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A due settimane dalla strage nel centro di detenzione a Ciudad Juárez

Le organizzazioni: «No murieron, los mataron»

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Città del Messico – A quasi due settimane dall’incendio nella cella in cui lo Stato aveva rinchiuso poco meno di 70 persone migranti nel centro di detenzione di Ciudad Juárez 1, le notizie relative alla strage, le sue vittime e le proteste spariscono poco a poco dalle prime pagine dei media nazionali.

Nella città dei femminicidi, della necropolitica e dell’impunità, non sorprende che la violenza più brutale finisca per essere “normalizzata”. Forse, però, ci vorrà più tempo del solito per coprire questo crimine di Stato sotto un manto di abitudine e di indifferenza, soprattutto per la potenza delle immagini, rese virali dai social, di quelle inferriate rimaste chiuse su 68 vite di migranti scomparsi dentro al fumo in pochi secondi, ma anche perché questa volta la responsabilità diretta dello stato è inequivocabile come mai prima.

Nei giorni immediatamente successivi all’incendio, il dramma è continuato su vari scenari paralleli.

Piangere i Morti

L’informazione ufficiale è stata imprecisa e confusa. Dopo l’incendio, l’Istituto Nazionale di Migrazione ha parlato prima di 41 vittime, poi di 39, poi di 40, poi di 38. La sera di martedì 28, il giorno seguente, ha reso pubblica una lista di 68 vittime, i detenuti nell’ala maschile, senza specificare chi fossero morti e feriti. Il 3 aprile, dopo il decesso di due dei feriti più gravi, il bilancio ufficiale è di 40 morti e 27 feriti, di cui 16 in condizioni definite molto gravi.

Tra le persone migranti a Ciudad Juárez sono cresciuti, insieme al dolore, la rabbia per morti e feriti e l’angoscia dell’incertezza, passando ore d’incubo alla ricerca dei familiari e di notizie affidabili. Dolore, angoscia e rabbia condivise dai/dalle familiari lontanə, rimastə nei paesi d’origine, o negli Stati Uniti, o in un paese dell’America Latina (per esempio, una buona parte della diaspora venezuelana).

Orlando Josè Maldonado Pérez, 29 anni, ha madre e padre in Venezuela, un fratello negli Stati Uniti e una sorella in Cile, la moglie ed un figlio piccolo a Panama, che aspettavano che lui si sistemasse negli Stati Uniti per raggiungerlo. Invece è nella lista dei morti 2.

Nuevo Porvenir, un piccolo paese dell’Honduras, costruito a 6 chilometri dal luogo dove sorgeva il vecchio Porvenir, raso al suolo dall’uragano Mitch nel 1999, ha visto partire tre giovani: Edin Josué, Dikson, Jesús Adony. Don Carlos Ramón Umaña, padre de Edin Josué, registrato tra i morti, vari giorni dopo l’incendio si lamentava del fatto che ancora non riusciva ad avere notizie certe.

I rappresentanti diplomatici dell’Honduras in Messico e il viceministro degli Esteri Antonio García ricevevano, e comunicavano, informazioni contraddittorie su cittadini onduregni morti e feriti, e diversi personaggi, con buone o cattive intenzioni, comunicavano alla famiglia le notizie più disparate: “Guardi, ci sono momenti che ci sollevano il morale e ci dicono che è in ospedale, poi dicono che sono scappati ed è sbucato fuori pure un malandrino che ha detto a mia figlia che ce li ha lui e li tiene rinchiusi e che gli dobbiamo mandare dei soldi se vogliamo che ce lo consegnino”. Incertezza e confusione alimentavano la speranza ma, purtroppo, Edin Josué ed i suoi due amici sono apparsi nella lista definitiva dei morti. Ed è morta anche la speranza 3.

L’impazienza dei Vivi

Le persone migranti si sono mobilitate non appena la notizia dell’incendio li ha raggiunte: le donne rinchiuse nell’ala femminile del centro, liberate prima che il fuoco le raggiungesse, e gli/le altrə intrappolatə, loro malgrado, nell’attesa di Ciudad Juárez. Subito hanno organizzato reti spontanee per avere notizie sicure sui morti, per seguire la situazione dei feriti negli ospedali, per sostenere le/i familiari lontani e quelli già arrivati a Ciudad Juárez, per sopravvivere e resistere e protestare insieme.

