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Foto di Antonio Sempere
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Tarajal. Il dovere della memoria per tutte le vittime di frontiera

Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità

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A Ceuta, enclave spagnolo situato a nord nel continente africano, centinaia di persone, tra attivistə e giovani migranti, continuano la Marcha por la Dignidad che da nove anni percorre l’intera cittadina lungo la linea che divide la Spagna dal Marocco per raggiungere la spiaggia del Tarajal dove, il 6 febbraio 2014 furono assassinate oltre 15 persone di origine sub-sahariana delle 300 che tentavano di attraversare il confine a nuoto.

Quella mattina, all’alba di un’ennesima violenza razzista e coloniale, la Guardia Civil spagnola non solo sparò contro di loro proiettili di gomma per impedire che raggiungessero la costa, provocandone l’annegamento, ma eluse ogni tipo di soccorso delle persone in difficoltà e il recupero dei corpi in mare.

Alla Frontera Sur sono trascorsi nove anni di impunità, nove anni di ingiustizia e violenza perpetrata verso le vittime di quella tragedia e contro tutte coloro che ogni giorno sfidano una delle frontiere più ineguali al mondo. Vigile e repressiva in modo sempre più assiduo sulle persone che da diversi paesi dell’Africa tentano l’attraversamento per mare e per terra della valla di filo spinato che separa i due continenti.

Se è vero che nel Mediterraneo è iniziata l’Europa, altrettanto certo è che nel Mediterraneo stesso si esaurisce, tra le colonne di un mito che non ha più eroi ma esseri umani in cerca di sogni brutalmente lacerati. Uomini e donne disumanizzate affinché il fardello di colpe e responsabilità trainato da secoli di imperialismo e gerarchie di potere – ben oltre la colonialità storica – alleggerisca il suo peso.

«Esistono due morti: quella fisica e quella ermeneutica» ha affermato Patuca Fernandez, l’avvocata di Coordinadora de barrios che prese in carico il caso del Tarajal, nel suo intervento sul dovere della memoria delle vittime di frontiera 1

La prima costituisce quella biologica mentre la seconda riguarda quella inflitta dal processo di normalizzazione e di riduzione o perdita di rilievo del crimine che l’ha provocata. Un criminale non solo uccide la vittima ma impiega ogni sforzo necessario per trovare forme strategiche di ridurre la carica penale che ricadrebbe sui crimini commessi.

È il modus operandi di una più profonda logica razziale che tende a interiorizzare e disumanizzare le persone migranti per normalizzare la violenza e gli abusi a loro inflitti.

Ma queste morti non sono occasionali, né tanto meno naturali. Sono sistematiche e strutturali, legittimate da una necropolitica razzista in quanto applicata esclusivamente sulle persone che provengono da territori direttamente o indirettamente vincolati alle (ex)colonie, mediante accordi in materia di sicurezza e criminalizzazione applicata sulla base della propria origine.

Ad oggi questo crimine resta ancora impunito, sotto la responsabilità di nessuno se non delle vittime stesse, profanate non soltanto in vita ma calpestate nella propria dignità in morte e in quella dei familiari, privati di verità e di giustizia, del diritto al dolore, al lutto, al risarcimento e alla non ripetizione.

Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità.

Puntare lo sguardo indietro ha un significato estremamente potente per quanto accade nel presente, e dare contenuto a quel passato che continua sistematicamente a ripetersi. Fare memoria vuol dire far conoscere la realtà di quanto accade ed esigere giustizia per ogni vittima di frontiera.

«Ricordiamo il Tarajal ma parliamo di altre stragi», ha affermato Youssef M.Ouled, giornalista specializzato in razzismo istituzionale e sociale. «Quello che è successo nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma sistematico», ha continuato ricordando quanto accaduto di recente a Melilla2. Se cambiassero il luogo e la data, l’evidenza della violenza delle frontiere, esterne ed interne al Paese, sarebbero esattamente le medesime.

Tra le vittime più recenti, Moussa Sylla, espulso dal Ceti (Centro di residenza temporanea per migranti) di Ceuta dove era stato accolto al suo arrivo in territorio spagnolo lo scorso dicembre 2022. Moussa ha dovuto lasciare il centro senza però avere un altro luogo dove andare, allontanato come tanti altri minori che arrivano soli e finiscono abbandonati a sé stessi e alla disperazione. Fino allo scorso 26 gennaio era rimasto davanti alla porta dello stabilimento per chiedere di entrare. Sotto pioggia e freddo supplicava ripetutamente di non esser rilegato al margine ancora una volta. Ma non è stato ascoltato. Espulso dallo Stato che difende le frontiere anziché proteggere le persone, Moussa si è impiccato ad un albero dinanzi le porte dello stabilimento.

Le colonne di Ercole, erette una di fronte all’altra nello stretto di Gibilterra, non sono più elemento di connessione ed unione tra due mondi inesplorati di un Ulisse che dal suo viaggio fa ritorno in patria. Le colonne dello stretto sono una stretta sul popolo in movimento indesiderato, una strategia ulteriore di chiusura all’Altro per cui l’hospes si è risolto in hostis.

In questo incrocio di acque – Atlantico e Mediterraneo – e di terre, l‘Europa dall‘Africa, sorge l’inquietudine di una frontiera in cui i paesi e gli uomini non solo stanno di fronte ma sul fronte, in prima linea di guerra, per fronteggiarsi ed ispezionarsi.

E’ al grido di «Basta violenza alle frontiere» che accompagniamo la marcia di commemor-azione che da nove anni si batte contro l’impunità che vige sul caso: l’inchiesta giudiziaria aperta, che stava per mettere al banco per omicidio colposo 16 guardie civili (scampate applicando la ‘dottrina Loot’), è stata definitivamente archiviata dalla Corte Suprema nel giugno dello scorso anno. La Corte Costituzionale sta ancora studiando se accogliere o meno i ricorsi presentati da diverse organizzazioni non governative e per conto delle famiglie delle vittime (a cui non è stato nemmeno permesso di recarsi in Spagna) per violazione dei loro fondamentali diritti alla vita, protezione giudiziaria effettiva e integrità morale, come indicato nelle dichiarazioni dell’avvocata Fernández.

In memoria di Roger, Yves, Samba, Larios, Daouda, Luc, Youssouf, Armand, Ousmane, Keita, Jeannot, Oumarou, Blasie e le altre persone non identificate, continuiamo ad esigere che si faccia giustizia, che venga riconosciuta la responsabilità dei crimini di frontiera e garantire equi diritti a tutte le persone senza condizione alcuna.

  1. Guarda la registrazione della tavola rotonda.
  2. 2022, quando la politica migratoria ha perso ogni pudore a Melilla

Valentina Delli Gatti

Antropologa e attivista per la libertà di movimento e il supporto delle persone migranti.
Sono specializzata in migrazioni internazionali e indago il tema della mobilità e delle mobilitazioni migranti con particolare attenzione all’etnografia delle frontiere e le strategie di lotta nell’area euromediterranea e nel contesto sud e centro americano.
Sono operatrice del progetto Mem.Med per la ricerca e l'identificazione delle persone migranti scomparse.