Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
Tetti del ghetto, autunno 2021

Le donne nel ghetto di Campobello di Mazara

Una trasmissione speciale con le operatrici dello Sportello Sans Papier di Arci Porco Rosso Palermo

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Oggi è l’8 marzo, una giornata di lotta. In tutto il mondo, donne e dissidenze si riappropriano dello spazio pubblico, lo occupano con i loro corpi. Scioperano, protestano, manifestano la loro non-conformità con il sistema etero-patriarcale che ci vuole buone, tranquille, disposte a prenderci cura di mariti, figli, genitori; per massimizzare il nostro sfruttamento e spossessarci del controllo sulle nostre vite. 

Per parlare di una pratica di femminilità militante, che unisce la cura degli altri alla lotta per un mondo diverso e possibile, la puntata che state per ascoltare da spazio all’intervista integrale con Giulia Gianguzza e Agnese Argento, operatrici legali dello Sportello Sans Papier di Arci Porco Rosso Palermo. L’intervista è stata realizzata da Valentina Lomaglio, durante il ciclo di contenuti di Melting Pot sul tema del caporalato e dello sfruttamento lavorativo 1

Lo sportello Sans Papiers opera nel mercato antico di Ballaró, a Palermo, e nell’insediamento informale di Campobello di Mazara. Si rivolge soprattutto alle persone razzializzate e povere, marginalizzate dal sistema dei visti e delle frontiere e dalla burocrazia. Nel ghetto di Campobello, a fianco agli uliveti della Nocellara del Belice, come in tanti luoghi al margine d’Italia, le case si costruiscono con ingegno e fortuna, così come i servizi di elettricità, acqua e gas. A volte, gli incendi divampano, e il ghetto viene giù per poi risorgere. 

Giulia e Alice ci hanno parlato di come al suo interno vivono le persone di genere femminile.

Progetto Melting Pot Europa
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La post produzione è stata curata da Eva Bearzatti.

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Potete raccontarci perché avete deciso di concentrarvi sull’insediamento di Campobello di Mazara? In cosa consiste la vostra attività negli insediamenti informali della zona?

Giulia: Innanzitutto presentiamo brevemente la nostra realtà. Lo Sportello Sans-Papiers è uno sportello di ascolto e di supporto socio-legale nato nel 2016 a Palermo, al circolo Arci Porco Rosso, nel quartiere del mercato storico di Ballarò, nel quartiere Albergheria. Lo sportello esiste da anni grazie all’impegno dei suoi attivisti e attiviste, in una visione di difesa dei diritti umani, per la libertà di movimento e in opposizione ad ogni forma di razzismo e discriminazione. Cerchiamo di fare ciò attraverso la costruzione di reti sociali condivise, di presidi sociali, in poche parole di comunità. Siamo aperti ogni mercoledì dalle 15.00 alle 18.00, da quasi sette anni ormai.

Poi qualche anno fa abbiamo deciso di mandare avanti, purtroppo in questo caso risorse permettendo perché la benzina costa, anche un’attività di Sportello mobile, che ci permette di recarci (negli insediamenti-salta audio) informali di alcune campagne della Sicilia Occidentale, in tempo di raccolta e non solo, per fornire lì un supporto socio-legale quanto mai necessario alle persone braccianti o alle persone coinvolte più o meno indirettamente nel mercato del lavoro formale o informale, derivante dall’attuale funzionamento del sistema produttivo dell’agricoltura e della grande distribuzione organizzata. 

