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PH: Abolish Frontex

Progettare l’enclave Europa

Capire Frontex, oltre la notizia: un dialogo con Yasha Maccanico, ricercatore di Statewatch

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Gli scandali di corruzione, le dimissioni di Leggeri, le violazioni sistematiche dei diritti umani rivelate dal rapporto Olaf (Agenzia antifrode della UE) 1. Gli aerei che sorvolano il Mediterraneo, le macchine della polizia tedesca lungo i confini balcanici. E le proteste del mondo accademico contro gli accordi tra l’agenzia e il Politecnico di Torino, la rete Abolish Frontex, il Parlamento Europeo che si rifiuta di approvare il bilancio consuntivo del 2020.

Di Frontex nell’ultimo anno si è fatto un gran parlare, ma rimane la sensazione di non riuscire a cogliere del tutto il significato di quest’agenzia: cos’è, cosa fa, a chi risponde, la sua importanza strategica.

È per questo che ne abbiamo parlato con Yasha Maccanico, ricercatore di Statewatch, che da molti anni si occupa di fare luce sull’opacità di quest’agenzia europea. Al di là delle statistiche, al di là della notizia: con Yasha proveremo ad andare al cuore di Frontex, ovvero al cuore del disegno europeo. Un dialogo che abbiamo suddiviso in 3 parti e pubblichiamo il 2, 9 e 16 febbraio.

PH: Abolish Frontex
Le notizie su Frontex si susseguono: indagini, rapporti, commissioni di inchiesta… Non si capisce però quali siano i reali effetti di tutte queste azioni contro l’agenzia, oltre alla delegittimazione mediatica. Per ora, sembra che il solo risultato sia stato di aver reso l’Agenzia EU un tema controverso, quantomeno per una parte dell’opinione pubblica. Ma, concretamente, qualcosa sta cambiando?

Sì, finalmente c’è stata un po’ di attenzione su questa agenzia, dopo i molti scandali che l’hanno coinvolta. Ma io preferisco non focalizzarmi sempre su quelli, perché mi sembra che il problema sia il suo modus operandi abituale più che il puntuale sostegno a una qualche violazione dei diritti umani. Infatti, per poter applicare delle politiche di immigrazione intransigenti come quelle europee, c’è bisogno di normalizzare e legalizzare la discriminazione e il razzismo nell’operato di agenzie e polizie.

La questione centrale è che Frontex è difficilissima da rendere responsabile per le sue azioni, perché tecnicamente di azioni non ne fa molte, almeno fino all’ultima riforma del suo regolamento. Infatti, Frontex opera al livello strategico, al livello dell’analisi dei rischi, al livello delle impostazioni. E questo livello di azione ed analisi va oltre i principali scandali che ci sono stati ultimamente.

Un’ulteriore e più ampia problematica è la difficoltà nella ricostruzione delle politiche di esternalizzazione delle frontiere – per quanto ci siano degli effetti che saltano agli occhi, come la coincidenza tra la ripresa dei rapporti tra Spagna e Marocco e il massacro di Melilla. Dal 2015 c’è stata una forte spinta verso l’esternalizzazione, che ha spostato molte azioni dall’ambito degli affari interni a quello della EEAS (European External Action Service), ovvero delle questioni diplomatiche e di politica estera, e quello delle CSDP (Common Security and Defence Policy), ovvero le missioni di sicurezza e militari, che sono presenti in Libia o in Niger, per esempio.

In entrambi questi campi d’azione molte informazioni possono essere secretate legalmente, per proteggere i rapporti con i paesi terzi in nome della sicurezza interna. Pertanto, gli effetti dell’esternalizzazione europea rimangono opachi. Uno di questi, che le autorità provano a nascondere, è il rafforzamento dei ministeri degli interni dei paesi terzi, che sta avvenendo in molti stati con cui si collabora.

PH: Abolish Frontex
Dato il piano d’azione strategico di Frontex, qual è dunque il rapporto di collaborazione tra l’agenzia e le autorità nazionali?

