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PH: Mem.Med
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Cutro. I fiori del mare contro lo Stato di decomposizione

Da loro apprenderemo a sopravvivere e a lottare

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“Alle ossa dei piedi s’allegò la madrepora che fiorisce in coralli..”
Da “Affondi”, Opera sull’acqua, Erri De Luca

Le circa tre settimane che seguono il naufragio di Steccato di Cutro sono state e continuano ad essere costellate da diversi falsi allarmi e notizie fittizie e frammentarie.

La guardia costiera italiana ha messo in moto una macchina – per quanto estremamente operativa – non sufficiente al recupero dei corpi che con molta probabilità ancora giacciono sul fondo di quei 150 metri d’acqua che separano la spiaggia dal relitto dell’imbarcazione inabissata.

Si cerca senza sosta dal cielo e da terra ma in profondità, ancora nessun sommozzatore ha ottenuto il consenso per attivare le complesse operazioni di rimozione del barcone e degli almeno 30 corpi che potrebbe trattenere.

Il mare li sta restituendo autonomamente, poco per volta, con estrema difficoltà, in avanzatissimo stato di decomposizione.

L’ultimo, quello di un uomo recuperato grazie ad un’operazione estremamente complessa, le cui probabilità di riuscita si riducono drasticamente ogni giorno che passa.

Ci aggiorna sulle operazioni la stessa equipe operativa – tra polizia scientifica, organizzazioni del terzo settore, giornalisti – che senza sosta incrocia i pochi dati in possesso per poter risalire all’identità delle salme recuperate.

E’ soprattutto per questo motivo che come Mem.Med abbiamo enfatizzato sin da subito sull’urgenza e la necessità immediata di ottenere da parte della procura di Crotone l’autorizzazione per prelevare il campione di DNA dei familiari ancora in loco, fondamentale a restituire un nome e un volto alle persone non più identificabili.

Non si tratta ormai solo di ricostruire generalità biografiche e dettagli fisici: segni particolari sul corpo potrebbero non bastare all’esame autoptico per cui solo il sesso, l’abbigliamento e il confronto del materiale genetico dei familiari può garantirlo.

In queste infinite settimane, in cui il tempo si è fermato per morti e vivi, abbiamo monitorato con attenzione ogni fase di ricerca, recupero e identificazione delle vittime restituite dal mare. I familiari e gli amici accorsi a Crotone hanno sospeso la propria vita non solo per quanto accaduto ai cari, ma anche perché provati e provocati da attese indefinite sulla loro sorte, privati di risposte a domande lecite circa rimpatrio delle salme, dalle ricerche in mare e il ricongiungimento con le persone sopravvissute, tuttora reiterate tra oblio e dimenticanze.

Le famiglie e gli amici giunti in Italia per ritrovare le persone che attendevano da questo lato del mare, stanno lasciando la Calabria ancora col dubbio che quei corpi possano essere abbandonati in mare. Qualcuna non ha avuto la possibilità di partire. Ci scrivono ininterrottamente dal Pakistan, dall’Iran, dalla Palestina, dalla Germania per avere aggiornamenti costanti, per avere risposta sui loro figli e figlie, fratelli e sorelle che lo Stato trattiene da settimane.

Shahid ha riconosciuto suo fratello attraverso una video chiamata, proprio come la famiglia tunisina di Siwar che, partita per raggiungere l’amore, ha trovato la morte.

Shahid non ha ancora comunicato a nessuno della famiglia che il fratello non è in vita, ma rinchiuso in un campo tra i sopravvissuti, come aveva voluto credere dai primi giorni dal naufragio.

È suo il primo messaggio che leggo al risveglio, perché fiducioso del fatto che potremmo velocizzare le procedure ed alleggerire quel peso che porta dentro di sé per non gettarlo sulla madre.

I giorni precedenti al rinvenimento, era stato aggirato da chi lo ricattava per soldi, minacciato di non rivedere più suo fratello “sequestrato“, se non avesse pagato la somma richiesta.

Senza un corpo che affermi la verità sulle sorti dei propri familiari, le persone che non possono raggiungere l’Italia cercano di darsi una speranza, anche credendo alla peggiore delle ipotesi, fuorché alla sparizione.

Ed ora che lo ha ritrovato, l’ennesima violenza lo separa dalla salma del fratello, nell’attesa senza tempo che rientri in Pakistan.

L’ultima segnalazione è quella di un ragazzino di 17 anni. Voi ve li ricordate i vostri 17 anni, fremere di entusiasmo man mano che si avvicinavano ai 18?

Atiqullah non potrà mai raggiungerli. Aveva modificato il suo passaporto affinché potesse partire da maggiorenne per Dubai dove la sua famiglia avrebbe voluto che lavorasse.

Ma Atiqullah fuggiva anche da questo, da una vita sacrificata per viverla in maniera più dignitosa.

La sorella ci ha fornito ogni particolare utile all’eventuale riconoscimento, ne descrive ogni centimetro del corpo affinché, una volta recuperato, possa essere riconosciuto dalle cicatrici sui piedi.

Quei piedi instancabili che solo le persone migranti sanno valorizzare, perché indispensabili a proseguire il cammino, la rotta verso la libertà. Ma il mare tradisce, ed è probabilmente già tardi perchè possa essere riconosciuto dai suoi piedi.

