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Il luogo della strage, Steccato di Cutro. PH: Silvia Di Meo
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La criminalizzazione dei cosiddetti scafisti

Il nuovo mantra per deresponsabilizzare le politiche migratorie

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A seguito della strage di Cutro, il governo ha fin da subito incolpato i presunti scafisti del naufragio avvenuto sulle coste calabresi. Incolpare scafisti e trafficanti è di fatto divenuto un mantra per deresponsabilizzarsi non solo dai mancati soccorsi ma anche dalla creazione di vie sicure per la mobilità di persone provenienti dal Sud globale.

Dopo il naufragio avvenuto a Steccato di Cutro, in Calabria, il governo Meloni ha immediatamente voluto adottare un nuovo decreto – “Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare” – volto a reprimere il cosiddetto “favoreggiamento all’immigrazione clandestina”. Benché dalle prime ricostruzioni di quanto avvenuto a Cutro, sia evidente che la responsabilità del naufragio siano da imputare ai mancati soccorsi della Guardia Costiera, il governo ha fin da subito individuato i cosiddetti “scafisti” come unici responsabili delle morti in mare. Chiamare in causa trafficanti e scafisti – spesso con affermazioni in cui questi soggetti diventano intercambiabili, seppur diversi -, così come la colpevolizzazione di chi decide di partire, sono ormai divenuti dei mantra per giustificare politiche sempre più restrittive e securitarie sulle migrazioni, andando conseguentemente a criminalizzare coloro che dovrebbero essere tutelati.

Trafficanti e scafisti, qual è la differenza?

Innanzitutto, il divieto di tratta di esseri umani è disciplinato dalla “Convenzione sulla soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione altrui” e dal “Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini”. In questi casi si parla di persone che con la forza, e spesso sotto l’inganno di una promessa di un futuro migliore e di un lavoro in un altro Paese, sono costrette a obbedire agli ordini dei trafficanti, cadendo nelle maglie della schiavitù, dello sfruttamento o della prostituzione, tra abusi e violenze. Quello che invece costituisce una “facilitazione/agevolazione/favoreggiamento” alla migrazione “illecita”, in inglese viene definito smuggling ed è disciplinato dal “Protocollo contro il traffico di migranti via terra, aria e mare”. 

All’atto pratico, nonostante la linea di demarcazione tra le due definizioni (trafficker e smuggler) possa talvolta risultare sbiadita, come spiega la stessa Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM, delle Nazioni Unite), esistono comunque delle sfumature e delle differenze sostanziali da evidenziare, tra queste emergono:

  1. Il consenso. Mentre nel caso della tratta di esseri umani il consenso è del tutto assente, nel caso dello smuggling, può esistere una transazione economica, soprattutto nel caso di un accordo consensuale tra la persona migrante che decide di partire e oltrepassare i confini e l’intermediatore o facilitatore.
  1. Il metodo coercitivo. Nel caso della tratta di esseri umani, la coercizione può emergere fin da subito oppure successivamente, quando la persona migrante, anche se inizialmente acconsente a farsi aiutare, diventa di fatto vittima degli abusi imposti dal trafficker. Nel caso dello smuggling il metodo coercitivo non è necessariamente presente, specie, di nuovo, se la persona migrante e l’intermediatore o facilitatore hanno un rapporto di fiducia.
  1. Merce di scambio. Nel caso della tratta di esseri umani, la merce è rappresentata dalle persone, mentre nello smuggling, la merce di scambio è il servizio di trasporto verso un altro Paese, pagato dalla persona migrante. Il trafficker ottiene quindi vantaggio economico dallo sfruttamento della vittima, lo smuggler generalmente ottiene profitto dalla transazione economica a cui la persona migrante ha acconsentito per il viaggio.

                 Via OIM

Ora, chi svolge il ruolo di scafista – che ricordiamo, rischia la vita come tutte le persone che vengono trasportate su un’imbarcazione – rappresenterebbe quindi il facilitatore e la sua figura esiste, come spiega la Ong Borderline Europe, in virtù del fatto che le vie legali per entrare nei Paesi Ue – specie se si proviene dai Paesi del Sud del mondo – non esistono (si pensi, ad esempio, alla riduzione drastica del rilascio dei visti di viaggio):

La criminalizzazione di chi “facilita” le migrazioni è di fatto divenuta un metodo per tentare di fermare le migrazioni da un lato ed evitare di adottare politiche di apertura dei confini dall’altro. In Italia, criminalizzare i cosiddetti scafisti, o presunti tali, è divenuta una routine in cui vengono anche coinvolte persone innocenti e/o minorenni, tra gravi errori giudiziari e accuse approssimative.

Chi sono i presunti scafisti?