Hanno improvvisato un altare per commemorare i morti, un accampamento proprio di fronte al centro di detenzione, che è anche presidio e veglia permanente, proteste continue per reclamare giustizia. Sembrano aver perso un altro po’ di timidezza, gridano le loro accuse, denunce e rivendicazioni, pubblicamente, nelle strade e davanti alle telecamere ed ai microfoni dei media. Compiono gesti di ribellione sempre più frequenti, forse dettati anche da una rafforzata consapevolezza dei propri diritti.

Riconoscersi nei compagni di rotta morti significa però anche dimensionare rischi nuovi, agghiaccianti, e con la paura la pressione aumenta, pericolosamente.

Dopo l’incendio, molti di loro dichiarano di sentirsi spinti a forzare la situazione, o almeno a provarci, non solo perché non ne possono più dell’attesa di mesi e del CBP ONE 4 che si blocca, a volte a metà procedimento, a volte quando è quasi concluso, ma anche per il terrore e la desolazione che l’incendio ha suscitato in loro. Perché l’incendio ha allungato la lista degli orrori in cui si può imbattere la persona che migra.

E così, il 29 marzo si sparge la voce che la “porta 33” della linea di frontiera Messico-Stati Uniti è aperta e centinaia si dirigono verso questo spiraglio di speranza, camminando più di 8 chilometri sotto il sole inclemente. Arrivati sul posto, un primo gruppo viene accolto dalla pattuglia di frontiera, che li riporterà indietro in applicazione del Titolo 42 (espulsione) oppure del Titolo 8 (deportazione). In quest’ultimo caso, per 5 anni non potranno più tentare un’entrata regolare negli Stati Uniti.

Dopo il tentativo del 13 marzo scorso di un migliaio di persone migranti di passare in massa la frontiera attraversando il ponte principale che unisce i due Paesi (dove la pattuglia di frontiera li ha accolti con un muro di filo spinato e qualche lacrimogeno), questo è il secondo tentativo di “passaggio di massa” verso gli Stati Uniti in poco più di 2 settimane (video).

Il fantasma della ribellione si aggira per il Paese

Ma non solo a Ciudad Juárez c’è un rinnovato e impetuoso fermento. In Chiapas, il 29 marzo, un gruppo di migranti e di organizzazioni per i diritti umani che manifestavano di fronte al centro di detenzione (Stazione Migratoria) Secolo XXI, il più grande del paese, in protesta contro l’incendio di Ciudad Juárez, ha bloccato l’entrata di un autobus dell’INM (Instituto Nacional de Migración) che portava le persone detenute in diversi punti del Paese, per deportarle per via terrestre 5. Una decina di detenuti sono potuti scappare aprendo le finestre del sistema di aerazione, uscendo quindi dal tetto, mentre attivistə tappezzavano il parabrezza con cartelli che dicevano: “Non è stato il fuoco, è stato lo Stato”, e “Non sono rifugi, sono centri di tortura”.

L’episodio più eclatante di questi ultimi giorni si è verificato lontano da Ciudad Juárez, a Berriozábal, municipio a pochi chilometri dalla capitale del Chiapas, Tuxtla Gutiérrez. Il 31 marzo, uomini e donne alloggiati nel locale centro di detenzione sono andati ben oltre. Stanchi di essere rinchiusə, chi da settimane, chi da 1 o più mesi, dietro alti muri di cinta ed inferriate chiuse con lucchetti, hanno “avuto la forza di uscire perché non sopportavamo più tanti maltrattamenti ed isolamento”, come ha dichiarato un migrante ecuadoriano al quotidiano La Jornada. Secondo una donna onduregna, in viaggio con la madre ed i figli, erano praticamente “sequestrati, senza possibilità di comunicare, perché privati di cellulari, di soldi, di tutto”.

Quindi, in un atto predeterminato e consapevole, hanno rotto catene e lucchetti del portone, sono usciti, e si sono incamminati verso il nord del Paese. Ironicamente, la Protezione Civile ha scortato e protetto questa carovana improvvisata di un centinaio di fuggitivi 6, con acqua ed un’ambulanza 7.