L’aspetto problematico è Frontex sostiene sempre qualsiasi cosa facciano gli stati membri alle frontiere. Questo è anche un modo per poi farsi accettare dalle autorità statali, nel complesso rapporto tra livelli. E quindi Frontex riesce a non avere delle responsabilità legali, perché le responsabilità per gli interventi sono in capo agli stati che attuano direttamente le azioni. Come dicevo, il livello di Frontex è quello strategico, quello delle raccomandazioni, che poi gli stati possono seguire o meno.

Tuttavia, i casi italiano e greco hanno mostrato un cambiamento di questo rapporto tra livelli. Quando l’Italia e la Grecia hanno chiesto l’aiuto delle autorità europee per gestire l’influsso massiccio di persone che arrivava dall’Africa e dal Medio Oriente, in particolare dal conflitto siriano, i due paesi hanno ricevuto un sacco di fondi per l’accoglienza, ma anche per costruire hotspot e di fatto subordinare i diritti alle impostazioni europee. Le linee guida comunitarie prevedevano la classificazione e la registrazione mediante l’acquisizione delle impronte digitali, ed in generale un circuito di arrivo – registrazione in Eurodac (acquisizione delle impronte digitali), esclusione dalle relocations, detenzione e deportazione 2 – molto più veloce.

Essenzialmente, attraverso la richiesta d’aiuto di Grecia ed Italia sono state implementate delle regole europee che fino ad allora non venivano applicate in modo sistematico, perché percepite come negative per i propri interessi dai paesi di primo approdo. In particolare, la corretta registrazione di tutti coloro che arrivavano nella banca dati Eurodac, che Italia e Grecia temevano avrebbe peggiorato la loro situazione di svantaggio strutturale alla luce del regolamento di Dublino.

Leggendo le statistiche sugli “attraversamenti illegali” delle frontiere balcaniche, che sono molto cresciuti negli ultimi mesi, si intuisce come il lavoro di registrazione delle persone da parte di Frontex e delle polizie nazionali stia diventando sempre più efficiente. Dall’altro lato, il progressivo “miglioramento” nella raccolta e gestione dei dati evidenzia quanto questo sia stato finora problematico.

Il fatto è che ci sono dei periodi in cui c’è interesse ad abbassare le statistiche in entrata, per dimostrare che gli sforzi e le spese sono stati utili, e ci sono periodi in cui, al contrario, si alzano per creare allarme. Tra il 2010 e il 2015, Frontex lanciava allarmi denunciando l’aumentare del numero di persone in entrata dai Balcani, salvo poi dover confessare che il numero di attraversamenti di frontiera veniva equiparato a quello delle persone entrate, quando sappiamo benissimo che una sola persona può attraversare la stessa frontiera decine di volte, e che la stessa persona attraversa più frontiere.

Le cifre vengono dunque sempre presentate nel modo più utile al fine perseguito, e questo è uno dei problemi principali di Frontex a mio parere: l’uso disonesto dei numeri, a volte allarmista e a volte minimizzate, a seconda dell’interesse politico del momento.

Il fatto che Frontex sia sempre di più il catalizzatore di tutte le informazioni provenienti dalle varie forze di polizia diventa quindi molto problematico.

Il numero di attraversamenti illegali nelle rotte europee nel 2022, in comparazione con i dati del 2021. Fonte: Frontex
A proposito di dati, in che modo si è dunque sviluppata Eurodac, considerando sia la “negligenza” dei paesi europei di confine, che la necessità di far fronte con dati ufficiali alle attività spesso informali delle polizie?

Come dicevo, Eurodac era diventata quasi obsoleta negli scorsi anni proprio perché ai paesi di prima entrata conveniva non registrare troppe persone, per il carico amministrativo non indifferente della registrazione stessa ma soprattutto per evitare che le persone venissero poi “dublinate” – ovvero facessero ritorno nel paese di primo approdo, dopo aver effettuato movimenti secondari verso altri paesi dell’Unione, per procedere con la richiesta d’asilo.

