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Screenshot del video che inchioda gli agenti
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È strage nel centro di detenzione di Juárez al nord del Messico

Almeno 40 morti e decine di feriti nell'incendio di un centro di detenzione. Un video mostra gli agenti che non aprono le porte

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Città del Messico – Ciudad Juárez, meglio conosciuta come Juárez – stato messicano di Chihuahua – è uno dei passaggi di frontiera con gli Stati Uniti più transitati del 2022. Nella notte del 27 marzo un incendio scoppiato nel corso di una protesta ha ucciso circa 40 persone ed ha provocato gravi lesioni ad una ventina di altri trattenuti rinchiusi nell’ala maschile del centro di detenzione per migranti, uno delle cosiddette “Estaciones migratorias”. Qui le persone vengono rinchiuse in attesa di essere deportate e dove, va sottolineato, si trovano sotto la tutela dello Stato. Luoghi di detenzione di persone che non hanno commesso alcun reato, luoghi che in Messico come in Italia, vanno chiusi.

Mentre si moltiplicano i comunicati, i presidi, le chiamate di piazze per protestare contro la strage di Juárez, in un comunicato sottoscritto da più di 200 organizzazioni e 11 reti sociali si denuncia che quanto accaduto è responsabilità del governo federale. «La situazione riflette l’assenza di protocolli e di una politica statale che garantisca i diritti e la protezione dei migranti e dei richiedenti asilo. 41 persone sono morte e più di 20 sono rimaste ferite in un incendio a causa di una serie di omissioni da parte delle autorità responsabili degli spazi e delle vie di evacuazione per affrontare questo tipo di incidenti. Al momento non si conosce il numero totale di persone presenti all’interno del centro, ma si sa che la capienza era superiore alla norma. La politica migratoria in Messico uccide», concludono.

Le “Estaciones migratorias” non sono alberghi, sono carceri

«Le autorità continuano a usare termini come “alojamiento” o “albergue” per riferirsi alla detenzione e alla privazione arbitraria della libertà negli “alloggi” per immigrati»; l’Instituto Nacional de Migración (INM) classifica gli spazi con nomi diversi ma lo scopo di tutti è lo stesso, privare della libertà le persone in situazione di mobilità. L’uso di eufemismi da parte delle autorità tenta di minimizzare la gravità della situazione e di eludere la responsabilità dell’INM nella gestione delle sue strutture e la protezione che deve garantire alle persone sotto la sua custodia.

Le “Estaciones migratorias“, gli alloggi temporanei e gli altri luoghi autorizzati dalla Legge sulla migrazione sono centri di detenzione dove le persone sono private della libertà, in isolamento, sovraffollate e chiuse con i lucchetti. Affermare che quanto accaduto è il risultato di una protesta/rivolta significa speculare e rivittimizzare.

Le dichiarazioni governative dopo la strage

In un comunicato del 28 marzo, l’INM informa di 39 persone morte (salite, secondo altre fonti, a 41) e 29 ricoverate in ospedale in condizioni delicate-gravi 1, esprime il suo cordoglio, avvia una denuncia e si dichiara disposto a collaborare con le indagini, ma non si assume alcuna responsabilità.  
 
Il presidente della repubblica, Andrés Manuel López Obrador, nella sua conferenza stampa mattutina e giornaliera ha “spiegato” queste morti, affermando che i migranti “hanno messo in atto una protesta ed incendiato dei materassini senza immaginare” che questo avrebbe causato conseguenze fatali; una gravissima affermazione che cinicamente colpevolizza le vittime, rivittimizzando loro e le loro famiglie. 

Le responsabilità

È chiaro che la responsabilità dello Stato si colloca fondamentalmente su due livelli. 

Innanzitutto le politiche migratorie del governo messicano che, subalterne agli interessi ed ai diktat degli Stati Uniti d’America, improntate ad una logica securitaria e di esternalizzazione della frontiera del vicino del nord, creano situazioni esplosive in tutto il paese, soprattutto nelle zone di confine. Le proteste sono quindi una conseguenza di queste politiche.

D’altro canto, come parte di tali politiche, la criminalizzazione delle persone in situazione di mobilità e l’uso sistematico della detenzione svolgono un ruolo centrale.

Nel corso della protesta scoppia un incendio e, indipendentemente dalle sue dinamiche, tuttora da verificare, nessuno apre le porte per salvare le vite di chi è rimasto intrappolato dietro le sbarre e le serrature chiuse.

Scoppia l’incendio ma le porte rimangono chiuse

La diffusione di un video in cui si vede l’interno del centro mentre scoppia l’incendio.

Un detenuto cerca di aprirlo i cancelli a calci, senza riuscirci, gli agenti lo vedono ma, invece di aprirlo, se ne vanno con tutta calma, condannando a morte i migranti chiusi dietro le sbarre. Immagini crudeli che hanno scioccato l’opinione pubblica.

