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PH: Orlando Morici
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Dentro il mondo dell’accoglienza

Intervista ad Adele de Pasquale, co-autrice del libro «Benvenuti in bianco e nero»

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«Benvenuti in bianco e nero. Voci e immagini del lavoro in accoglienza» (Neos Edizioni) racconta il lavoro quotidiano degli operatori di un Centro di Accoglienza Straordinaria gestito dall’associazione Tra Me, unendo i racconti di una tirocinante (Adele de Pasquale) alle fotografie di un operatore (Orlando Morici) e a contributi e approfondimenti scritti a più mani. Adele descrive con gli occhi di una tirocinante che per la prima volta si approccia al mondo dell’accoglienza ciò che succede in C.A.S. in un diario in otto puntate che viene pubblicato tra il 2021 e il 2022 nel mensile “Ieri Oggi Domani”. Divenuta poi dipendente di Tra Me nell’area legale, Adele si racconta in una chiacchierata sul libro e sul lavoro in C.A.S.

PH: Orlando Morici

Come nasce l’idea di questo libro? Qual è lo scopo con cui l’avete immaginato?

L’idea del libro nasce quest’anno da un’idea della presidente di Tra Me, Odilia Negro, e di altri colleghi che hanno deciso di mettere insieme due lavori che nascono in realtà separati: un mio progetto di racconti scritti in forma narrativa, che raccontano e spiegano cosa succede all’interno di un Centro di Accoglienza, che cos’è la vita di una persona che si muove in questo spazio e chi sono gli operatori, queste figure di cui nessuno parla. Parallelamente, è stato unito il lavoro di un mio collega, Orlando Morici, che è fotografo per passione e che quindi, da quando ha iniziato a lavorare per Tra Me, ha iniziato a scattare delle fotografie che raccontassero un po’ quello che è il lavoro degli operatori, dei richiedenti asilo e della sinergia che c’è… dello scambio che c’è tra queste due parti. Il libro è stato poi trasformato in uno strumento che non solo raccontasse la storia degli operatori quanto più che aiutasse anche nella formazione dell’operatore o di chiunque voglia informarsi in maniera un po’ più approfondita riguardo al tema del C.A.S. e delle dinamiche che si svolgono al suo interno. Per cui, c’è una parte più aneddotica che è la parte dei racconti scritta da me, c’è la parte un po’ più istituzionale (in cui viene spiegato dal punto di vista burocratico che parte del lavoro è quella) e poi ci sono le fotografie che hanno il vantaggio di parlare da sé. 

PH: Orlando Morici

Rispetto al tuo contributo, perché hai scelto di focalizzarti sul lavoro in C.A.S. e non, ad esempio, sulle storie dei richiedenti asilo?

La sensazione che ho avuto quando ho terminato il tirocinio da Tra Me è stata che delle storie delle persone migranti purtroppo o per fortuna se ne parla molto, ma si parla veramente molto poco di quello che poi capita nel momento in cui queste persone arrivano su suolo italiano. Nel senso che c’è una grande risposta mediatica subito all’arrivo e a quello che questo arrivo comporta: dall’altra parte, però, queste persone iniziano ad abitare il suolo italiano. E quindi cosa succede? Che mondo è quello dell’accoglienza? Che percorsi diversi si aprono? E che cos’è richiesto anche solo a livello istituzionale rispetto ai servizi da offrire a queste persone? 

E quindi l’idea era appunto uscire anche dall’ottica vittimistica del migrante come persona che arriva perché ha una storia tragica, uscire dalla dinamica della spettacolarizzazione della persona migrante all’arrivo sul territorio italiano, focalizzandomi invece sul “OK, una volta che la persona è arrivata in Italia cosa succede? Dove vengono distribuite queste persone?

E poi con gli anni, avendo lavorato anche all’interno dell’associazione dopo aver svolto il tirocinio, col senno di poi dico anche, non avrei neanche scritto dei racconti con le storie dei richiedenti asilo perché essendo racconti nati all’interno di una relazione educativa, intensa, importante, frutto di un lavoro condiviso, ti rendi conto lavorando che non è più fondamentale la storia della persona, quanto più la relazione che si è instaurata.

PH: Orlando Morici

Nel libro emerge in più momenti il tema, dell’”inserimento in una società.” Per la tua esperienza in Tra Me, che cosa significa questo oggi in Italia?

Purtroppo, è una parola molto inflazionata ed estremamente utilizzata, però secondo me davvero si può parlare di resilienza delle persone migranti: impattare con un contesto culturale e burocratico come quello italiano, è estremamente, estremamente difficile. Prima di tutto, purtroppo, impattano con la peggior burocrazia, nel senso che se già a noi normalmente servono 10 documenti e un’ora di attesa, ai richiedenti asilo servono 20 documenti e almeno 7 ore di attesa, per cui le tempistiche si allargano immensamente. I documenti che servono sono sempre diversi, sempre più specifici e non esiste un testo o un regolamento da prendere a riferimento che indichi in maniera precisa e specifica quali sono i documenti che servono. Ogni volta cambiano, ogni volta sono a discrezione della persona che ci si trova davanti quando si avanzano delle richieste, e oltretutto in un contesto socio-culturale complesso… È stato accettato il fatto che ci siano delle persone che arrivano da altri paesi e si stabiliscono in maniera stabile nel nostro paese, non è accettato però socialmente lo sguardo, la vista di queste persone, per cui per le persone migranti è difficile riuscire una crearsi una rete che sia al di fuori di quella con persone che hanno una situazione simile, che arrivano dallo stesso paese, che hanno la stessa cultura e… C’è una tendenza un po’ alla ghettizzazione. Però, secondo me, estrema resilienza perché purtroppo, nonostante l’arrivo sul territorio italiano, il percorso non è assolutamente finito, anzi ne inizia un altro ancora più ostico, perché c’è il l’idea del “sono arrivato, quanto ancora devo faticare prima di riuscire a raggiungere la pace?