Gli uomini del presidente non si toccano e le vittime non si incontrano

Dopo l’annuncio e le prime dichiarazioni che praticamente incolpavano gli stessi migranti della tragedia di cui sono stati vittime, il presidente della Repubblica, Andrés Manuel López Obrador, ha continuato a dichiarare che in Messico non c’è impunità, che nei suoi sei anni di governo vi impera lo stato di diritto, che le indagini saranno caratterizzate da un’assoluta imparzialità e trasparenza, quindi: “Rispetto dei diritti umani, NO alla corruzione, NO all’impunità“.

Tuttavia, parallelamente, ha continuato a proteggere chi ha incarichi di responsabilità, soprattutto il rappresentante dell’INM nello Stato di Chihuahua, il contrammiraglio Salvador González Guerrero, proveniente dalla Segreteria della Marina, ed i suoi due delfini, entrambi aspiranti a candidarsi per le prossime elezioni presidenziali, che si svolgeranno a luglio del 2024, fra poco più di un anno: i ministri degli Esteri (SRE) e degli Interni (SEGOB), Marcelo Ebrard e Adán Augusto López. Nessuno di loro è comparso a dichiarare in parlamento, o in una conferenza stampa, tanto meno alla Procura. Per nessuno di loro si è ipotizzato che vengano sollevati dall’incarico, al fine di proteggere le indagini da qualunque interferenza.

Il presidente si è anche recato a Ciudad Juárez, proprio il venerdì successivo alla strage, il 31 marzo (ma si trattava di una visita programmata da tempo) per incontrare il personale che lavora in progetti sociali molto cari a López Obrador. A questo programma si è attenuto, deludendo le aspettative di incontri con le vittime, familiari e migrantə che, inevitabilmente, avevano preso corpo.

Ancora una volta, però, l’indignazione spazza via la paura e i/le migranti hanno aspettato il presidente nel luogo della riunione e hanno bloccato il mezzo su cui si allontanava. Chiedevano un incontro. Invece López Obrador si è limitato ad abbassare il finestrino, a sorridere ed a ricevere una lettera diretta a lui. Le critiche hanno sommerso il presidente per il suo rifiuto di un gesto di solidarietà e di vicinanza tanto atteso.

In strada, un migrante ha letto una dichiarazione che concludeva così: “Chiediamo GIUSTIZIA! In nome di tutto il popolo migrante del mondo che si trova qui, in territorio messicano, chiediamo GIUSTIZIA”.

Cinque incriminati: tra di loro una vittima, trascinata dall’ospedale alla prigione

Il 30 ed il 31 marzo la Ministra della Sicurezza e la Protezione dei cittadini, coordinatrice e portavoce del gabinetto di sicurezza, Rosa Icela Rodríguez e la titolare della Procura specializzata per i Diritti Umani, Sara Irene Herrería Guerra, hanno incontrato la stampa. Incurante delle rimostranze della stampa per l’assenza dei responsabili della politica migratoria, Rosa Icela Rodríguez ha annunciato l’esistenza di 6 mandati di cattura per i delitti di omicidio doloso, lesioni e danni alla proprietà, contro personale dell’INM con incarichi operativi, oltre ad una persona migrante.

Cinque mandati sono stati eseguiti lo stesso 30 marzo, uno di loro contro Jeison Daniel Caterí Rivas, venezuelano di 28 anni, subito dopo una dimissione ospedaliera ad hoc, nonostante fosse ancora registrato tra i feriti classificati come “delicati”. Gli altri arrestati sono tre agenti dell’INM e un agente della compagnia privata di vigilanza.

Le proteste per l’arresto del migrante non si sono fatte aspettare

I suoi difensori d’ufficio (dell’Istituto Federale della Difesa Pubblica, IFDP), lo definiscono “una vittima di gravi violazioni dei diritti umani”. Organizzazioni e reti si sono pronunciate respingendo energicamente la criminalizzazione di Jeison Daniel: “Crediamo nell’innocenza della persona accusata che, prima di tutto, è vittima dell’INAMI. Esigiamo giustizia per lui e per il resto delle persone che soffrono per l’accaduto, comprese le famiglie dei morti per l’azione ed omissione dello Stato messicano”. È stata sottolineata la violenza della sua detenzione, che lo ha strappato alle cure mediche di cui aveva ancora bisogno 8.