Comunque, rimaneva la possibilità delle consegne informali (permesse dalla Direttiva sui Rimpatri) tra stati in presenza di un qualche accordo bilaterale, come succedeva tra Italia e Slovenia, per esempio. Queste riammissioni informali hanno scaturito spesso violenza e respingimenti a catena fino all’esterno dell’UE, anche da Italia e Austria. L’utilizzo delle consegne informali è poi funzionale a costruire l’impressione che i servizi di frontiera funzionino meglio di quello che accade nella realtà, riducendo i dati sugli attraversamenti – oltre a causare un evidente problema di accesso all’asilo. Dopotutto, è lo stesso Patto per la Migrazione e l’Asilo che prevede la generalizzazione del modello dei respingimenti informali, in particolare attraverso la designazione di paesi esterni come sicuri anche se non lo sono.

Dal 2015 c’è stato l’ultimo grande sforzo per perfezionare il sistema Eurodac, che gli stati avevano quasi smesso di usare. L’utilizzo di questa banca dati era legato a doppio filo con il “sistema Dublino”, sistema che iniziava ad essere messo in discussione dalle stesse istituzioni europee. I fallimentari progetti di ricollocamento indicavano che il “sistema Dublino” faceva acqua, come riconosceva anche il commissario Avramopoulos, all’epoca responsabile della materia. Però Eurodac rimaneva un punto centrale nel progetto europeo di interoperabilità delle istituzioni, che puntava ad unire i database di polizia, immigrazione e asilo.

Inizialmente, Eurodac doveva servire ad individuare il paese europeo competente per la richiesta d’asilo, però molto presto si è trasformato in qualcosa di più. Infatti, si iniziavano a registrare le impronte digitali di tutti quelli che entravano nei paesi dell’Unione, anche se non esprimevano la volontà di richiedere protezione internazionale. Quindi Eurodac passava dall’essere una banca dati spacciata per fondamentale per l’accesso al diritto d’asilo – per decidere quale era l’autorità nazionale responsabile -, ad essere semplicemente un sistema di schedatura di tutti gli immigrati, siano essi richiedenti asilo o altre persone trovate irregolari nel territorio o entrare irregolarmente nell’Unione Europea. Di fatto, è diventato un sistema di schedatura degli immigrati.

I 15 Stati membri dell’UE più coinvolti nelle operazioni di espulsione di Frontex e le 15 destinazioni più popolari per tali operazioni
Quale prospettiva traccia l’implementazione di un vasto database europeo di questo genere?

La prospettiva è di una gravità estrema. Perché si viola così un principio basilare della protezione dati, ovvero che le informazioni devono essere usate per lo scopo per cui sono raccolte. Se ogni informazione è a disposizione di ogni forza di polizia o autorità viene meno questo principio. Oltretutto, l’UE sta cercando di rafforzare questo sistema sempre di più. Sono uscite alcune cose sulla raccolta di dati biometrici, sulla messa in condivisione di ulteriori banche dati fra vari paesi… Noi abbiamo pubblicato un rapporto sulle possibilità di Europol di processare i dati 3, e sembra si vada verso una raccolta sempre più estesa che giustifica usi anomali, creando una sorta di valutazione globale della persona.

Se c’è un’enorme raccolta dati su caratteri personali che non hanno nulla a che vedere con possibili rilievi penali, uno dei rischi è che semplicemente provenire da una determinata zona o avere un determinato accento possa causare il rifiuto della richiesta d’asilo. Provenire da una zona con gruppi armati attivi potrebbe condurre all’esclusione di alcuni rifugiati perché “non ci possiamo prendere il rischio”.

Per esempio, dopo la presa del potere dei talebani in Afganistan bisognerebbe proteggere tutti gli afghani, ma le autorità sono alla ricerca di un modo per poter rifiutare le persone, cercando di considerarle collettivamente come minacce per la sicurezza o per l’ordine pubblico. È il modello “canale Isis”, e penso sia la cosa che ha fatto più danni alle politiche migratorie, accoppiata al discorso sui “fattori di spinta” e i “fattori di attrazione”.

