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I CPR devono essere chiusi, non ampliati

Il punto della situazione sul CPR di Macomer con Francesca Mazzuzi di LasciateCIEntrare

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La legge di bilancio per il 2023 ha previsto nuovi fondi per il rafforzamento della rete dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). Una scelta di più per riaffermare che la persecuzione delle persone straniere sul territorio italiano, il loro allontanamento e l’incarcerazione senza processo sono capisaldi dell’attuale politica migratoria.

Sono circa 36 milioni di euro i fondi stanziati per la creazione, nei prossimi 3 anni, di 206 nuovi posti in strutture detentive per persone straniere, a cui viene negato un regolare permesso di soggiorno in Italia. Di questi, 106 verranno ricavati dall’ampliamento di due strutture già esistenti: il CPR di Pian del Lago (Caltanissetta), che passerà da 92 a 148 posti, e quello di Macomer (Nuoro) che raddoppierà la sua capienza da 50 a 100 posti di internamento. I restanti 100 posti verranno ricavati dalla creazione di nuovi centri e dalla conversione di strutture già esistenti 1

Nuove risorse economiche per una politica carceraria in linea con l’obiettivo, già stabilito nel decreto Minniti del 2017, di istituire un CPR in ogni regione e rafforzato ulteriormente dal nuovo decreto del 10 marzo, a cui si è crudelmente associato il nome di “decreto Cutro”: lungi dall’apportare soluzioni che assicurino che stragi simili non avvengano mai più, la tragedia è divenuta un’occasione per il governo per rendere ancor più complicate le operazioni di soccorso in mare; per promulgare ulteriori strette sui diritti delle persone migranti e il loro accesso alla protezione, ampliando il numero delle persone “candidabili” alla detenzione; rimuovendo inoltre garanzie importanti contro l’espulsione dal territorio italiano.

A fronte di queste novità, vale la pena approfondire la situazione dei CPR d’Italia, a cominciare da quelli che la nuova legge finanziaria sta ampliando. 

Francesca Mazzuzi, operatrice socio-legale e parte della campagna LasciateCIEntrare, ci aiuta a comprendere meglio la situazione nel CPR di Macomer.

Macomer diventa CPR nel gennaio 2020. È l’unico in Italia a nascere come carcere di massima sicurezza, con spazi particolarmente costrittivi e opprimenti, anche in relazione ad altri CPR sul territorio. Per la sua conversione era necessaria una ristrutturazione degli spazi, la cui capienza era già fissata a 100 posti, da rendere agibili in due lotti di lavori. Si è poi proceduto all’apertura con i soli primi 50, in mancanza di altri fondi.

Inizialmente gestito da ORS Italia s.r.l., a partire da marzo 2022 il centro di detenzione è in gestione di Ekene Cooperativa Sociale Onlus di Battaglia Terme (PD), che attualmente gestisce anche il CPR di Gradisca d’Isonzo. Si tratta di enti gestori dai curriculum raccapriccianti, già noti alle cronache e alla giustizia per gravi inadempienze nella gestione di altri centri in Italia e all’estero. Ne abbiamo già parlato in questo articolo, evidenziando la logica perversa delle gare d’appalto per la gestione dei CPR: vince chi presenta l’offerta economica più bassa, che spesso risulta totalmente fuori mercato.

«Sebbene la prefettura sia responsabile, i servizi sono affidati a privati che sul taglio dei costi ci guadagnano» – precisa Francesca.

È questa la logica sistemica che produce gli stessi risultati di malagestione e degrado in tutti i CPR di Italia, di cui Macomer è solo un esempio. I circa 6,5 milioni di euro destinati al CPR di Macomer dalla nuova legge di bilancio, non riguardano in alcun modo l’erogazione dei servizi alle persone recluse, benché meno il loro miglioramento. Servono esclusivamente per portare a massima capienza la struttura.

Una struttura in cui vengono somministrati medicinali e psicofarmaci diffusamente 2, cibo insufficiente ed immangiabile; in cui non è possibile tenere una penna per scrivere o un orologio per controllare l’ora; in cui non è prevista alcuna attività di svago. Un centro che costringe in condizioni inumane le persone recluse, fino al punto che in più occasioni queste hanno adottato strumenti di protesta pericolosi per sé stessi, come cucirsi la bocca, salire sui tetti e dare fuoco alla struttura. Evidenze di fronte alle quali non è accettabile che certa stampa si ostini a definire “ospiti” le persone recluse in tali strutture.