E’ dai primi mesi del 2021 che abbiamo deciso di concentrare le nostre forze a Campobello di Mazara, nel supporto agli abitanti e alle abitanti di uno dei più grandi insediamenti informali della Sicilia Occidentale che deve la propria localizzazione al fenomeno della raccolta delle olive Nocellara del Belice. Questo insediamento, conosciuto come l’ex Cementificio, è nato nel 2018, in seguito allo sgombero definitivo dello storico insediamento di Erbe Bianche, nell’omonima contrada vicina e sorge attorno ad una struttura abbandonata della vecchia “Calcestruzzi Selinunte”, un’azienda appena fuori dal Comune di Campobello, poi finita al centro di un procedimento per mafia. L’ex Cementificio, al pari di ogni altro insediamento informale o ghetto che dir si voglia – tra l’altro il fatto che questi luoghi siano chiamati in tanti modi diversi e nessuno, è emblematico della loro natura – è formato da baracche costruite con mezzi di fortuna, senza accesso ad acqua corrente ed elettricità. Preciso che non le chiamiamo mai “baracche” ma case, così come le chiamano i e le loro abitanti. Vengono utilizzate  bombole a gas e generatori a benzina per cucinare, illuminare, riscaldare acqua e ricaricare i cellulari – tutti servizi forniti da chi all’interno del ghetto lavora per mandare avanti la vita quotidiana della comunità e ne fa a suo modo una sorta di business, non di grande guadagno chiaramente, ma di sussistenza. Da uno dei generatori un anno fa, nella notte tra il 29 e il 30 settembre 2021, è divampato un incendio che ha distrutto totalmente l’insediamento e in cui è rimasto ucciso un bracciante di origini guineane, Omar Baldeh. L’Ex Cementificio è il luogo in cui andiamo una volta a settimana da più di un anno e mezzo, facendo sportello mobile in una piccola formazione di equipe composta da me come operatrice sociale, Alice Argento come legale e dei mediatori a chiamata; spesso con noi vengono anche delle persone che in questi mesi abbiamo supportato nella fuoriuscita dal ghetto, per incontrare e supportare a loro volta gli amici rimasti.

Andare una volta a settimana, con regolarità e costanza, ci ha permesso di far un lavoro con le persone stanziali, ovvero chi non lascia il ghetto a fine raccolta, un gruppo di circa 150-200 persone di origine soprattutto gambiana e senegalese, ma non solo. Inoltre, a differenza degli altri anni, quello che abbiamo osservato sin dall’estate scorsa è un forte aggravarsi di una condizione socio-sanitaria già chiaramente precaria di per sé, come non è difficile immaginare. Ad aggravarsi sono state in primis le dipendenze in generale, ma in alcuni casi le tossicodipendenze da droghe pesanti, fatto che non riguarda solamente una parte minoritaria delle persone che abitano il ghetto, ma anche chi lo frequenta, spesso giovanissimi e giovanissime della zona di Mazara del Vallo, Castelvetrano e dei paesi vicini. Non sono poche le donne, anche di origine italiana, che ad oggi abitano all’Ex-cementificio di Campobello. 

Per quanto riguarda la nostra attività di supporto socio-legale, è connessa ai maggiori bisogni riscontrati, bisogni che riguardano la sfera legale, sanitaria e abitativa. Nel tentativo di dare una risposta a questi bisogni tentiamo di fare da ponte con i servizi territoriali presenti, ma le difficoltà che si riscontrano e le condizioni di vita all’interno del ghetto in sé e per sé, dicono tanto sulle maggiori criticità di un territorio che spesso è impreparato e non sempre accogliente nei confronti delle persone migranti e in particolare delle donne. 

