – sono internati anche molti minori, donne e famiglie. I richiedenti asilo sono detenuti assieme alle persone soggette alla procedura di rimpatrio, per un tempo illimitato, a discrezione del personale di guardia: Muhammad era rinchiuso da 17 mesi. Tutti sono soggetti alla continua minaccia di deportazione. Esistono poi gli “areszt dla cudzoziemców”, i centri di detenzione “rigorosa”, vere e proprie prigioni riservate alle indisciplinatǝ e alle disobbendientǝ, come quella di Przemyśl.

Come denunciano le solidali presenti, «ancora una volta si assiste alla deumanizzazione delle persone incarcerate nei centri di detenzione, che va dal chiamarle per numero invece che per nome a negare la più basica assistenza medica a chi si trova in pericolo di vita». A questo si aggiunge l’ostruzione e la criminalizzazione del dissenso e della solidarietà: ogni protesta e forma di resistenza è repressa con sempre maggiore brutalità, ed in questo contesto la determinazione a lottare degli scioperanti è un vero atto d’eroismo. «Lo stesso schema che abbiamo visto nelle foreste del confine ora si ripete nei territori del centro», constatano le attivistǝ. Nel frattempo, è del 27 dicembre l’ennesima notizia di una morte di frontiera: una donna siriana di trent’anni, di cui non sapremo nulla. 

Via No Border team

Non possiamo che condividere l’intervento delle solidalǝ durante il presidio di sabato 7 gennaio fuori le mura del carcere di Przemyśl: «L’ultima volta che siamo state qui abbiamo promesso che saremmo tornate, ed eccoci. Un’altra persona imprigionata in questo campo è in sciopero della fame. Può sembrare una decisione drastica o incomprensibile, ma in queste condizioni – di isolamento, confusione ed incertezza sul futuro, di aggressione e violenza da parte delle guardie di frontiera – è l’unica strada. Anche se non produce risultati immediati, dimostra che le persone non sono passive e usano tutti i mezzi di resistenza rimasti. Siamo qui per chi è in sciopero della fame; siamo qui per chi sta lottando, per chi sta terminando le forze; per chi tenta il suicidio; per chi si sta supportano l’un l’altra; per chi si oppone alle guardie; per chi è in detenzione ed in isolamento; per chi viene dalla Siria, dall’Iraq, dall’India, dal Congo, o dal Tajikistan. Siamo qui per tuttǝ, perché nessunǝ dovrebbe spendere un giorno in più in queste prigioni».

«Continueremo finchè non ci sentiremo esseri umani come tutti gli altri, continueremo finché saremo imprigionati, finché non sapremo perché i nostri diritti sono violati», è il grido degli scioperanti dalle celle del centro, inciso nelle parole scritte della lettera. Di cui ci chiedono di essere eco.

Giovanni Marenda

Studente magistrale di Sociologia e Ricerca Sociale all'Università di Trento. Ho trascorso la maggior parte del 2020 ad Atene, in Grecia, impegnato nel lavoro di solidarietà. Sono un attivista del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, che promuove la libertà di movimento e supporta le persone migranti lungo le rotte balcaniche e sui confini italiani.