Inoltre, i familiari e gli avvocati di Jeison e delle altre vittime, e la direttrice dell’organizzazione “Apoyo a Migrantes Venezolanos”, Lizbeth Guerrero, hanno segnalato varie incongruenze nell’accusa, già che Jeison si trovava nel bagno quando il fuoco è iniziato, nel video che tutti abbiamo visto non appare nella zona dove inizia il fuoco, e per di più non si sa niente delle testimonianze che lo accuserebbero e di cui la procura sarebbe in possesso. Sospettano quindi che le autorità vogliono coprire le responsabilità reali di funzionari di alto livello, così come la corruzione e gli abusi imperanti, incriminando una vittima.

Le accuse sono rivolte al contrammiraglio Salvador González, delegato di Migrazione nello Stato, per aver ordinato telefonicamente di non aprire le inferriate, e al responsabile del centro di detenzione di Ciudad Juárez, Daniel Goray, per la sua gestione, all’interno del centro, di una rete di corruzione estorsiva verso i migranti, minacciandoli di tenerli rinchiusi o in isolamento se non avessero pagato una quota di 500 dollari.

Anche gli agenti dell’INM protestano

Intanto, il giorno stesso dell’incriminazione una dozzina di agenti dell’INM hanno protestato davanti agli uffici di Migrazione, difendono i loro colleghi che, dicono, “hanno fatto quello che potevano”, ed esigono che le indagini si spostino piuttosto sui loro dirigenti.

Hanno sottolineato le loro pessime condizioni di lavoro, con turni troppo lunghi, niente giorni di riposo e vacanze sempre rimandate, e contestato le incriminazioni: i due ufficiali non si trovavano sul posto, e l’arresto della agente responsabile dell’area femminile, che ha aperto le porte e permesso quindi alle donne di salvare la loro vita, è considerato un’assoluta incongruenza.

È ancor più interessante, tuttavia, il fatto che gli stessi agenti abbiano giustificato la protesta dei migranti, puntando il dito contro le pessime condizioni del centro di detenzione, insalubre ed insicuro. Uno di loro ha raccontato che il 27 marzo i detenuti erano da dieci ore privi di acqua, cibo e carta igienica. Del resto un video che ha circolato nei social, girato subito prima della protesta, mostra l’unica cella in cui tutti i migranti dormivano su dei materassini che coprivano completamente il pavimento. Inoltre, hanno criticato le retate effettuate nelle strade della città, ultimamente intensificate per ordini superiori, che sfociano in arresti arbitrari 9.

Le ire del governo del Salvador

I governi centroamericani si sono preoccupati di mostrarsi costernati e solidali con le vittime e le loro famiglie, e si sono limitati a coordinare con il governo messicano aspetti tecnici, come il riconoscimento dei corpi, il loro trasporto, la cura dei feriti: ordinaria amministrazione.

Invece il governo di El Salvador, sin dalle ore immediatamente successive all’incendio, ha messo da parte la diplomazia diffondendo un comunicato che, con insolita durezza, condanna il comportamento del personale di migrazione messicano ed esige un’indagine severa, mentre il personale del suo consolato a Ciudad Juárez si attivava per vigilare da vicino le autorità messicane ed appoggiare i connazionali.

Poi, a meno di una settimana dall’incendio, la titolare del viceministero della Diaspora e della Mobilità Umana (creato quasi due anni fa all’interno del Ministero degli Affari Esteri) Cindy Mariella Portal, è atterrata a Ciudad Juárez per coordinare il ritorno in Salvador delle spoglie dei sette migranti morti e l’appoggio a feriti e famiglie. «È un crimine di stato, e il mio governo esige che chi comanda vada in prigione», ha dichiarato la rappresentante salvadoregna.

Il 3 aprile la viceministra, conclusa la missione che l’aveva portata in Messico, sottolineava “questo non sarà un caso che si aggiungerà a tutti quelli rimasti impuniti, mai risolti, e otterremo non solo la riparazione del danno alle famiglie, ma anche l’applicazione delle raccomandazioni in materia di diritti umani”.