Sono ormai numerose le segnalazioni sulle condizioni degradanti del centro raccolte e denunciate da LasciateCIEntrare. Il problema è che le semplici segnalazioni, quando non vengono comprovate da verifiche successive di autorità competenti, non producono in sé alcun effetto giuridico.

Il CPR di Macomer non ha ricevuto ispezioni parlamentari a cui abbiano fatto seguito esposti sulle condizioni del centro. E a differenza dei parlamentari, le realtà della società civile si scontrano con la difficoltà, se non impossibilità di accesso. Per un sopralluogo è necessaria un’autorizzazione e per riceverla non basta essere un’associazione formale, ma si richiede anche una certa competenza o esperienza in ambito migratorio. Anche in questo caso, poi, l’accesso può essere limitato. La missione di sopralluogo operata da ASGI nell’ottobre 2020, ad esempio, non è potuta entrare nell’area detentiva e si è interfacciata soltanto con l’amministrazione.

In questo contesto è fondamentale il monitoraggio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, benché anche i suoi rapporti, che evidenziano criticità e formulano raccomandazioni, di per sé non sono vincolanti per lo Stato. Il Garante infatti è tra i pochi soggetti, insieme ai parlamentari, ad avere accesso diretto ed indiscriminato, senza necessità di autorizzazione né preavviso, a questi spazi e soprattutto alle persone che vi sono trattenute.

Il CPR di Macomer ha ricevuto visite annuali dal Garante Nazionale, ma la Regione Sardegna ha nominato un Garante Regionale, che è quello territorialmente competente, soltanto a fine Gennaio 2023 (tre anni dopo la sua apertura).

«Sappiamo che (il Garante Regionale, nda) ha fatto un sopralluogo nel Centro di Macomer, ma non ne conosciamo l’esito. Non ha ancora divulgato informazioni al riguardo. Noi abbiamo interloquito con alcune persone che in quel momento erano recluse all’interno del centro e ci hanno confermato che c’è stata la visita di una figura, di una donna, con la quale però loro non hanno avuto la possibilità di parlare. Ci hanno detto proprio: “Ci faceva delle domande, noi cercavamo di rispondere, però “loro” (i responsabili del CPR presenti, nda) rispondevano per noi”».

Questo è estremamente problematico. Oltre a sottolineare che il Garante è l’unica autorità autorizzata a svolgere colloquio riservato con individui detenuti persino sotto il regime di 41-bis, ci teniamo qui a ribadire che i CPR sono luoghi pressoché inaccessibili. Le testimonianze dirette di chi vi è recluso non dovrebbero ricevere interferenze: per rispettare il loro diritto a raccontarsi in prima persona; perché ci aiuta a comprendere l’umanità dietro a categorie legali riduttive, quali “migranti clandestini”; e soprattutto per monitorare concretamente quello “stato di diritto” di cui le istituzioni si fanno portavoce.

Chi sono le persone recluse nel CPR di Macomer?

In mancanza di un accesso diretto alle loro storie e autorappresentazioni, possiamo limitarci qui a descrivere il circuito che le obbliga alla detenzione presso questo centro.

ORS s.r.l. Italia fino a marzo 2022 gestiva sia il CPR di Macomer che il centro di Monastir (Sardegna). Quest’ultimo ha doppia funzione di CAS e centro di prima accoglienza: è lì che vengono portate le persone intercettate dopo uno sbarco autonomo in Sardegna, per le procedure di identificazione. Chi fa richiesta di asilo finisce al CAS, tuttavia moltissimi arrivi riguardano persone di nazionalità algerina e recentemente anche tunisina. In quanto provenienti da due paesi considerati “sicuri” dall’Italia 3, le loro domande di asilo si presumono infondate e, di conseguenza, si applicano procedure “accelerate” direttamente alla frontiera. Non sarà dunque una Commissione Territoriale ad esaminare il loro caso: “l’onere della prova” in gergo legale, è riversato sul richiedente. E’ il/la richiedente che deve presentare, al momento della domanda, motivazioni particolari per essere riconosciuto come rifugiato.

Si tratta di procedure confuse, che presentano profili di incostituzionalità: nessuna misura specifica garantisce il diritto all’informazione – non è chiaro, infatti, se e quando la persona in questione venga informata delle procedure particolari a cui viene sottoposta e vi sono pochi mediatori linguistici e operatori legali nei luoghi di arrivo. Non è ben specificato nemmeno come e quando il/la richiedente debba esplicitare queste motivazioni particolari, se abbiano reale accesso a un colloquio individuale.  La stessa categoria di “paese sicuro” è costruita per limitare il diritto di accesso all’asilo, in contrasto con le convenzioni internazionali e con la costituzione italiana.