Alice: Le istanze relative alla regolarizzazione amministrativa delle persone che incontriamo ogni settimana al campo sono sicuramente molteplici, ma uno dei problemi più diffusi che abbiamo riscontrato è quello legato all’ accesso a questure e commissariati per rinnovare o aggiornare i permessi di soggiorno, perché dal momento in cui le persone non hanno un luogo regolare in cui vivere, quindi non possono dimostrare un contratto di locazione, un certificato di residenza, una dichiarazione di ospitalitá, perché effettivamente vivono all’interno del campo, non viene consentito neanche l’accesso per acquisire le istanze di rinnovo o rilascio del permesso di soggiorno, ma anche soltanto per gli aggiornamenti dei permessi per soggiorno di lungo periodo. Questo rende spesso le Questure, gli Uffici Immigrazione, dei “muri di gomma” nei confronti delle persone che hanno un permesso di soggiorno: quel permesso di soggiorno scade, non riescono a rinnovarlo in nessun modo proprio perché non riescono a provare il requisito previsto dalla legge della dimora abituale. Questo é stato sicuramente uno degli interventi che abbiamo svolto maggiormente su quel territorio, perché accompagnando le persone si é riusciti in qualche modo a provare, con una semplice autocertificazione di domicilio, l’effettiva dimora all’interno del campo. Questo ovviamente non é l’unico problema, peró é uno dei maggiori che abbiamo riscontrato, e che poi ha posto le persone in una situazione di irregolaritá in realtá immotivata, e non era neanche giustificabile. Per cui molte persone che sono senza documenti (ma) avrebbero tranquillamente potuto rinnovarli o averli. Sicuramente un altro elemento complesso é quello costituito (dalla presenza di, parentesi mie) molti giovani adulti (spesso di nazionalitá gambiana ma non solo) che vivono all’interno del campo, e fondamentalmente hanno fatto l’accesso al campo e si ritrovano senza documenti, a seguito del decreto sicurezza del 2018, che non ha fatto altro che porli spesso inconsapevolmente in una condizione di irregolaritá con attese lunghissime in rinnovi che non sarebbero mai arrivate per permessi di soggiorno che ormai erano persi per sempre – e le persone spesso non lo sapevano ancora. Comunque questo tipo di irregolarità ha indotto le persone a rimanere poi a lungo all’interno del campo.  

Le fattispecie giuridiche sono, in ogni caso, molteplici e non sarebbe possibile effettuare una disamina completa di tutte le situazioni che settimanalmente cerchiamo di affrontare e sostenere ma, certamente, possiamo affermare che spesso proprio il malfunzionamento o il disfunzionamento, o ancora il non funzionamento, di pubbliche amministrazioni e uffici, poco consapevoli del fondamentale ruolo svolto nelle vita delle persone, rischiano di avere conseguenze irreversibili e contribuiscono ad aumentare l’ingresso o la permanenza nell’insediamento di Campobello di Mazara. 

Per quanto riguarda l’area sanitaria, c’è sempre bisogno di accompagnamento e mediazione e i presidi più vicini per i diversi tipi di cure sono l’Ospedale, il Punto di Primo Intervento e il Serd di Castelvetrano, o il CSM di Mazara del Vallo che non sono facilmente raggiungibile a piedi visto che non ci sono, o comunque non ci sono tanti mezzi pubblici. In generale è importante sottolineare come non tutti i funzionari degli uffici pubblici poi sono correttamente informati sulle prassi che i cittadini non italiani devono seguire, e questo crea di fatto un problema nell’accesso al diritto per una determinata categoria di popolazione. In merito alla sfera abitativa, è ovvio come molte persone necessitino di soluzioni abitative alternative, dunque con chi vuole immaginiamo dei percorsi di fuoriuscita dal ghetto, purtroppo condizionati dallo status giuridico e di salute della persona, a partire dalle soluzioni messe a disposizione dal territorio (dormitori, centri SAI, cohousing, comunità di recupero).

E’ bene specificare che i percorsi di fuoriuscita dal ghetto avvengono se e quando le persone comunicano che vogliono andarsene e quando si trovano dei percorsi adeguati alla loro situazione particolare. Senza romanticizzare il contesto, è ovvio che il ghetto è anche un luogo di vita, di amicizie e legami e anche quindi di un certo conforto, e la fuoriuscita non è né semplice né priva di emozioni forti e contraddittorie, anche per chi non vuole – o non può – abitarlo più, e quindi deve andare via. Per alcune persone, inoltre, vivere nel ghetto è una sorta rivendicazione: si resta perché non si hanno alternative migliori, ma non solo, perché si ha libertà e una comunità di appartenenza che non si riconosce in altri luoghi; è un posto dove non ci sono ferree regole di orario di rientro che vengono imposte spesso in maniera non mediata, e dunque non comprese; e quindi ad esempio, invece di uscire dalle 8:00 alle 22:00 e stare a zonzo per la città alla ricerca di un lavoro e in solitudine, si preferisce la vita nel ghetto con qualche lavoro di fortuna.

