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Ph: Fabrizio Urettini

10 anni dalla strage di Rana Plaza

Si è fatto abbastanza in questo lasso di tempo?

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Sono passati 10 anni da quel 24 aprile del 2013 in cui un cedimento strutturale portò al crollo del Rana Plaza, industria tessile di otto piani a Dacca, capitale del Bangladesh. Il crollo del Rana Plaza è considerata la più grande strage nella storia umana moderna, furono infatti 1.134 le vittime e 2.515 i feriti che vennero estratti vivi dal palazzo fabbrica.

Una strage che sarebbe potuta essere evitata se non fosse stato ignorato dai supervisori l’avviso, all’indomani della scoperta di crepe strutturali nell’edificio, di vietarne l’utilizzo agli operai, che furono costretti invece a tornare al lavoro il giorno dopo. I manager arrivarono perfino a minacciare di trattenere un mese di stipendio ai lavoratori che non si sarebbero presentati.

A produrre all’interno di quell’inferno produttivo i brand Adler Modemärkte, Auchan, Ascena Retail, Benetton, Bonmarché, Carrefour, Camaïeu, C&A, Cato Fashions, Cropp (LPP), El Corte Inglés, Grabalok, Gueldenpfennig, H&M, Inditex (Zara, Bershka, Pull and Bear, Oysho, Stradivarius), Joe Fresh, Kik, Loblaws, Mango, Manifattura Corona, Mascot, Matalan, NKD, Premier Clothing, Primark, Sons and Daughters (Kids for Fashion), Texman (PVT), The Children’s Place (TCP), Walmart e YesZee.

All’indomani della strage del Rana Plaza i lavoratori delle zone industriali di Dacca, Chittagong e Ganzipur diedero vita a delle vere e proprie insurrezioni, vennero prese di mira le fabbriche di abbigliamento, i veicoli e le sedi delle corporation. Il primo maggio, in migliaia sfilarono lungo le strade della capitale del Bangladesh per chiedere maggiori salari e condizioni di lavoro più sicure e dignitose.

Gli echi di quella strage arrivarono anche nel mondo occidentale, l’evento rappresentò una sorta di big-bang che diede finalmente voce a una critica di un modello industriale e di sviluppo le cui conseguenze non erano “solo” nei 1.134 morti di Dacca ma nell’umanità intera, quel bollettino di morte in crescita costante causato dall’accellerazione sfrenata verso un progresso che non si ferma davanti a niente infrangendo equilibri sociali e naturali e portandoci verso il disastro ambientale.

Pochi mesi dopo il crollo del Rana Plaza Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes, ci chiese l’adesione e un supporto per ospitare a Treviso una delegazione di superstiti del crollo e organizzare un sit-in davanti il megastore cittadino della Benetton. Un “Pay-Up”, affinché venissero riconosciute le responsabilità delle aziende che producevano in quel palazzo, e di costringerle a siglare un accordo per la creazione di un fondo fiduciario comune di indennizzo per i superstiti e le famiglie delle vittime.

Ph: Fabrizio Urettini

Nell’autunno del 2013 le compensazioni alle famiglie delle vittime del disastro erano ancora in discussione, e in una prima fase c’era stato perfino il tentativo da parte di alcune aziende, tra cui la stessa Benetton, di negare di aver prodotto nello stabilimento di Dacca per poi aver dovuto ritrattare quando dalle macerie, oltre ai morti, vennero estratte anche le fatture e vennero condotte inchieste indipendenti.

Dei 29 marchi identificati come aventi i prodotti provenienti dalle fabbriche del Rana Plaza, solo 9 hanno partecipato alle riunioni tenutesi a ridosso del crollo per concordare una proposta di risarcimento alle vittime. Di quel primo anniversario in piazza Indipendenza a Treviso non potrò mai dimenticare la testimonianza di un’operaia, la quale aveva subito una tale pressione sul ventre durante il collasso dello stabilimento che aveva subito il prolasso dell’utero e subito un’infinita sequenza di interventi chirurgici ricostruttivi con sofferenze inimmaginabili. Era li in quella piazza con noi, con uno sguardo che non potrò mai dimenticare a portarci la sua testimonianza di lavoratrice della giungla del mercato globale.