La tempestiva denuncia delle organizzazioni contro l’INM

Denuncia penale

Il 29 marzo alcune organizzazioni 10 hanno presentato alla Procura della Repubblica una denuncia penale contro funzionari dell’Istituto Nazionale di Migrazione, che avevano in custodia le vittime, e contro chi altri risulti responsabile nel corso delle indagini, per i delitti di omicidio, lesioni, ed altri probabili delitti collegati, come abuso di potere e corruzione.

Denuncia per violazione dei diritti umani

Contemporaneamente hanno presentato una denuncia presso la Commissione Nazionale per i Diritti Umani, CNDH, sottoscritta anche da FM4 Passaggio libero, per la violazione di numerosi diritti, riscontrate nelle retate, nelle revisioni migratorie e nelle detenzioni. I diritti violati vanno dalla libera circolazione, alla non discriminazione, alla comunicazione, all’assistenza, alla sicurezza giuridica, al processo giusto, al non respingimento, alla sicurezza ed integrità personale, alla salute, alla vita.

Le due denunce, strettamente collegate, il 31 marzo sono state presentate ai mezzi di comunicazione da rappresentanti delle organizzazioni promotrici che hanno spiegato, innanzitutto, di aver preso la decisione per mancanza di fiducia nell’azione dalle autorità. A riprova di quanto fossero nel giusto, l’indagine “ufficiale” ha subito attribuito la responsabilità solamente a figure dei livelli gerarchici più bassi e, in più, ha delimitato strettamente il suo ambito di analisi e di azione all’“incendio”, al di fuori dal contesto in cui avviene, ignorando quindi sia le responsabilità di chi governa il paese che le numerose e complesse cause strutturali all’origine dell’”incidente” e del suo tragico esito.

Le organizzazioni, invece, sostengono la necessità di analizzare questo avvenimento nel contesto delle politiche migratorie, e di indagare sulle responsabilità a tutti i livelli, fino ai vertici, cioè ai massimi funzionari federali: il commissario dell’INM ed i ministri degli Interni e degli Esteri 11.

Le politiche migratorie che uccidono

Xenofobia istituzionalizzata e criminalizzazione delle persone migranti

A Ciudad Juárez si registra un crescente clima di ostilità xenofoba e criminalizzazione, purtroppo fomentato dallo stesso presidente municipale (sindaco). Cruz Pérez Cuéllar, infatti, pochi giorni prima dell’incendio aveva promesso la mano dura contro la popolazione migrante in transito 12, aveva ordinato degli operativi per toglierli dalle strade, dove vendevano caramelle o pulivano i vetri delle macchine. Il 27 marzo, come risultato di almeno due di queste retate in un solo giorno, sono state portate nel centro di detenzione una grande quantità di persone, di cui molte rilasciate nelle ore successive, per questo in serata si registrava la presenza di più di ottanta fra detenuti e detenute.

Va detto che xenofobia e criminalizzazione delle persone migranti rispondono a una cultura radicata nelle istituzioni, che sta alla base delle politiche migratorie dello Stato messicano, e che il discorso dei governi che si sono succeduti, per lo meno da più di un ventennio, ha sistematicamente fomentato nella società.

In molti lo denunciano: le politiche migratorie del Messico uccidono, ma dal 2019 uccidono di più, a partire dagli accordi sottoscritti dal presidente López Obrador con il presidente Trump, poi con Biden, e dall’aumento della militarizzazione delle Frontiere Sud e Nord.

Le detenzioni sono aumentate, sicuramente perché sono aumentati i flussi di persone in transito, anche provenienti da paesi “nuovi”, e si sono aperte nuove rotte, ma anche perché non si è presa in considerazione la necessità di ridurre la detenzione stessa a una misura eccezionale.

Le organizzazioni civili e sociali hanno costantemente documentato e denunciato le violazioni sistematiche dei diritti umani in questi centri, come per esempio nel Rapporto dell’indagine del 2017 sulle Stazioni Migratorie del Comitato Civico dell’INM. I problemi riscontrati sono gli stessi del centro di detenzione di Ciudad Juárez: personale non competente, non formato, operando in condizioni lavorative deprecabili, subappalto della vigilanza a compagnie private, infrastrutture fatiscenti, carenze nell’alimentazione, la salute, la comunicazione, maltrattamenti, abusi, estorsioni, tortura, solo per citare alcuni dei problemi.