PH: Orlando Morici

Che cosa vuol dire “fare accoglienza”? Che cosa significa lavorare in un C.A.S. oggi per un operatorə sociale?

Per me, è un enorme scambio di vita. Ed è uno scambio di vita che avviene attraverso una relazione educativa, per cui sicuramente il piano non è lo stesso, c’è sicuramente un rapporto in qualche modo gerarchico e però c’è proprio la sensazione di star lavorando per cambiare le cose, per cambiare le dinamiche e impattare con una persona che arriva da una cultura completamente diversa dalla tua. E per cui sicuramente cosa significhi fare l’operatore oggi per me è contribuire con la forma di lotta che in questo momento mi sembra più reale. Più reale, perché lavori sul campo, sei sempre in freestyle nel senso che ogni persona che incontri è un ricominciare da capo, un rimetterti in discussione. E poi perché ti rendi conto che il lavoro che stai facendo con quelle persone impatterà su di loro e su di te, per cui ciascuno porterà a casa quello che raccoglie dell’esperienza della relazione avvenuta. Per quanto mi riguarda, è come se fosse una forma di chiedere scusa…è anche un po’ il modo per dire “il mondo ti ha voltato le spalle fino ad adesso, sappi che qui non lo facciamo, qui non avviene, cercheremo di non farlo.” Non è una forma di redenzione, egoistica, è piuttosto andare in controtendenza con un mondo che ti volta le spalle e quindi cercare di non farlo, in quanto esseri umani che impattano con altri esseri umani.

PH: Orlando Morici

Secondo te, quanto può impattare l’approccio del singolo operatorə sulla vita effettiva della persona che è appena arrivata e che rimarrà in Italia?

Sicuramente il contesto generale dev’essere accogliente, un contesto che quanto più richiami a un contesto-casa, un ambiente casa. Poi, l’approccio del singolo operatore è fondamentale: quando qualcuno ti racconta delle parti della sua vita o della sua storia sai che quello è frutto di un rapporto tra te e quella persona, e solo tra te e quella persona. Tant’è che io, appunto nel libro parlo di “sono stati loro a insegnare a me… sono stati loro ad accogliermi e ad insegnarmi che cosa significa accogliere” perché ho vissuto sulla mia pelle quella che è una relazione di fiducia all’interno di un rapporto per cui percorriamo questo pezzo di strada insieme, perché in qualche modo vuol dire che stai ricevendo quello che è il tuo obiettivo primario di riuscire dare. Il fatto che tu lo riceva indietro vuol dire che sicuramente la relazione è andata a buon fine, è riuscita in un certo senso.

PH: Orlando Morici

Che cosa è cambiato in questo anno e mezzo di viaggio, dal primo giorno di C.A.S. a oggi? Come ti ha cambiato questo lavoro?

Eh, *ride*, Difficile. Allora, sicuramente sono un po’ più arrabbiata di prima, nel senso che avendo fatto sei mesi di tirocinio, le responsabilità erano anche meno, per cui una parte dell’accoglienza (purtroppo o per fortuna) non l’avevo ancora vista e sicuramente quando l’ho incontrata da dipendente è stata una bella martellata sui denti, nel senso che è stata la fotografia di una situazione assolutamente disarmante per certi versi, visto che l’”emergenza” migranti va avanti da quasi 10 anni con questa intensità… vedere quanto il sistema sia estremamente lento, estremamente vecchio e farraginoso… e poco rispettoso, cioè, si lavora poco sulla dignità della persona.

In senso positivo come mi è cambiato questo lavoro? Beh. È un bel bagaglio di vita, nel senso che ha creato un punto di non ritorno, che sono contenta si sia creato, un punto di non ritorno molto forte perché mi ha fatto impattare con una realtà… mi ha fatto aprire gli occhi su una serie di situazioni e mi ha fatto capire che io, quello che voglio fare per ora nella vita… poi chi lo sa? Però ho deciso di dedicarmi all’università, per poter insegnare ai bambini.

PH: Orlando Morici

Un lavoro che per me è veramente l’apoteosi di quello che può essere l’esperienza in C.A.S., perché mi piacerebbe contribuire a creare una generazione futura dove si è creato un tessuto sociale che riconosce i diritti fondamentali dell’uomo, riconosce la dignità di una persona e per cui mi auguro non che non esistano più persone razzializzate. Poi ci sono gli sguardi, gli sguardi delle persone, che forse tra tutto ti porti più a casa perché sono la versione più genuina di noi stessi e alcuni di quegli sguardi mi hanno davvero segnata perché lì mi sono resa conto del significato che per me ha avuto tutto questo. E lì mi sono resa conto del significato che per loro ha avuto tutto questo. Perché in qualche modo, e non vuole essere assolutamente una frase autocelebrativa e neanche arrogante, ci si è cambiati la vita a vicenda anche in una piccola parte però sicuramente è stato un incontro significativo. 

Bisogna parlare tanto, parlare tanto soprattutto di empatia con i bambini, perché è molto più difficile cambiare la mente di un adulto piuttosto che plasmare la mente di un bambino. Per cui, sicuramente creare una base di creaturine in grado di empatizzare con il resto del mondo fa sì che domani il mondo sarà veramente diverso.

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Sara Minolfi

Laureanda magistrale in Peace and conflict studies all’Università di Torino. Come studentessa, attivista e aspirante ricercatrice, mi occupo di confini e delle persone che li attraversano nonché delle interconnessioni tra cambiamenti climatici, migrazioni e conflitti.