Sono innumerevoli le reazioni immediate e la mobilitazione di associazioni e reti per i diritti umani che denunciano, protestano ed esigono verità e giustizia, e la chiusura di questi centri che, scrivono, non dovrebbero esistere.

«Ricordiamo al presidente Lopez Obrador che gli “alloggi temporanei” e le Stazioni Migratorie non sono Centri di Accoglienza, bensì centri di detenzione, dove si violano i diritti delle persone in mobilità», denuncia Sin Fronteras. «Ricordiamo all’Istituto Nazionale di Migrazione che la detenzione deve rappresentare un’eccezione, l’ultimo provvedimento a cui ricorrere, e non la norma». E conclude: «Protezione, non detenzione».

Il Servizio Gesuita per i Rifugiati, JRS, esige da l’INM «la lista delle persone che si trovavano nelle sue strutture, al fine di permettere alle famiglie di conoscere la situazione dei propri cari e poter chiedere appoggio ai rispettivi consolati»; chiede inoltre «la riparazione immediata dei danni, che deve essere trasparente e veloce, assicurando, tra l’altro, l’assistenza legale e psicologica delle persone sopravvissute e delle loro famiglie. Lo Stato dovrà garantire che l’investigazione sia assolutamente imparziale, non possiamo permettere alcuna omissione delle responsabilità che corrispondono a ciascuno dei tre livelli di governo» (ndr: municipio, stato, federazione).

I pronunciamenti citati sono solo alcuni tra i tanti che si sono susseguiti sin dalle prime ore successive alla strage. I loro contenuti ritornano in quello che ha diffuso il Consejo Ciudadano dell’INM, un organismo collegiale consultivo dell’Istituto di cui fanno parte espertə del tema, attivistə ed accademicə, che si pronuncia duramente «per la chiusura totale delle Stazioni» ed «… esprime una ferma condanna dei fatti, dato che da tempo organizzazioni della società civile, organizzazioni internazionali, difensorə dei diritti umani abbiano documentato le condizioni deprecabili che imperano nelle Stazioni Migratorie e negli Alloggi Temporanei».
Le Stazioni Migratorie e gli Alloggi Provvisori sono centri di detenzione, che funzionano in base ad uno schema di sicurezza nazionale ed operano come prigioni.

A 24 ore dalla strage le autorità continuano a cambiare i dati relativi a morti e feriti. Nelle ore del pomeriggio l’INM, oltre a fornire la lista delle vittime, aveva informato di 38 morti, cifra poi corretta a 40. Si parla di alcuni migranti ustionati in condizioni molto gravi, ma le notizie si modificano con il passare delle ore. In questa giornata convulsa, la macchina del governo si è mossa: rappresentanti del governo si sono recati a Ciudad Juárez, hanno visitato i feriti, altri hanno fatto dichiarazioni contraddittorie (per esempio i ministri degli esteri e degli interni), sono trapelate notizie sulla presunta individuazione di “colpevoli”, e così via.

Il presidente del Messico ha garantito che non ci sarà impunità ma, sul fronte dei diritti umani e delle persone in mobilità, associazioni, collettivi ed altri attori si stanno organizzando per svolgere un ruolo attivo nella ricerca della verità e nell’impedire l’impunità. Nei prossimi giorni sono previste numerose proteste, a Città del Messico, nella stessa Ciudad Juárez, così come in altre città del paese.

Si apre una fase nuova, inedita, della lotta per i diritti delle persone in situazione di mobilità, perché questa volta non ci troviamo a San Fernando, Tamaulipas, non è agosto del 2010, e non siamo di fronte a una distesa di decine di corpi senza vita di persone migranti che erano nelle mani dei narcos degli Zeta. Questi corpi non hanno ricevuto un tiro di grazia da sicari della criminalità organizzata, ma sono stati privati della libertà e condannati a morte dalle istituzioni dello Atato che, avendoli in custodia, avrebbero dovuto tutelare la loro vita e la loro sicurezza.

Sarà una battaglia lunga e difficile, dagli esiti incerti, per la verità e la giustizia. Oggi è appena cominciata.

  1. INM rende pubblico l’elenco delle vittime che erano rinchiuse nel carcere per immigrati di Juárez

Mara Girardi

Dal 1985 vivo in Mesoamerica, in Nicaragua ed in Messico.
Ho studiato filosofia in Italia e un master in studi di genere in Nicaragua.
Socia ed operatrice di ONG di solidarietà e cooperazione internazionale, le ultime esperienze sono state con i movimenti femministi dei paesi centroamericani e poi con i movimenti indigeni in educazione interculturale e plurilingue. Dal 2006 ho lavorato a temi legati alla mobilità umana, come diritti, violenza, genere e migrazioni.