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«La Straniera. Migrazione, asilo, sfruttamento in una prospettiva di genere» di Enrica Rigo

La restituzione di un incontro con l'autrice

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Venerdì 31 marzo, a Padova, presso Stria, uno spazio nato per tentare di rappresentare una forma nuova e sperimentale di “presidio sociale”, si è tenuta la presentazione del libro «La Straniera» di Enrica Rigo 1, docente di Filosofia del diritto all’Università di Roma Tre.

Vi proponiamo una restituzione di questo incontro con l’autrice curato da Federica Zenobio e Ilaria Serino.

Il diritto internazionale è per antonomasia maschio. La “neutralità” da cui propone di muoversi è una costruzione dei concetti e dei loro significati potentissima e non è semplice da smantellare; essa è capace di riprodurre forte staticità nelle pratiche giuridiche verso i confronti delle persone migranti e invisibilizza le esperienze singolari di queste ultime. “La straniera” nasce dall’esigenza di ripensare all’interno di una prospettiva di genere quelle pratiche politiche sorte a seguito del 2015, anno di migrazioni provenienti dalla rotta balcanica, dal Mediterraneo centrale e dalla Crimea, che hanno visto l’arrivo dirompente nel territorio italiano di tantissime donne migranti.

Nel libro l’autrice coniuga non solo il lavoro di ricerca svolto da essa stessa, ma anche l’esperienza del territorio di Ponte Galeria (frazione del comune di Roma), che ha visto la mobilitazione di diverse soggettività e realtà alleate tra cui i centri anti-violenza di Non una di meno, Clinica delle donne, casa delle donne Lucha y Siesta, a seguito dell’arrivo di 69 donne nigeriane nell’anno 2015, 19 delle quali rimpatriate nonostante avessero presentato richiesta d’asilo. Il legame della pratica politica di quegli anni, della lotta ai confini e della lotta al patriarcato è immediato, dimostrando come esista la possibilità di formulare un’accoglienza diversa da quella proposta.

Portare “la straniera” nel dibattito delle giuriste internazionali significa per molte disturbare la prospettiva neutrale della persona migrante, in quanto la mobilità delle donne impone di ripensare quei regimi di mobilità fatti su “misura d’uomo”. In tal senso, lo strumento teorico della straniera, non si arroga il diritto di sintetizzare in essa qualsiasi esperienza di migrazione femminile (come una dimensione politica dell’identità), bensì si situa in un’intersezione di assi come un dispositivo giuridico euristico.
Il libro “La straniera” e la sua allegoria quindi, ci permettono di riconoscere che il diritto internazionale è un diritto di costituzione coloniale e patriarcale attraverso un’analisi epistemologica.

a. Il diritto internazionale è patriarcale

Per capire la complessità della questione posta in esame è bene partire dal suo nucleo: il concetto di spazio.
Quando si affronta tale concetto è fondamentale non cadere in una essenzializzazione di una differenza di genere, che si rivela deviante e riduttiva nell’analisi di una tematica strutturale, dove lo spazio si configura come ambito di riproduzione sociale e in cui la mobilità si traduce in una decisione sulla vita (dove la autodetermino, riproduco ecc.).

I regimi di mobilità attuale sono strutturati sulla distinzione tra lavoro riproduttivo e produttivo. Il lavoro riproduttivo (chiamato anche lavoro di cura) non conta politicamente: naturalizzato come fardello di lavoro inscindibile dal soggetto donna, non ha valore tanto quanto il lavoro produttivo di un reddito dimostrabile (seppur entrambi siano accomunati dalla possibilità di essere espropriabili). La donna migrante – aka la straniera – esiste per il diritto internazionale in quanto soggetto dipendente dal reddito dimostrabile del marito.