Potete farci una panoramica generale del fenomeno dello sfruttamento delle donne con background migratorio nei territori in cui operate? 

Nell’insediamento informale di Campobello di Mazara, come dicevamo, non vivono esclusivamente donne con background migratorio, ma anche donne italiane che provengono da realtà familiari e sociali molto complesse, e anche giovani nate in Italia da genitori privi della cittadinanza italiana (sottolineato mio). Per quanto riguarda le donne con background migratorio, la loro presenza si concentra soprattutto durante i mesi della raccolta delle olive, quindi tra fine settembre e inizio dicembre. Molte di loro le rivediamo negli anni successivi: infatti, anche se noi le incontriamo solo per qualche mese, per molte la ciclicità delle raccolte scandisce anche il movimento delle loro vite attuali, così come per i braccianti stagionali. Anzi proprio per i braccianti stagionali. Non ci sono, infatti, molte donne braccianti con background migratorio impiegate nella raccolta delle olive a Campobello, anzi noi non ne conosciamo nessuna. Non vuol dire tuttavia che le donne che vivono nel ghetto e che seguono le raccolte (…) che abbiamo conosciuto in questi anni non siano lavoratrici. Solamente che c’è una rigida divisione dei ruoli in base al genere e che le donne favoriscono soprattutto servizi di cura e sessuali per i braccianti e non solo, attenzione(anche per persone del territorio). Lavorano nell’ambito di una economia informale, il che non le rende meno lavoratrici, ma non tutelate e più ricattabili certamente sì. Alcune lavorano e guadagnano prostituendosi, altre gestendo ristoranti, o cucinando, altre arrotondano sistemando le trecce, indistintamente a uomini e donne. 

In questo ultimo anno abbiamo anche assistito al forte incremento del numero di donne italiane dipendenti da crack e altre droghe pesanti che si prostituiscono all’interno del ghetto e qui intervengono altre tipologie di sfruttamento, violenza e discriminazione. In questi casi ad esempio oltre all’utilizzo del corpo delle donne come merce e fonte di profitto, vi è anche quella per così dire del baratto tra prestazioni sessuali e sostanze stupefacenti, lì dove chi spaccia queste sostanze spesso diventa anche il “magnaccio” che di fatto costringe – perché di una costrizione si parla se una persona è in astinenza – le persone dipendenti a fornire servizi sessuali a persone terze esterne al ghetto che pagheranno direttamente lui. 

Tornando alla tua domanda e al punto più generico, ci preme dire quanto non sia facile per noi, come operatrici, rappresentare queste donne, le loro istanze, e parlare di loro – sembra quasi un’ulteriore violenza farlo senza che sia una di loro ad autorappresentarsi. E’ difficile parlare di loro e parlare di prostituzione, proprio perché è uno stereotipo razzista molto consolidato, l’accostare l’immagine di una donna nigeriana ad esempio e quello del fenomeno della prostituzione. Chi sono? Sono donne vittime di tratta, vittime dello sfruttamento sessuale? E’ molto riduttivo questo incasellamento, ognuna ha una storia diversa che non vogliamo appiattire in questa nostra piccola narrazione di un non-luogo che però va raccontato nella sua complessità, così come va vissuto. Per farlo davvero, in maniera consapevole e cosciente, cerchiamo di rivolgere lo sguardo più al sistema in cui sono imbrigliate e alla stratificazione dello sfruttamento e della discriminazione. D’altro canto è importante dire e avere in mente mentre si opera che tutte le donne nei ghetti subiscono delle forme di sfruttamento a largo spettro, su vari livelli, trasversale. Le donne con background migratorio subiscono, rispetto alle donne italiane, certo, un doppia “cappa” che è quella burocratica, giuridica, culturale. 