Con il nuovo decreto immigrazione, il Governo Meloni prevede di condannare a 30 anni di carcere gli scafisti che “causano la morte di più di una persona”. Questo tipo di criminalizzazione però dura da anni ed è stata ampiamente documentata dal rapporto “Dal mare al carcere”, realizzato dalle associazioni ARCI Porco Rosso, Watch The Med Alarm Phone, Border Line Europe e Border Line Sicilia.

PH: Arci Porco Rosso

Come si evince dal rapporto, i cosiddetti scafisti vengono usati come capro espiatorio per giungere velocemente a conclusione delle indagini che riguardano sbarchi o eventuali naufragi. Trattando delle rotte marittime verso l’Italia (dall’Egitto, alla Tunisia, all’Algeria, alla Libia, alla Grecia e all’Albania), è stato analizzato come: i conducenti delle barche vengano identificati in mare in base a fotografie errate e testimonianze inaffidabili; i diritti delle persone arrestate non vengano affatto protetti, “condannando le persone su prove inconsistenti e dando loro poco accesso alla difesa”; il sistema carcerario italiano non riesca a proteggere i diritti delle persone detenute straniere e come agli scafisti, o presunti tali, venga impedito l’accesso agli arresti domiciliari. Inoltre, nel rapporto viene chiarito che una persona diventa scafista o conducente di imbarcazione per svariate e complesse ragioni: esistono, ad esempio, migranti-capitani forzati ossia coloro che – nonostante le scarsissime o quasi inesistenti conoscenze del mare – sono stati costretti poco dopo la partenza a guidare la barca. 

Prima di partire l’uomo arabo con la pistola mi ha detto che avrei dovuto tenere la bussola mentre a quello in fila dietro di me (eravamo l’ultimo ed il penultimo della fila) è stato dato il comando dell’imbarcazione, sotto minaccia di essere [colpiti da arma da fuoco]. Solo dopo ho scoperto che quella sera per tutte e tre le barche che sono partite, gli ultimi due della fila erano stati scelti per condurre la barca. Non si può fare nulla, tutti sono armati in Libia. Non è possibile opporsi a quello che comanda”, si legge nel rapporto che ha raccolto la testimonianza di un ragazzo di 15 anni – in questi casi non mancano i segni delle violenze e abusi (da cicatrici a ferite) subiti dai “timonieri” costretti a guidare la barca. 

Esistono anche migranti-capitani per necessità, ossia coloro che sono diventati conducenti per via di momenti di difficoltà e di trauma collettivo  (come, si legge nel rapporto, attacchi di pirati che rubano il motore, onde alte del mare o litigi  a bordo) o perché il capitano a cui era stato inizialmente affidato il compito di guidare l’imbarcazione non riusciva a guidarla, facendosi quindi sostituire da qualcuno che sapesse farlo. Infine esistono i migranti-capitani retribuiti, persone che, evidenzia il rapporto, “non sono necessariamente raggruppate con gli altri passeggeri ma possono essere messe da parte, separate, e raggiungono gli altri solo al momento della partenza”. Inoltre, queste ultime, sono già consapevoli di dover svolgere questo ruolo, sapendo di pagare la traversata vendendo il loro servizio di trasportatori. Nella testimonianza di un cittadino senegalese che ha svolto questo ruolo, ad esempio, emerge la sua attenzione nell’assicurarsi che tutte le persone a bordo fossero salvate da altre navi durante le operazioni di soccorso. 

Risulta evidente quindi che la figura di “scafista” assume dei connotati sempre differenti, a seconda del contesto e del ruolo svolto ma ciò che conta all’arrivo è individuare e arrestare, a prescindere, anche persone che scafiste vere e proprie non sono. Come ha riportato Andrea Oleandri, responsabile Comunicazione dell’associazione Antigone, su La Via Libera, sul caso di alcuni giovani minorenni reclusi con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina: “durante le visite che gli osservatori di Antigone fanno nelle carceri del Paese, è emersa la perplessità di alcuni degli stessi operatori che li hanno in carico, convinti che questi ragazzi con i trafficanti di uomini c’entrino veramente poco”. Infatti, spiega ancora, Oleandri “i ragazzi accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sono il più delle volte adolescenti messi su un barcone dai genitori, usati dai veri scafisti durante il viaggio per portare l’acqua e tradurre le indicazioni ai naviganti o per pilotare la nave fino a raggiungere la costa”. 

Il fatto che avvenga una criminalizzazione approssimativa è dimostrato perfino dalla stessa giurisprudenza: nel 2016 il Tribunale di Palermo ha per la prima volta riconosciuto l’innocenza di due persone accusate di essere scafiste poiché erano state costrette, con la violenza fisica e la minaccia di morte, a mettersi alla guida dell’imbarcazione. Si configurava quindi un caso di stato di necessità per cui il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina non poteva, in questo caso, essere preso in considerazione.