La mole di lavoro informale svolta dalla donna non conta ed essa si ritrova imprigionata all’interno di una relazione di coercizione economica politicamente non rilevante, in quanto situata all’interno dello spazio riproduttivo (privato), alimentando così contesti di violenza. Il diritto internazionale è patriarcale, perché ha ribaltato i rapporti di dipendenza che esistono tra lavoro riproduttivo e produttivo: non è quest’ultimo a permettere il primo, ma il contrario. Non è il padre di famiglia che lavorando permette alla donna di preparare la colazione, ma è la donna, madre di famiglia, che preparando la colazione – e caricandosi del fardello del lavoro domestico – permette all’uomo di lavorare.

Riconoscere il lavoro riproduttivo all’interno del diritto internazionale non è una questione di emancipazionismo individuale, bensì di femminismo intersezionale. La straniera infatti, riportando le parole dell’autrice, è colei che viene e domani rimane.

b. Il diritto internazionale è coloniale

L’istituto della cittadinanza risulta essere una condizione essenziale nella riproduzione sociale, anche in vista della maggiore importanza e rilevanza acquisita dall’appartenenza nazionale. A fronte dell’attuale sistema di cittadinanza europea e nazionale, il diritto delle persone rifugiate costituisce il paradigma dell’eccezionalità dello straniero politico, per cui far entrare una persona all’interno di un territorio è effettivamente una deroga alla sovranità del governo che lo controlla nei confronti della vulnerabilità “meritevole” di protezione. La libertà di movimento è dunque una pratica decoloniale e anti-patriarcale che si oppone ai concetti statocentrici e patricentrici dell’ius sanguinis e del confine.

L’autrice parla di confini non solo in relazione al lavoro produttivo: essi non sono solo strumenti di moltiplicazione dei sistemi di produzione del valore sociale, ma anche della riproduzione sociale. Se non si adotta questa doppia prospettiva si rischia di non capire le dinamiche di sfruttamento che vengono perpetuate; nelle fabbriche, nei dormitori, nei ghetti, non avviene solo una compressione della vita della forza lavoro finalizzata alla produzione, ma avviene un vero e proprio controllo della vita tramite sistemi coercitivi della riproduzione di essa.

c. Vulnerabilità, vittima e vulnerabilizzazione

Nel 2011 la Corte Europea dei Diritti Umani definisce la vulnerabilità delle persone richiedenti asilo come quella condizione di completa dipendenza dallo stato per la soddisfazione dei propri bisogni. È una definizione per lo più oggettiva, iscritta all’interno della dinamica squilibrata di potere tra stato e individuo. La vulnerabilità in senso soggettivo tende, invece, ad individuare e ad elencare delle categorie di persone che hanno “special needs“. Che effetto ha definire delle categorie di selezione attraverso un “vulnerability kit”? Nel caso fattuale di un hotspot, ad esempio, il personale non è pronto a gestire le vulnerabilità, perciò esse vengono selezionate e raggruppate abbassando in tal modo il livello di accoglienza e di accettabilità della vita.

Per tale motivo, il genere diventa uno dei principali modi per individuare le persone e le necessità di cui hanno bisogno, la cui dignità viene preservata non attraverso una prospettiva di amputazione come quella del diritto, ma prendendosene cura; stando con il problema.

  1. Insegna Filosofia del diritto all’Università di Roma Tre, dove ha fondato la Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza. È autrice di numerose pubblicazioni su migrazioni, genere, cittadinanza, diritto di asilo e accesso alla giustizia, tra le quali Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Unione allargata (Meltemi, 2007), e curatrice di Leggi, migranti e caporali. Prospettive critiche e di ricerca sullo sfruttamento del lavoro in agricoltura (Pacini, 2015)

Federica Zenobio

Sono studentessa di Scienze politiche, relazioni internazionali e diritti umani presso l’Università di Padova.
Da diversi anni sono un’attivista e militante all’interno della rete dei centri sociali del Nord-est attraverso le sue diverse articolazioni tra cui l’ambito transfemminista (collettivo sQUEERt), universitario (collettivo Spina) e migratorio (Open your borders).