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«Quei tre giorni in CPR che non scorderò mai»

La lettera di un ragazzo inviata alla rete Mai più lager - NO ai CPR di Milano

Ph: Giovanna Dimitolo, Sconfiniamo: manifestazione a Milano

La lettera di A.*, 22 anni, di nazionalità marocchina, in Italia da quando ne aveva 4, è stata inviata alla rete milanese Mai più lager – NO ai CPR di Milano che l’ha pubblicata sulla sua pagina facebook.
Il ragazzo racconta di essersi recato in Questura per una formalità e di essersi ritrovato per 3 giorni terribili nel “tunnel degli orrori” del CPR di Milano.
Un incubo, una storia come tante, di prassi abusive della Questura, con un lieto fine come poche“, scrive Mai più lager – NO ai CPR.


Una formalità, prima di andare al lavoro

Quel 13 agosto avevo l’appuntamento in questura a Monza per portare gli ultimi documenti richiesti e lasciare le impronte digitali per il rilascio del mio permesso per lavoro subordinato: finalmente avevo trovato un lavoro e subito dopo avrei dovuto andarci. Doveva essere solo una formalità.

Consegnati i documenti, mi avevano detto di attendere, e solo dopo quattro ore un poliziotto, avvicinatosi, mi aveva detto di seguirlo perché c’erano alcuni problemi: la richiesta di permesso di soggiorno era stata alla fine respinta a causa di alcuni reati commessi nel 2016, quando ero ancora minorenne, poi estinti per esito positivo di messa alla prova e perdono giudiziario. Mi hanno notificato un provvedimento di espulsione.

Mi disse che dovevano portarmi in una struttura apposita e che entro qualche ora avrei dovuto comparire davanti ad un giudice di pace.

Non capivo molto di quello che mi stava succedendo, ero nervoso e confuso perché non capivo quale fosse il problema: lavoravo, avevo la residenza da 17 anni, mia madre vive in Italia dal ’92, ed altro non c’era; mi ero sempre comportato bene da quando avevo sbagliato da minorenne, lavorando sempre.

Non capivo, ero triste e molto nervoso, avevo capito che stavo subendo un ingiustizia, su una decisione infondata. Non potevo credere a quello che stava succedendo: fino a poco prima dovevo andare a lavoro, ero vestito da lavoro.

Invece venivo arrestato e portato in una struttura, rinchiuso senza aver fatto niente. Non era un brutto sogno ma la realtà.

Il CPR, la perquisizione con 7 agenti, il numero identificativo

Mi ritirarono tutti i documenti, e mi portarono a fare controlli all’ospedale tra cui tampone COVID, per poi riportarmi in questura.

Poi verso l’una mi accompagnarono in questo luogo, il cosiddetto CPR: un carcere, a prima vista.

Entrando mi fecero aspettare seduto in una stanza. Poi la perquisizione, facendomi spogliare completamente a nudo davanti a 7 agenti: molto imbarazzante, fregandosene della dignità umana.

Mi portarono quindi a parlare con un direttore che mi spiegò che struttura fosse e che funzione aveva quel posto.

Mi sequestrarono tutto, mi fecero togliere anche le stringhe e mi diedero un targhetta plastificata con nome cognome e numero di riconoscimento.

Mi portarono a fare una visita dal loro medico, una visita molto superficiale.

Nel settore X *, tra urla e lamenti

Dopo, sono stato portato nel settore X *, scortato da 8 persone, tra agenti e operatori: sarebbe andato tutto bene, dicevano; l’importante era collaborare e comportarsi bene.

Durante il breve tragitto potevo sentire urla strazianti e lamentose e continui rumori di sbattimento sulle porte di ferro.

A tutti gli effetti sembrava una galera, anzi che una struttura di accoglienza come dicevano.

Un posto molto sporco, buio e grigio pieno di inferriate e inferriate come se fosse una galera di massima sicurezza, tutto saldato a terra: tavoli, letti, sedie, luci blindate.

Vengo accolto dagli altri ospiti del cosiddetto penitenziario. Poi in seguito mi portano il letto di spugna e un cuscino di spugna con una lenzuolo in cotonella.

‌Ero ancora confuso, e non capivo perché sera successo a me, che stavo lavorando per questo paese che ormai chiamo “Casa” come un normale cittadino. Ovviamente ho sbagliato e ho pagato, e ancora a distanza di 7 anni quasi non mi sento ancora libero.

Il cibo

‌La sera a ora di cena alle 7 entrò una guardia con un operatore a distribuire il cibo precotto e preconfezionato. Non mi ricordo mai di aver mangiato del cibo così, tiepido e senza sapore.

I pasti sono alle ore 8, 12, 19. Generalmente arrivano in ritardo, l’acqua la consegnano in bottigliette senza tappo, ‌e fuori dai pasti viene data quasi in orizzontale dalla fessura di comunicazione della porta di ferro che accede al corridoio.

Le deportazioni a sorpresa

‌Il giorno successivo, alcuni agenti in antisommossa entrarono con altre‌ guardie senza preavviso urlando a tutti di‌ collaborare perché dovevano portare via un ragazzo. Questi si nascose, poi fu ritrovato e portato via.

L’abbandono e il nulla

‌E’ un posto molto cupo, sporco, disturbante. C’è un continuo rumore di lamenti dei detenuti e il continuo rumore di sbattimento di porte di ferro, perché cercano di attirare l’attenzione per essere assistiti da qualche operatore; ma più delle volte non ricevono mai risposta, anche per una banale accensione di sigaretta, perché bisogna chiedere l’accendino all’operatore.

‌Il tempo sembrava non passare mai, abbandonati a noi stessi senza attività né niente come se fossimo emarginati dalla società: ‌passi il tempo a fumare e dormire pensando di uscire presto da questo posto, sperando non ti vengano a prendere mentre mangi o dormi.

Tre giorni che non passavano mai

‌Alla fine sono uscito grazie al mio avvocato, dopo tre giorni che sembravano non passare mai. Il giudice di pace ha convenuto che non dovessi stare lì dentro: era stato un errore.

Tre giorni che non dimenticherò mai.

* Iniziale del nome e numero di settore di fantasia