La tragedia annunciata

Nel caso di Ciudad Juárez si devono sottolineare alcuni problemi specifici che hanno fatto del centro di detenzione più che mai una trappola mortale: l’assenza di finestre, praticamente murate, di luce naturale, di ventilazione, l’assenza di estintori, di uscite d’emergenza, oltre alla corruzione, al disprezzo per le persone migranti, viste come prede di estorsioni, ed il colpevole disordine organizzativo, che hanno reso “irreperibile” un mazzo di chiavi.

Corruzione ed estorsione nel centro di detenzione

Un esempio di corruzione nel centro di detenzione migratoria di Ciudad Juárez è il caso di tre persone di nazionalità turca che ad agosto del 2022 sono stati arrestati da agenti di migrazione nell’aeroporto internazionale di Ciudad Juárez, nonostante fossero in possesso di un visto valido 180 giorni e, nel corso di una settimana di detenzione illegale, sono stati oggetto di un tentativo di estorsione da parte delle stesse autorità. Il 31 gennaio di quest’anno la CNDH ha emesso la Raccomandazione 9/2023 in cui, tra l’altro, chiede l’apertura di un’indagine contro il responsabile dell’”Alloggio Provvisorio”, Daniel G.Y., il funzionario di più alto rango attualmente arrestato e processato 13.
Varie dichiarazioni a mezzi di informazione confermano che nel centro di Ciudad Juárez usciva chi poteva pagare. Un migrante ha raccontato “Sono vivo perché la mia famiglia ha potuto fare un bonifico di 200 dollari”. Un agente ha detto che le estorsioni andavano dai 200 ai 500 dollari “alle 19 chiudevamo, e chi prima aveva pagato, usciva, sennò li mandavamo a Città del Messico oppure li deportavamo. Chi non era d’accordo veniva trasferito”. (La Opinión del 7 aprile 2023).
Testimonianze che appaiono numerose in documenti di varia natura (rapporti, denunce) e nei mezzi d’informazione, dimostrano che l’estorsione delle persone migranti affidate all’INM è sistematica ed è uno dei motivi per cui gli agenti di migrazione realizzano detenzioni arbitrarie.

Gli “incidenti nei centri di detenzione registrati nel periodo 2018-2022 sono 41, parecchi accompagnati da incendi, secondo l’informazione fornita dall’INM in risposta ad una richiesta presentata attraverso la Piattaforma Nazionale della Trasparenza.

La situazione è aggravata dall’ostilità nei confronti delle organizzazioni sociali, che spesso sfocia nella decisione di impedire, illegalmente, che svolgano il loro ruolo di assistenza legale gratuita alle persone detenute e di monitoraggio dei diritti umani nei centri di detenzione. È il caso di Uno de Sette Migrando a cui, dal 2019, per 15 mesi, le autorità hanno negato l’entrata nei centri di Juárez e di Chihuahua, nonostante il regolare permesso di cui l’organizzazione era fornita.

Eliminare la detenzione di migranti e la presenza militare nella gestione migratoria

Quindi, con parole di Gretchen Kuhner, di IMUMI (Instituto para las Mujeres en la Migración), “non si tratta di un episodio isolato, di un ‘incidente di percorso’, ma risponde ad un preciso schema di abuso e violazione dei diritti”. Per questo la strage di migranti in custodia dello Stato è stata definita una tragedia annunciata e, se non si risolvono le ragioni strutturali che l’hanno provocata, possiamo solo aspettarci un crescendo di eventi gravi. In questo senso Alejandra Macías, di Asylum Access México, rivendica la necessità di eliminare la detenzione migratoria. Nello stesso senso, le organizzazioni denunciano la militarizzazione della gestione migratoria. Infatti dei 32 delegati dell’INM (uno per ogni Stato della federazione) 19 sono militari o ex militari, e la Guardia Nazionale, che è parte dell’esercito, assume sempre più funzioni proprie dell’INM. Le organizzazioni, chiedono quindi la totale smilitarizzazione della gestione migratoria.

Ruolo attivo della CNDH (Comisión Nacional de los Derechos Humanos)

Auspicano che la CNDH assuma un ruolo attivo, superando l’inadeguatezza mostrata, per esempio, al non pronunciarsi contro gli accordi del 2019, il programma conosciuto come “Rimani in Messico”, bloccato invece dalla Corte Suprema degli Stati Uniti ad agosto del 2022, molto più rispettosa dei diritti umani e del diritto all’asilo.