“Paese sicuro”: per chi?

A differenza di quanto spesso sostenuto nel dibattito pubblico, la protezione internazionale non riguarda le sole persone provenienti da paesi in guerra. Anzi, nasce per fornire rifugio a vittime di persecuzione personale, a prescindere dal contesto di violenza generalizzata che possa esserci nel paese di origine. Poi, se quest’ultimo sussiste, viene accordata comunque una protezione, che però viene revocata nel momento in cui la situazione di conflitto cessa.

Non esistono dei criteri esatti secondo i quali un paese di origine possa essere considerato sicuro e sembra significativo che più di un terzo dei migranti arrivati in Italia dal 2019 provenga da uno dei 13 Stati considerati sicuri dall’Italia 4.

Tornando al caso di Macomer, come abbiamo detto molte delle persone che vi transitano sono di nazionalità algerina. L’Algeria è un paese in cui persiste la pena di morte; in cui la persecuzione politica, la repressione dell’opinione pubblica e la tortura, sono all’ordine del giorno 5. La stampa critica viene incarcerata con estrema facilità anche per questioni di poco conto 6, come qualsiasi forma di dissenso pubblico – che si tratti di un commento o un like su facebook o una manifestazione di piazza. Nel 2019 il paese ha visto insorgere il movimento “Hirak” con manifestazioni pacifiche in tutte le principali città del territorio: una popolazione principalmente giovane, esasperata dalla mancanza di lavoro e di opportunità per crearlo, dalla corruzione, dall’assenza di una visione, di un futuro per loro. La risposta è stata repressione, incarcerazioni e la riorganizzazione di un regime securitario, completamente distaccato e predatorio rispetto alla sua stessa popolazione 7.

Uno sguardo più accorto alla situazione interna di ciascuno dei paesi iscritti nella lista permette di comprendere quanto sia vuota di significato, se non mistificatoria, la categoria di “paese sicuro”.

Se non fa richiesta d’asilo o nel caso in cui venga respinta, la persona in questione si trova in una situazione irregolare a cui, come in ogni situazione di irregolarità, può far seguito un provvedimento di espulsione.

«Non si capisce bene la logica secondo cui pochi sfortunati finiscono a Macomer e altri invece ricevono il cosiddetto “foglio di via”. Inizialmente si pensava che finissero nel CPR le persone che avevano violato il divieto di reingresso, ma da testimonianze che abbiamo ricevuto, sappiamo che adesso non è così. Dipende dalla disponibilità di posti».

E comunque non tutte le persone che finiscono in un CPR vengono effettivamente espulse. L’Algeria, ad esempio, dà molti problemi allo Stato italiano in merito: nonostante esista un accordo di rimpatrio, spesso il riconoscimento dei documenti di viaggio necessari alla deportazione richiede più tempo di quanto sia possibile trattenere le persone nel CPR 8. Il risultato è che dopo questo susseguirsi di esperienze traumatiche, detenzione e soprusi, vengono semplicemente rilasciate e, se non escono dal territorio italiano, rischiano in ogni momento una nuova reclusione.

In ogni caso, le nuove disposizioni sulle espulsioni e la rinnovata centralità per l’Italia della cooperazione con l’Algeria in ambito commerciale ed energetico, danno spazio a sviluppi preoccupanti in questo senso.

Conclusioni

Il sistema di “accoglienza” italiano è costruito intorno a una falsa emergenza e ostacola le persone straniere nell’accesso all’informazione su diritti e a reali possibilità di regolarizzazione 9.

La lista nazionale di “paesi sicuri” risponde alla logica di “razionalizzazione dell’accoglienza“, per cui non abbiamo mai dimostrato di spendere risorse eccessive, né risultati soddisfacenti. Rende inammissibili le domande di protezione sulla base della nazionalità e giustifica espulsioni collettive e respingimenti differiti: tutte pratiche illegali secondo il diritto internazionale.

Comporta la detenzione amministrativa, un regime di incarcerazione dai contorni legali poco definiti e di fatto illegittima. La sua applicazione, infatti, è altamente discrezionale e dipende molto dalle circostanze. Drena risorse, pagate dai contribuenti, che potrebbero essere spese per migliorare i servizi di accoglienza, per misure di regolarizzazione e di inserimento lavorativo, per dirottarle su spese ingenti, che producono situazioni inumane e disfunzionali.

Lo Stato italiano sembra concentrarsi solo sull’aspetto “disfunzionale” di questi circuiti e in particolare sulla disfunzionale delle espulsioni, decidendo di puntare tutto sull’ampliare la capienza di queste carceri, il tempo di trattenimento e il numero di espulsioni effettuate. E comunque non risolverà mai la disfunzionalità più profonda, che consiste nel dato di fatto, supportato da numeri alla mano, che i CPR, la repressione, le morti in mare: non fermano le partenze.

