(N.d.R) Appena fuori, sulla recinzione in ferro del Palamilone, che prende il nome da un celebre lottatore greco, i fiori, i messaggi, i peluche, gli oggetti, di tutti coloro che dentro al palazzetto non ci sono potuti entrare, ma hanno voluto lasciare un segno di solidarietà e di presa di parola in questa storia che ci consegna uno degli eventi più drammatici della violenza strutturale della frontiera.
Dentro a quel palazzetto dello sport, chi ha avuto il privilegio di poterci entrare, lo ha fatto nel rispetto di un dolore che è stato anche il nostro, nel rispetto di quelle lacrime che sono state anche nostre, al servizio di lotta e di una resistenza che abbiamo riconosciuto subito essere anche la nostra.
Allora grazie ai familiari che in quel palazzetto hanno saputo resistere e a tutti coloro che li hanno sostenuti, ognuno ha saputo essere parte, in vario modo, di un grande ingranaggio collettivo.
Quel luogo dell’emergenza tra poco tornerà ad essere un palazzetto dello sport e questa storia uscirà dalle cronache.
Ma la memoria di questa strage non si spegnerà, starà a noi, tenere viva questa memoria. Da qui nasceranno altre lotte e altre resistenze.
Perché il desiderio di giustizia e verità, il desiderio di libertà, no, quello non lo potrà fermare neanche il peggior decreto, non lo può fermare nessuno.
Le parole di Silvia del progetto Mem.Med ci restituiscono il Palamilone vissuto da dentro.

Questo luogo è stato il principale scenario del dolore, della rabbia e delle lotte delle giornate della strage di Cutro. Il PalaMilone: una palestra con una platea silenziosa che per 17 giorni ha guardato dall’alto bare, fiori, vivi e morti, sdegno, preghiere, discussioni, operazioni degli esperti della morte.
Ricordo la resistenza di ogni familiare che è entrato, che si è seduto a terra a pregare per il proprio caro o per un’ altra vittima.
Ricordo le bare sollevate per essere portate a Bologna, contro la volontà delle famiglie, e poi riportate dentro dopo la lotta in strada dei familiari. Ricordo gli uomini e le donne che si sono seduti fuori dal cancello del Palamilone e hanno bloccato la strada e l’uscita dei carri funebri.
Ricordo l’odore di morte che no, come ha detto Lalouma, non nascondiamo sotto quello dei fiori marci.
Ricordo la rabbia di Saif contro i funzionari della Prefettura che hanno fatto tante promesse senza mantenerle.
Ricordo la nostra amica Zahra che è sempre rimasta forte e non ha mai negoziato la sua richiesta.
Ricordo il pianto di Amarkhail mentre identificava il fratello, chiedendosi perché la sua vita fosse finita così.
E poi la giovane Farzaneh e la sua concentrazione mentre cercava di studiare seduta su questo pavimento.
E Rafi, che ha identificato le due nipotine, due bimbe, in silenzio, con la sua ricerca di pace in mezzo alla guerra.
Le preghiere senza sosta di Hassan per sua madre. Haroon che ha fatto da interprete linguistico per tutti, mentre portava in petto anche il suo dolore.
La bara con la targa “palestinese” dell’uomo identificato tramite documento che giace con una nazionalità che già di per sé è il simbolo di una lotta.
Ricordo lo sguardo del sopravvissuto che ha visto morire 16 cari in un attimo ed è rimasto solo al mondo davanti a questo sterminio.
Susan che è tornata correndo ieri dalla Germania perché non ce la faceva ad aspettare lontana di ritrovare il cugino.
In tanti modi queste persone sono state raccontate da molti giornalisti e politici che hanno abbozzato caricature storpiate di uomini e donne venuti dall’Afghanistan, dal Pakistan, dalla Siria.
Da criminali e scafisti a dannati e passivi sono stati descritti come esseri che abitavano precariamente questo spazio emergenziale, attraverso retoriche securitarie e paternali che hanno tentato di fagocitare l’essenza di queste persone.
Io non lo so se questi nomi e queste persone resteranno nella Storia, dubito che entreranno nei documenti ufficiali di chi ha il potere di stabilire cosa rappresentano queste morti. Il regime di frontiera questi corpi non li vuole vedere. Non ci sarà spazio per loro nelle memorie di quel governo criminale che promulga decreti assassini e che un giorno dovrà render conto degli effetti collaterali delle sue politiche di morte.
Non lo so quanto tempo ci vorrà per recuperare tutta la verità dal mare e avere giustizia, come hanno chiesto oggi i familiari durante la visita al presidente del consiglio italiano.
Ma so con certezza che tutte queste persone entreranno nella nostra memoria collettiva, una Memoria Mediterranea che lotta contro l’oppressione del libero movimento, per l’autodeterminazione, per la libertà.
Una memoria che abbiamo iniziato a condividere, scrivere ed archiviare, una memoria di intrecci e relazioni, di solidarietà e di cura, di mutuo rispetto, di contro narrazioni, di Storie che attraversano il nostro mare e la nostra terra.
Allora oggi me ne vado come sono arrivata 15 giorni fa: un pugno allo stomaco, tanta rabbia e dolore.
Un ultimo passaggio dall’equipe straordinaria della scientifica per il bilancio della giornata.
Ancora 5 corpi non identificati. Ancora 14 salme da rimpatriare. Ancora 17 persone disperse.
Appuntiamo ogni dettaglio, ogni foto, ogni traccia, sperando di tratteggiare il volto di qualcuno che ormai ci è familiare, nella genealogia collettiva di questo mosaico di reduci della frontiera.
Una sola certezza come un sollievo mi accompagna nel viaggio di ritorno: la promessa contenuta nelle parole di un familiare che mi chiama da Roma – appena concluso il colloquio a Palazzo Chigi – e mi dice: “vogliamo giustizia per tutti. Non possiamo dimenticare“.
La violenza strutturale della frontiera lascia ferite profonde ma produce anche spazi marginali di resistenza e di lotta. Questa Memoria, signori e signore, non potrete lasciarla morire in mare.