Esigono che la CNDH cataloghi la tragedia di Ciudad Juárez come violazione grave dei diritti umani, ed auspicano che non si ripetano esperienze precedenti.

Le organizzazioni esigono che vengano indagati sia il ministro degli Interni che quello degli Esteri, considerando l’accordo del 2019 del gabinetto di governo in cui si attribuiscono responsabilità in materia migratoria ad entrambi i ministeri.

Due settimane dopo

Tra tante dichiarazioni di giustizia, trasparenza, no all’impunità, e stato di diritto, sono pochi i provvedimenti presi dalle autorità, cominciando dai criticatissimi 5 arresti presentati come un grande risultato. L’impresa di vigilanza privata CAMSA è stata posta sotto inchiesta e, dopo aver riscontrato varie irregolarità nella documentazione, le è stata ritirata la licenza per operare. Il centro di detenzione di Ciudad Juárez è stato chiuso, ma era inevitabile perché inagibile. Si parla di riformare i centri di detenzione.

Il primo corpo è stato consegnato martedì 4 aprile, proprio a un mese dall’incendio, si trattava dell’unica vittima colombiana. Nella settimana di pasqua sono stati consegnati alle famiglie ed alle rappresentanze diplomatiche i corpi di altri 26 migranti, e vari sono già arrivati a destinazione. Le maggiori lentezze si riscontrano nel riconoscimento delle vittime venezuelane, ma l’arrivo di un’equipe tecnica forense di questo Paese è imminente. Si prevede che la consegna dei corpi si concluderà in settimana.

Cortina di fumo…

In pieno dramma, è avvenuto un colpo di scena! Il padre Alejandro Solalinde, uno dei vecchi leader della solidarietà della chiesa cattolica verso la popolazione migrante, attualmente molto vicino al presidente della Repubblica, dopo una riunione nel Palazzo Nazionale ha annunciato che a breve López Obrador avrebbe reso pubblica una sua proposta, da rendere operativa il prima possibile, per trasformare radicalmente la gestione migratoria. Questa prevederebbe lo scioglimento dell’INM, sostituito da un Coordinamento Nazionale di Questioni Migratorie e degli Stranieri (CONMÉXICO), senza Stazioni Migratorie, completamente smilitarizzato, basato sui diritti umani e sulla sicurezza umana. Il presidente, però, dopo qualche giorno di silenzio, ha ridimensionato gli entusiasmi del padre, riconoscendo la sua collaborazione ma aggiungendo: “Ogni cosa a suo tempo”. Ciò nonostante, le dichiarazioni di Solalinde, amplificate da una presenza attiva nei mezzi di informazione, ha lasciato nell’opinione pubblica l’idea che la trasformazione dell’INM potrebbe essere imminente e radicale.

Il presidente ignora le organizzazioni che lavorano per i diritti della popolazione migrante

Le organizzazioni che lavorano con le/i migranti e per i loro diritti avevano accolto con molta cautela l’annuncio di Solalinde. Mauro Pérez Bravo, coordinatore dell’Osservatorio dei Diritti Umani dell’Episcopato e presidente del Comitato Civico dell’INM, aveva espresso la preoccupazione, condivisa dalle/dai suoi colleghə, che si trattasse di un colpo di scena mediatico per deviare l’attenzione dal problema più scottante e prioritario in questo momento: “Mi inquieta, ci preoccupa, il fatto che adesso il discorso pubblico stia diluendo le vere esigenze, che sono: giustizia, riparazione del danno, non ripetizione. La notizia dei migranti assassinati dall’INM sta perdendo visibilità e rilievo”. Tra l’altro, l’idea di un cambiamento così radicale e veloce dell’INM non era molto credibile, perché per farlo si richiedono azioni in tutti gli ambiti, anche legislativo, che implicano superare resistenze di potenti gruppi cresciuti e consolidati negli ultimi decenni. Missione ancor più difficile se il presidente insiste su un punto chiave per la sua narrativa: il massacro di Ciudad Juárez è una tragedia isolata.