Nell’ininterrotta impresa per la verità e la giustizia che perseguiamo, un modello efficace è impegnato per sopperire alla gravissima negligenza di uno Stato di decomposizione politica che ancora oggi oltraggia il rispetto e la dignità delle persone disperse.

Dall’incontro con i familiari a palazzo Chigi in cui il Presidente Meloni si è concessa il privilegio di domandare – a chi quel mare lo attraversa perchè altrove rischierebbe la sua vita – se conoscessero le avversità a cui andavano incontro, fino alle risposte belle e fatte nel question time che i ministri si sono limitati a offrire ai parlamentari sull’ennesimo, non ultimo, naufragio nel Mar mediterraneo che conta la vita di ulteriori 30 persone.

Mentre alla Camera i ministri impegnano con imbarazzo il tempo ad eludere le responsabilità nonché la capacità di soccorrere in mare – e lo abbiamo visto a Crotone con il salvataggio delle oltre 1.000 persone scortate dalla Guardia costiera – si ribadisce l’attacco inconcludente e infondato alla “mafia degli scafisti”.

Ma è troppo facile puntare il dito a dei giovani ribelli, a quel compagno di viaggio che nelle aule di tribunale è testimone come gli altri sopravvissuti di questo delitto.

Forse i ministri italiani dimenticano che le zone SAR non corrispondono a una competenza sovrana ma a un’indicazione operativa. Laddove le autorità libiche, maltesi o più prossime ad un’imbarcazione non sopraggiungano per il soccorso in mare, la responsabilità è, e deve essere, delle autorità italiane e di tutte coloro che possono intervenire. La domanda, dunque, non è se pensiamo che lo stato non abbia intenzionalmente salvato le vite, come ha ribaltato ai giornalisti durante il CDM tenuto a Cutro, perché lo abbiamo già affermato. La vera questione da porre, è se davvero è stato fatto e si continua a fare tutto il possibile per salvare le vite in quel mare e in qualsiasi punto del Mediterraneo.

E’ difficile credere alla parole di chi non molto tempo fa, affermava di voler affondare le navi delle ONG e installare blocchi navali contro le persone migranti.

PH: Mem.Med

La più assidua accusa rivolta alle antropologhe fa spesso enfasi sul simbolismo utilizzato nell’interpretazione della realtà. Ebbene, malgrado gli elementi simbolici non sempre siano il grado massimo di espressione utile a restituire la lettura più vicina al contenuto semantico e concreto dell’agire umano, si predispone ancora una volta come uno degli strumenti più immediati e verosimili per la descrizione di uno stato dell’arte che anche questa volta vede nascere fiori da uno Stato in putrefazione.

Linguaggio, immagini e suoni ribaltati di un significante insignificante, che non ha ancora capito qual’è la sua più antica etimologia: la vita.

Abbiamo teso le braccia alla morte e ne abbiamo tirato fuori memoria. Ci siamo immerse con corpo e spirito nel fondo del dolore di chi resta e racconta chi è andatə via. Ci siamo ritrovate a raccogliere frammenti di vita – biologica e non – dalle mani dei familiari e dei sopravvissuti nelle auspicabili ipotesi che si potesse restituire l’identità alle persone ancora in mare. Perché sappiamo, come scrive Erri De Luca, che quelle acque hanno volti, i volti di Iona e della ribellione.

Ho letto da qualche parte che non bisogna mai fidarsi dei libri, e forse è un consiglio che terrò presente più spesso quando, anziché leggere di cosa gli altri hanno da dire di terzi, sentirò questi ultimi parlare per sé, di sé, del mondo che abitiamo.

Potrebbero chiedermi, quindi, chi parlerà per le morti: Saranno loro a parlare di sé, di noi, di tutto. “I morti sono più eloquenti dei vivi”, scrive Cristina Cattaneo in un suo libro ormai divenuto una guida sul tema dell’identificazione dei naufraghi.

Queste morti non tacciono, parlano del proprio coraggio, della sfida, del movimento. Queste morti sono e restano persone, ci parlano in prima persona, di come sono partite, tendendo la mano ai sacrifici, alla dignità e alla dissidenza, per ribellarsi, per opporsi a ciò che non andava bene, a ciò che opprime e spinge via la vita che resiste.

Queste morti parlano di quanto non vogliamo che parlino, di come non le si voglia vedere, sentire, pregare, piangere, riconoscere, ricordare.

Ma la morte è potente quanto la vita, così potente da risuscitare anche i vivi che muoiono ciechi di indifferenza.

Allande scriveva a sua figlia Paula che la separazione non è mai definitiva finché esiste il ricordo, la memoria viva che tessiamo nel cammino per la verità e la giustizia.

Queste morti non saranno testimoni ma sono epistemi e da loro apprenderemo a sopravvivere e a lottare. La resistenza dei vivi è la giustizia per i morti e noi non dimentichiamo la rabbia!

Chi lotta non muore. Chi lotta è fiore.

Sulla porta della scientifica al Palamilone

Valentina Delli Gatti

Antropologa e attivista per la libertà di movimento e il supporto delle persone migranti.
Sono specializzata in migrazioni internazionali e indago il tema della mobilità e delle mobilitazioni migranti con particolare attenzione all’etnografia delle frontiere e le strategie di lotta nell’area euromediterranea e nel contesto sud e centro americano.
Sono operatrice del progetto Mem.Med per la ricerca e l'identificazione delle persone migranti scomparse.