Iniziativa davanti al Politecnico di Torino (dicembre 2021)
È la stessa costruzione discorsiva e normativa che ha portato alla criminalizzazione della solidarietà.

Esatto, attraverso la retorica sui fattori d’attrazione si è arrivati a considerare una persona che aiuta i migranti come una persona che va contro l’Europa, perché rende più difficile l’implementazione di certe politiche. Da qui parte la criminalizzazione delle ONG, nella quale Frontex ha avuto un ruolo fondamentale e pioneristico, anticipando la politica nel definire le navi che salvavano le persone al largo come un “pull factor”, perché aumentavano la possibilità di arrivare in vita di chi attraversava il Mediterraneo. Praticamente, la sopravvivenza è diventata un problema.

Già nell’agenda europea sull’immigrazione del 2015, era stato dichiarato esplicitamente che si volevano rendere più pericolose le traversate via mare per contrastare i trafficanti, quando sapevano benissimo che i trafficanti non salivano sulle barche. E poi la politica degli hotspot, dove i diritti erano subordinati all’acquisizione delle impronte digitali, penalizzando chi non era disposto a consegnarle. E poi i campi sempre più chiusi, anche da un punto di vista di accesso alle informazioni.

In Italia come in Grecia poi la presenza della task-force regionale dell’UE, che includeva la presenza di Frontex, è stata strumentale anche nella lotta alle ONG. Non sorprende affatto che la campagna giudiziaria sia partita da Catania, col procuratore Zuccaro, che aveva ammesso di collaborare benissimo con Frontex.

Un altro tassello riguardava le operazioni di sbarco: si è normalizzato il fatto di lasciare immediatamente le impronte digitali, di fare interrogatori con i naufraghi per indagare su cosa fosse successo, per provare ad arrestare un paio di persone con l’accusa di essere “scafisti quando in realtà erano passeggeri come gli altri e semplicemente guidavano la barca. Questo da un lato permetteva alle forze di polizia di far vedere che stavano arrestando criminali, dall’altro alimentava la narrazione del migrante pericoloso e del movimento delle persone associato unicamente ai trafficanti. Il risultato sono state pene spropositate per persone che si erano semplicemente mosse per aiutare gli altri ad arrivare sani e salvi alla destinazione, anche rischiando la vita 4.

Ancora relativamente alle impronte, c’è una questione interessante che emerge nei documenti ufficiali: il fatto che ci fossero persone che si rifiutavano di darle o che arrivavano ad auto lesionarsi per cancellarle, era descritto come una questione di non conoscenza delle procedure. Dal punto di vista delle istituzioni c’era il bisogno di spiegare come funzionava il sistema per l’attribuzione dello status di rifugiato, come funzionava la banca dati. Pensavano bastasse semplicemente rassicurare le persone. Ma le manifestazioni all’interno degli hotspot contro la presa delle impronte nascevano, al contrario, da una consapevolezza e una conoscenza del sistema.

Se mi prendono le impronte il mio futuro è finito”, “il mio progetto non ha più un futuro”.

Le persone sapevano benissimo cosa avrebbe implicato: che non avrebbero più potuto andare dove volevano ma sarebbero dovute restare in Italia o in Grecia.

  1. Scarica il rapporto
  2. Frontex and deportations, 2006-21, Statewatch (12 gennaio 2023). I dati relativi a 16 anni di operazioni di deportazione di Frontex mostrano il ruolo in espansione dell’agenzia. Le infografiche mostrare il numero di persone deportate nelle operazioni coordinate da Frontex, gli Stati membri coinvolti, gli Stati di destinazione e i costi
  3. Il rapporto di Statewatch: Empowering the police, removing protections: the new Europol Regulation (novembre 2022)
  4. Un famoso caso giudiziario

Giovanni Marenda

Studente magistrale di Sociologia e Ricerca Sociale all'Università di Trento. Ho trascorso la maggior parte del 2020 ad Atene, in Grecia, impegnato nel lavoro di solidarietà. Sono un attivista del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, che promuove la libertà di movimento e supporta le persone migranti lungo le rotte balcaniche e sui confini italiani.