Urliamo a gran voce che tutto questo è profondamente sbagliato.

È sbagliato da un punto di vista legale, in quanto le norme sono opache e discrezionali; entrano in contrasto con il diritto nazionale e internazionale. È sbagliato da un punto di vista sostanziale: negano diritti e dignità, in un paese in cui anche le persone carcerate sotto regime ordinario versano in condizioni indegne e degradanti. È sbagliato da un punto di vista umano: per le violenze, le deprivazioni, le sofferenze a cui sottopongono milioni di persone senza alcuna vera giustificazione.

Di fronte alla progressiva visibilità che queste denunce stanno acquisendo, testimoniate adesso anche da servizi televisivi che entrano direttamente in casa delle persone, non ha semplicemente senso che un tale sistema non venga smantellato e che anzi venga rafforzato.

Politiche alternative sono possibili e necessarie.
È possibile convogliare le risorse per aprire vie di fuga sicure a chi oggi rischia la vita per richiedere l’asilo. È possibile aumentare le possibilità di regolarizzazione, ampliando ad esempio le tipologie di permessi di soggiorno e concedendone le conversioni (da turistico a lavorativo, per esempio). È possibile superare l’ipocrisia  dei Decreti Flussi, che più che aprire vie per la cosiddetta “migrazione legale”, costituiscono più plausibilmente una complicatissima via di regolarizzazione a persone straniere già presenti in Italia e che hanno già trovato lavoro, che ad ogni modo sono poi costrette a tornare al paese di origine e rientrare con i documenti in regola in Italia.

Dobbiamo cominciare ad affrontare i fenomeni migratori con onestà, superando un paradigma emergenziale e securitario ingiustificato, che non fa altro che produrre violenza, deprivazioni e inumanità: un sistema illegittimo non solo da un punto di vista etico, ma anche in quanto perpetua un’ “illegalità di Stato” su più fronti che mette a rischio i diritti di tutti e tutte noi.

I CPR devono chiudere, le deportazioni non sono una soluzione, sono il problema.

  1. I dati sono reperibili nel testo finale della legge di bilancio 2023
  2. Interrogazione “sulle condizioni di vivibilità in cui verte il Centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) a Macomer”, presentata al Consiglio Regionale sardo il 30 luglio 2020
  3. Lista europea dei paesi considerati sicuri (2015); Lista Italiana DECRETO 4 ottobre 2019
  4. Le considerazioni contenute in questo articolo appartengono, in parte, a una ricerca sul campo condotta tra aprile e luglio 2022 in Tunisia, da Ludovica Gualandi e Nicoletta Alessio detto Grassi, in qualità di studentesse del Master MIM (migrazione intermediterranea) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. La ricerca sul campo verteva sulla cooperazione italo-tunisina in materia migratoria e sulle deportazioni forzate di cittadini tunisini dall’Italia verso la Tunisia
  5. L’informazione in lingua italiana su questi temi scarseggia, concentrandosi principalmente sulle relazioni commerciali italo-algerine legate alle risorse energetiche. Rimandiamo alle informazioni disponibili di:
    Amnesty International Algeria (FR/AR); Reporters Sans Frontières (FR)
  6. Lo scorso ottobre il giornalista algerino Belkacem Haouam è stato condannato con pene detentive e pecuniarie per un articolo sulle difficoltà di esportazione dei datteri in Europa, in particolare in Francia, a causa delle restrizioni europee sui pesticidi
  7. Amnesty International sul movimento Hirak e la sua repressione; Articolo di LasciateCIEntrare: “Algeria: repressione, diritti negati, naufragi
  8. Negli anni questo scoglio è stato superato nel caso della cooperazione con la Tunisia, i cui cittadini risultano i primi per numero di deportazioni nel paese di origine, benché rimangano una percentuale relativamente bassa sul numero di internati. Per approfondire consultare questo articolo del progetto Inlimine di Asgi
  9. I dati raccolti da Openpolis e ActionAid Italia, nel loro rapporto 2022 “Il vuoto dell’accoglienza”, smentiscono l’emergenzialità del fenomeno migratorio. Dimostrano, inoltre, come il sistema di accoglienza italiano sia ben lontano dal paventato “collasso”, in quanto, anche durante i picchi di arrivi in Italia via mare, si contano comunque migliaia di posti liberi per richiedenti asilo e rifugiati.

Redazione

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