Sul caso, tra l’altro, il Comitato Civico dell’INM, organismo creato per permettere dialogo ed integrazione tra lo Stato e la società civile, è stato sistematicamente messo da parte: non ha ricevuto informazioni e le sue richieste, come la destituzione del delegato dell’INM di Chihuahua, o le scuse pubbliche per il massacro di Ciudad Juárez, vengono ignorate.

E i treni carichi di migranti continuano ad arrivare

Nel frattempo, a Ciudad Juárez continuano ad arrivare molte persone migranti mentre si avvicina l’11 maggio, la data in cui il Titolo 42 verrà cancellato, insieme all’emergenza salute, secondo quanto previsto dalle stesse autorità degli Stati Uniti. Quindi, la speranza di entrare negli Stati Uniti aumenta, e un numero crescente di persone si ammasserà lungo le frontiere.

Gli Stati Uniti hanno annunciato che aumenteranno la capacità di ricezione e valutazione di domande di asilo, tuttavia ci si aspetta una sostanziale intensificazione dell’approccio di sicurezza nazionale e di criminalizzazione della migrazione e delle persone che migrano.

Nell’immediato, però, il crimine di Ciudad Juárez ci pone anche altre domande, su come si consolida l’ostilità verso il “nemico-straniero” nella città della maquila, città di frontiera fatta da persone anche loro venute da fuori; come penetra nella società la narrativa della criminalizzazione delle/dei migranti, al punto da permettere il discorso xenofobo ufficiale e la sua accettazione; come sopravvivono, le persone che approdano nella città del campo algodonero, delle croci, dei corpi usa e getta, della terra e delle ossa del deserto 14.

  1. Uno delle cosiddette “Estaciones migratorias
  2. ‘Estamos destrozados’: Orlando murió bajo custodia de las autoridades migratorias, La Verdad (1 aprile 2023)
  3. Nuevo Porvenir, la pequeña aldea hondureña que sufre por la tragedia en Ciudad Juárez, Raìchali (1 aprile 2023)
  4. CBP ONE è l’applicazione creata per chiede un appuntamento nella casetta gringa, dove presentare la richiesta di asilo.
  5. Aprovechan migrantes protesta y escapan de autobús del INM, El Diario (29 marzo 2023)
  6. Varie fonti informano che le persone “evase” sono state varie centinaia, e che solo in parte hanno partecipato alla carovana
  7. Escapan 300 migrantes de un albergue del DIF en Berriozábal, Chiapas – La Jornada (1 aprile 2023)
  8. La tragedia de Jeison, el migrante acusado del incendio en la estación del INM en Ciudad Juárez – La Verdad (31 marzo 2023)
  9. ‘Nuestros compañeros hicieron lo que pudieron’: agentes del INM defienden a funcionarios detenidos – La Verdad (31 marzo 2023)
  10. Fundación para la Justicia y el Estado Democrático de Derechos, FJEDD; Instituto para las Mujeres en la Migración, IMUMI; Derechos Humanos Integrales en Acción, DHIA; 1 de 7 Migrando; Asylum Access e FM4 Paso Libre
  11. Per un accordo interno del Consiglio dei Ministri del 2019, si sono stabilite competenze in materia migratoria non solo per il ministero degli Interni, a cui è ascritto l’INM, ma anche per il ministero degli Esteri
  12. Pérez Cuéllar advierte endurecimiento de postura hacia migrantes, La Verdad (13 marzo 2023)
  13. Documento della Comisión Nacional de los Derechos Humanos
  14. Ciudad Juárez è conosciuta come la città dei femminicidi, per essere stato il primo luogo dove il fenomeno si è individuato e studiato, e dove le madri e familiari delle donne scomparse si sono organizzate per cercarle e reclamare giustizia.

Mara Girardi

Dal 1985 vivo in Mesoamerica, in Nicaragua ed in Messico.
Ho studiato filosofia in Italia e un master in studi di genere in Nicaragua.
Socia ed operatrice di ONG di solidarietà e cooperazione internazionale, le ultime esperienze sono state con i movimenti femministi dei paesi centroamericani e poi con i movimenti indigeni in educazione interculturale e plurilingue. Dal 2006 ho lavorato a temi legati alla mobilità umana, come diritti, violenza, genere e migrazioni.