Mi sembra importante da un punto di vista legale, dare una prospettiva specifica in relazione a singoli casi, che poi sono di piú ampio spettro. E’ importante, secondo me,  rappresentare in relazione a quanto ha detto Giulia sulle donne, spesso di nazionalitá nigeriana, che seguono i lavoratori stagionali, e quindi arrivano a Campobello nel periodo della raccolta, che molte di queste donne, nel momento in cui si parla di documenti rendono evidente come loro sono giá titolari di uno status di rifugiata o di una protezione sussidiaria. Questo non é altro che un esempio evidente del fallimento del sistema stesso che doveva tutelarle. Perché nel momento stesso in cui queste donne sono state riconosciute come rifugiate, o (sono) titolari di comunque una protezione internazionale (come puó essere la sussidiaria), é chiaro che soltanto il riconoscimento di questi diritti, di queste forme di protezione, non fa altro che creare un diritto di carta, che é poi il permesso di soggiorno, che senza nessun’altra forma di tutela o accompagnamento o inserimento a lungo termine e sostenibile sul territorio, non puó in nessun modo sostenere queste donne e fornire soluzioni alternative. Perché giá il fatto che questo tipo di esigenza sia stata riconosciuta come esigenza di tutela con la protezione internazionale, non è sufficiente ma dovrebbe far capire che era necessario fare un passo in piú. 

Un ulteriore tema è certamente quello delle giovani donne, nate in Italia, o comunque arrivate in Italia da piccolissime, figlie di genitori che non hanno la cittadinanza italiana, e che fondamentalmente non hanno neanche loro la cittadinanza. Questo non è altro che il frutto dell’assurda legge sulla cittadinanza che abbiamo in Italia, che è la legge 91 del 1992. Ed è proprio questo il motivo per cui queste giovani donne, che sono molto più legate al territorio italiano, alla cultura italiana, al modo di vita italiano, rispetto a quello del Paese di origine dei genitori; in realtà rischiano (una volta diventate maggiorenni, soprattutto in casi di estrema vulnerabilità, che le inducono a vivere all’interno del campo); rischiano di ricadere nell’irregolarità dopo una vita intera trascorsa in Italia. E questo è un fenomeno con cui bisogna fare i conti, che non si risolverà se non si cambia la normativa di riferimento. 

Infine, tra le donne che popolano il campo, non mancano anche tutte quelle donne che, una volta uscite da luoghi di trattenimento (es: carcere o CPR…) si sono ritrovate senza un posto in cui vivere, senza tutele, senza documenti, molto spaventate anche soltanto di rientrare in luoghi di detenzione o trattenimento, e per questo hanno visto come unica soluzione la permanenza nell’insediamento informale, nonostante spesso fossero già consapevoli dei rischi cui sarebbero state esposte vivendo in quel luogo. 

In che modo provate a mettere in campo una prospettiva di genere nella vostra azione a Campobello nella vostra azione con lo Sportello Mobile?

Come equipe, crediamo fermamente che la cura necessaria per svolgere delle attività di supporto passi non solo dall’ascolto e dall’empatia, ma anche dalla capacità di comprensione dei contesti in cui operiamo, della connessione tra locale e globale e delle dinamiche di potere, in particolare in luoghi così complessi da comprendere a pieno come gli insediamenti informali. Per questo motivo il sapere osservare il contesto, avendo bene in mente il concetto di violenza strutturale è fondamentale nel nostro approccio. Li dove per violenza strutturale si intende quell’insieme di forme indirette di violenza che derivano la loro natura dall’essere esercitate da forme di organizzazione sociale segnate da profonde disuguaglianze. Dal momento che le società in cui siamo immersi sono profondamente segnate dal potere patriarcale, una prospettiva di genere nella nostra attività quotidiana e nel nostro modus operandi è a dir poco doverosa.