Inoltre, come viene evidenziato nel rapporto “Dal mare al carcere”, il problema risiede anche nel fatto che spesso la polizia si limita a chiedere ad altri passeggeri chi si trovava al comando dell’imbarcazione al momento dello sbarco, e questo basta per trovare un colpevole e proseguire con l’arresto, senza indagare oltre. Un altro grave errore giudiziario è stato quello del caso di Alaji Diouf che, scambiato per scafista, ha dovuto trascorrere 7 anni in carcere.

Nel 2015, Diouf, venne accusato di aver pilotato un’imbarcazione che è naufragata al largo delle coste di Taranto, nel tentativo di fuggire dalla Libia. Come spiega l’associazione Baobab Experience, che ora chiede la revisione del processo, Diouf viene identificato come  scafista poiché uno dei passeggeri lo aveva erroneamente accusato di aver guidato il gommone su cui si trovava: lo stesso Diouf ha affermato di non aver mai toccato il timone dell’imbarcazione e soprattutto che se allora avesse parlato l’italiano come lo parla ora, non sarebbe finito in carcere. Infatti, una delle violazioni del diritto alla difesa evidenziate da parte dell’associazione Baobab Experience è proprio il fatto che il giovane non ha mai avuto modo di dichiararsi innocente poiché parlava solo la lingua Mandinga. Infatti, riporta l’associazione: “[…] agli atti del processo, non solo risulta che lui parlasse la lingua wolof ma al suo interrogatorio – su indicazione del Giudice – l’interprete traduce tutte le domande in francese, inglese e arabo, idiomi che Diouf ignorava completamente. Questa enorme violazione del diritto alla difesa si è riprodotta durante tutto il processo”.

In conclusione

Se l’intenzione dell’Italia fosse quella di contrastare le grandi reti della criminalità organizzata che fanno profitto utilizzando le persone migranti come merce di scambio, interromperebbe, ad esempio, il Memorandum d’Intesa con la Libia. Quest’ultimo infatti prevede finanziamenti da milioni di euro alla cosiddetta Guardia Costiera Libica, costituita da milizie e trafficanti – si veda l’inchiesta su Bija, trafficante e uomo di spicco delle milizie libiche – che rinchiudono le persone migranti nei centri di detenzione, costringendole a subire abusi di ogni tipo. Similarmente, se l’intenzione dell’Italia fosse quella di “impedire le morti in mare”, più che inasprire le pene nei confronti dei cosiddetti scafisti, promuoverebbe riforme e provvedimenti volti a garantire vie sicure per tutelare il diritto alla libertà di movimento. 

La nascita di figure come facilitatori o intermediari, di scafisti o di presunti tali, non è altro che la conseguenza della chiusura sistematica dei confini e degli ostacoli insormontabili che impediscono di affrontare un viaggio in sicurezza. Tuttavia è lo stesso apparato legislativo in materia (dal reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina del Testo Unico sull’Immigrazione italiano al Facilitation Directive dell’Unione Europea) che criminalizza – anche in assenza di coercizione, violenze, abusi – qualsiasi tipo di assistenza alle cosiddette migrazioni “illecite” (rese però tali dall’assenza di alternative legali effettivamente percorribili). Ci troviamo di fronte a una discriminazione istituzionale basata sulla negazione del diritto di viaggio in cui una parte di mondo è costretta a rischiare la vita per tentare di raggiungere un altro Paese. 

E, nonostante questo, non bisogna cadere nello stereotipo di vedere le persone migranti semplicemente come “vittime inconsapevoli dei cosiddetti scafisti” (specie se non parliamo di casi di tratta). Come spiegano gli accademici ed esperti di immigrazione Tesfalem H. Yemane e Hyab T. Yohannes (entrambi ex rifugiati), in un dialogo, pubblicato sul sito dell’Università di Glasgow, sul ruolo di intermediari e facilitatori delle migrazioni, le persone migranti sono tutt’altro che inconsapevoli: “[…] dovremmo concettualizzare l’uso di intermediari come pratiche decoloniali in cui i rifugiati si impegnano a resistere, contestare e sconvolgere violenti regimi coloniali […]”.

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Oiza Q. Obasuyi

Sono attualmente contributor di CILD (Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili) per il progetto Open Migration. Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università degli Studi di Macerata), i miei articoli sono apparsi in diverse testate online come The Vision, Internazionale, Jacobin Italia. Mi occupo di migrazioni, diritti umani e razzismo sistemico.