Le considerazioni da fare su che cosa hanno prodotto quelle macerie oggi a distanza di dieci anni dalla strage sarebbero tante, quell’ondata emotiva ha certamente prodotto una maggiore sensibilità critica al modello del fast-fashion ed una presa di coscienza più ampia sulle sue ricadute nella società, sulla salute dei lavoratori e sull’ambiente. Un modello industriale quello della “moda veloce che nasce negli anni ’80 del secolo scorso e che peraltro è stato uno dei fattori principali ad aver reso ricco questo territorio, quando nei tanti laboratori di terzisti distribuiti nella periferia diffusa veneta, si iniziarono a cucire un numero sempre più elevato di collezioni per un consumatore reso compulsivo da enormi investimenti in pubblicità, televisione, marketing, e oggi, anche dagli influencer che sembrano esser diventati gli strumenti più efficaci per promuovere prodotti che devono durare poco e costare ancora meno. Una bulimia d’acquisto sempre più forte per riempire prima gli armadi e poi le discariche, capi che sempre più precocemente, quasi nuovi, diventano obsoleti e poi rifiuti. Un modello di sfruttamento sulle persone, delle lavoratrici in particolare, dell’ambiente, che giova solamente ai dividendi degli azionisti e che malgrado una crisi pandemica in mezzo che ne ha evidenziato le fragilità, sembra essere l’unico modello ancora percorribile a scapito di un prodotto di qualità, durabile, che possa essere usato fino alla fine o passato alle sorelle o ai fratelli minori. Una moda usa e getta e senza storia, fatta per essere bruciata istantaneamente, che ha cancellato completamente il valore d’uso delle cose. Un dato che è stato quasi completamente ignorato ma che costituisce un fattore allarmante per capire la sconfitta epocale che stiamo vivendo è che il 2022 è stato, per la prima volta nella storia dell’umanità, l’anno in cui il peso dei prodotti artificiali, cioè quelli prodotti dall’uomo, ha superato quello della biomassa… un dato dove protagonista è certamente il cemento ma dove un ruolo significativo lo hanno anche le cento miliardi di unità di prodotti tessili prodotti in un anno e i 92 milioni di tonnellate di rifiuti prodotti dall’industria della moda.

Appena tre anni dopo quel sit-in a cui presero parte alcuni superstiti del crollo del Rana-Plaza è nato Talking Hands, laboratorio permanente di design e innovazione sociale, con sede a Treviso, in cui rifugiati e richiedenti asilo alcuni dei quali provenienti anche dal Bangladesh, lavorano insieme a designer, fotografi, insegnanti, giornalisti, pensionati e volontari, usando l’attività progettuale e manuale per narrare le loro biografie e i loro desideri, imparare un mestiere e instaurare relazioni all’interno della comunità in cui vivono. Nel corso degli anni a Talking Hands abbiamo sperimentato diversi tipi di attività e ci siamo evoluti insieme al mutato contesto geopolitico italiano ed europeo, affermandoci come strumento d’inclusione sociale sul territorio.

Ph: Talking Hands

Oggi nel laboratorio sono attivi un atelier di moda, una scuola d’italiano e un team legale che aiuta i partecipanti nei percorsi di ottenimento dello status di rifugiato o della protezione umanitaria. A quella astoricità dei prodotti del fast-fashion abbiamo voluto contrapporre dei prodotti che avessero la capacità di raccontare la storia e soprattutto le storie delle tante persone che hanno attraversato il workshop in questi anni, una nuova umanità in movimento, e di farlo cercando di raccontare anche la costruzione di una filiera che riuscisse ad includere quella preziosa rete di solidarietà che si è creata intorno al progetto durante la recente crisi umanitaria. Lo facciamo cercando di essere coerenti con molti degli SDGs (Sustainable Development Goals) definiti dall’Agenda 2030 dell’ONU e anche di iniziare a misurarne gli impatti secondo analisi LCA “from cradle to gate” che investono le nostre pratiche quanto i nostri prodotti, e dove mediamente il peso di materiale tessile riciclato nelle nostre collezioni supera il 70%.

Concludo con un appello alle tante realtà che da quel 24 aprile del 2013 hanno creduto fosse necessario un cambiamento di paradigma, credo che per essere dei veri agenti del cambiamento sia necessario cambiare l’attitudine con cui ci relazioniamo tra di noi, non può prevalere quella stessa concorrenza, non possiamo trasformare la sostenibilità in un brand, non possiamo utilizzare gli stessi market e supermercati online del fast-fashion. E’ necessario per valorizzare queste esperienze costruire dei nuovi canali distributivi e dei mercati indipendenti.

Il cambiamento non può essere rappresentato da un ambientalismo di facciata che usa la cultura individualistica degli influencer ma con un messaggio diverso, “green”, e che il più delle volte prospera grazie ai finanziamenti o con i budget di spesa dedicati alle azioni di “corporate social-responsability” di quelle stesse Corporation che stanno distruggendo il pianeta. E’ necessario un cambiamento culturale e antropologico, perché il pianeta appartiene a tutti e ciascuno di noi è chiamato a cambiare il proprio stile di vita, facendo scelte sostenibili ma senza perdere di vista una prospettiva politica più ampia e una critica a quel modello capitalista, estrattivista e colonialista che ci sta portando all’estinzione.

Chico Mendes ha detto che “l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio” per segnalare una certa perversa torsione che l’ecologia ha assunto negli ultimi anni, e credo che lo stesso approccio lo dobbiamo avere anche nei confronti della sostenibilità nell’industria della moda se il nostro compito è quello di trovare delle soluzioni concrete ad una crisi climatica con la consapevolezza che non esistono soluzioni facili. Lo dobbiamo ai 1.134 morti del Rana Plaza, lo dobbiamo all’umanità intera e alle generazioni future.

Fabrizio Urettini

Sono attivista e art director. Nel 2016 ho fondato Talking Hands, studio artistico permanente che permette alle persone delle comunità di rifugiati di disegnare, creare e vendere prodotti di moda e design.
Talking Hands valorizza la diversità, la comunità, la formazione, il design sostenibile e le pratiche commerciali etiche.