 All’interno degli insediamenti informali, di fatto, le donne subiscono un’ulteriore ghettizzazione, sono dunque, doppiamente ghettizzate. Esiste un forte stigma sociale sia nei confronti delle donne con background migratorio che italiane, sebbene lo stigma sia di differente natura. Non è rara tra i braccianti e tra gli altri lavoratori (con cui siamo entrate in contatto in questi anni) la  percezione che le donne che si trovano lì siano in qualche modo “più colpevoli” degli uomini: nella percezione maschile, queste donne potrebbero avere facilmente un’alternativa perchè il mercato del lavoro sarebbe più accogliente e benevolo con le donne, data la richiesta del lavoro di cura. Poco importano le condizioni di questo mercato, la condizione giuridica delle donne in questione, l’effettiva libertà di scelta o meno di alcune o viceversa la volontà di autodeterminarsi in questi spazi, volendo vivere per ragioni proprie in contesti che, per differenti ragioni, sono percepiti come più rassicuranti e più liberi del mondo fuori. Su questa ultima percezione ragioniamo molto spesso (sottolineato mio). Abitare il ghetto a volte dà la sensazione di trovarsi in un gioco di specchi dove il dentro è fuori e il fuori è dentro, e nulla è come appare davvero. Qual è il ghetto e quali sono i confini? Com’è il mondo fuori? Con queste lenti, il ghetto diventa solo un luogo, un paesaggio, ma al ghetto ci si arriva in un lungo percorso di discriminazione, esclusione, criminalizzazione da parte del mondo fuori. Per questo ogni ghetto racconta moltissimo del territorio di cui, comunque, fa parte. Non è un caso che molte donne straniere e italiane vivano lì. Questo fattore racconta di un paese e di un territorio che non hanno la volontà di comprendere davvero il vissuto delle persone migranti e delle donne, e della violenza strutturale che subiscono. Racconta del fallimento, anzi della totale assenza di politiche di genere in un’ottica intersezionale. Racconta che c’è tanto da comprendere, ascoltare e da fare insieme.  

Per concludere, siamo dunque totalmente d’accordo con Erminia Rizzi nel momento in cui, nel suo saggio recentemente pubblicato all’interno del volume “Donne straniere, diritti umani, questioni di genere” afferma che “lo sfruttamento nella realtà degli insediamenti informali è intimamente connesso a dinamiche di potere e di violenza di genere” e che “gli insediamenti sono regolati da un ordine maschile” ma soprattutto nel momento in cui evidenzia come “sia prioritario avviare una riflessione sull’intersezionalità delle violenze e delle discriminazioni che vivono le donne straniere”, dal momento che “per incidere sui processi sono necessarie nuove pratiche e strumenti, in un’ottica di genere”.

Nel vostro rapporto “Oltre il caporalato”, fruibile sul sito di Arci Porco Rosso, provate a dare un inquadramento del fenomeno che mette in discussione la stessa terminologia. In che senso è importante andare oltre il termine “caporalato”?

Nel nostro articolo partiamo da una riflessione sulla complessità degli insediamenti informali, che sono dei veri e propri luoghi di abbandono e che in quanto tali hanno bisogno di essere vissuti, con quella che noi definiamo una “delicatezza dello sguardo” e una forza derivante da questa delicatezza, forza che si traduce nella capacità di creare relazioni di fiducia con le persone che seguiamo. Cercare di tenere insieme questa complessità in un unico panorama è fondamentale per cercare di capire davvero per quali motivi si finisce in un insediamento informale, in un ghetto; cosa comporta vivere lì e perché è così difficile uscirne, oltre che per immaginare nuovi percorsi e soluzioni abitative o per rispettare semplicemente chi vuole continuare a vivere lì. 

L’insediamento informale si muove, si trasfroma e agisce sui e sulle abitanti come un vero e proprio ghetto, una sorta di buco nero che ingoia le persone soggette ai processi di criminalizzazione e precarizzazione operati in primis dal legislatore(sottolineato mio), rendendole ancora più invisibili. Riflettere sulla natura degli insediamenti informali è dunque il punto di partenza che porta ad affermare che, in realtà, questi non-luoghi restituiscono i limiti del sistema e che non sono un’emergenza, non sono da trattare infatti in maniera emergenziale. Sono stabili, nella misura in cui non sono legati al sistema di domanda e offerta del lavoro ma ad una disfunzione sistemica che, a sua volta, contribuisce a frammentare il lavoro in agricoltura, quel lavoro già di per sé precarizzato dei e delle braccianti. E sappiamo quanto, dalla Bossi-Fini in poi, il lavoro e il tipo di contratto di lavoro, abbiano un impatto sullo status giuridico e quindi sulle condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici di origine straniera. 

La non efficacia delle politiche volte al contrasto dello sfruttamento lavorativo in agricoltura è dovuta anche al fatto che si tratta di progetti che hanno spesso come unico “grido di battaglia” quello del contrasto al caporalato. Difficilmente hanno una visione di insieme, delle problematiche legate al sistema produttivo in agricoltura né una visione di genere. O semplicemente non c’è una volontà politica di avere queste visioni. 

In questa misura, queste riflessioni ci portano ad affermare che parlare esclusivamente di caporalato è errato e che lo sfruttamento è del sistema. L’unica risposta di senso non è una risposta unitaria ma è una risposta articolata su più livelli, che tenga insieme la complessità del contesto, osservato nei suoi vasti ambiti, che preveda un lavoro a lungo termine sulla formazione e sulla sensibilizzazione in primis delle istituzioni – come le Commissioni Territoriali – sul cambiamento delle politiche sul lavoro, sull’incentivazione delle politiche di contrasto delle discriminazioni legate al genere e su una maggiore attivazione delle reti agricole di qualità.

Considerando ad esempio la complessità del contesto di Campobello, ci sembra chiaro che una sola soluzione non ci possa essere, possono esserci soluzioni possono esistere misure stratificate da mettere in campo. L’esistenza del ghetto all’ex-Calcestruzzi è inaccettabile in quanto diretta conseguenza di violenze sistematiche e politiche istituzionali. Questo non vuol dire urlare a uno sgombero, vuole dire rispettare la molteplicità di idee e desideri, percorsi di vita, metodi di guadagno e sopravvivenza di persone che non hanno altre alternative.  Dunque, ovviamente, ripudiamo le retoriche istituzionali che mirano allo sgombero punitivo, a soluzioni di questo tipo, che finirebbero solo per creare altri ghetti. Considerando ciò, ci sembra importante chiedere che nel prossimo futuro i fondi destinati alla lotta al caporalato e allo sfruttamento lavorativo (che in realtà esistono, ci sono, sono sempre in aumento) abbraccino davvero la complessità che abbiamo cercato di rendere, che le politiche sociali si sentano responsabili dell’istituzione di soluzioni abitative per gli e le stagionali e della presa in carico dei e delle senza fissa dimora e che si concentrino sull’ascolto dei bisogni individualizzato.

  1. Lavoratrici razzializzate: lavoro riproduttivo e (r)esistenza. La trasmissione di Radio Melting Pot di febbraio 2023; Lavoratrici razzializzate: agricoltura, ghetti, autodeterminazione. La trasmissione di Radio Melting Pot di gennaio 2023

Radio Melting Pot

For freedom of movement, for citizenship rights
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Questa nuova stagione 2024/2025 prevede la realizzazione di 8 episodi.
La prima call pubblica, che ha avuto come obiettivo quello di promuovere un protagonismo diretto delle persone coinvolte nei processi migratori, si è svolta nel dicembre del 2023 ed ha formato la redazione del nuovo progetto.

 

Il progetto è realizzato con i Fondi dell'Otto per Mille della Chiesa Valdese.