Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
Arrivando al centro di Tijuana dal porto d'entrata del Chaparral
/

Tijuana nera, migrante e libera

La prima parte del reportage «Tijuana. Fronteras, resistencias, sueños»

Start

Con questo reportage che pubblicheremo in più parti, Andrea Miti 1, ci racconterà di una città-frontiera complessa, contraddittoria, non semplificabile: Tjuana. Un racconto in presa diretta in cui leggeremo questa città da diverse angolature: «Tijuana è tutto questo. Ma è anche altro, perché ai margini e nei conflitti e nelle frizioni che abbiamo menzionato, fiorisce il cambiamento, la resistenza», scrive Andrea.

Il centro della città visto dalla periferia. PH: Andrea Miti

“Tijuana è una narcotrafficante, è una prostituta, è speranza”

Tijuana è una cornice mitica, nella quale si rappresentano tensioni, barriere, profondi abissi. In questo contesto le persone migranti si mescolano e si infiltrano in quegli stessi spazi, nei margini, in parte definendoli, in parte intrappolati, segregati, attori, creatori e spettatori, come tutti a Tijuana. Forse perché qui tutti sono migranti. È precarietà, cambiamento, instabilità. Una bomba che potrebbe esplodere.

La parola Tijuana porta con sé un enorme bagaglio di immagini che è quasi impossibile arginare. La sola parola fa scattare spesso un meccanismo per il quale subito sovviene un aneddoto o scaturisce un commento, un’opinione, un’esperienza riciclata, un sentito dire basato spesso sul niente, su ciò che è presumibilmente noto a tutti, familiare a tutti, su di un’immagine pop standardizzata di facile accesso e riferimento. Tutti possono attingerne e dire qualcosa: “Molto pericolosa, io lo so, vivo in California”, “Dovresti andare in giro armato a Tijuana”, “La vita notturna, tornerai stravolto”, “Vai al night club Hong Kong! cinquecento donne diverse solo per te”, “ Non puoi uscire per strada”.

Tijuana uccide. Se tanti scrittori hanno preparato qualche paragrafo o frase su Tijuana, è perché è più di una città, è una religione o una mitologia maledetta. Tijuana è una donna che fa impazzire, una donna che non si può dimenticare, né con le bugie né con gli insulti, una donna passionale e terribile, una città che si consuma e si distrugge2

Al di là di cosa ci possa essere di vero o falso in tutto ciò che viene perpetrato e alimentato sulla città, quasi mai le viene concesso il beneficio del dubbio. Una città condannata, persa.

Questo primo articolo vuole cercare di presentarla e menzionare due volti della città, uno della Tijuana condannata e l’altro di quella che resiste.

È la città più a nord-ovest dell’America latina, all’angolo più estremo del Messico, Baja California. Dove finisce e inizia la patria per i Messicani. La città, vista da una mappa, sembra essere cresciuta direttamente dalla frontiera. Una città nata perché separata da San Diego, il suo specchio irraggiungibile. Arrivando da San Diego al porto di ingresso di San Isidro si osserva uno spettacolo insolito, soprattutto di sera: Tijuana dall’altra parte, con i suoi monti, le sue fitte luci, sembra incombere come un’onda gigantesca, come se la città tutta cercasse di saltare la frontiera o ingoiarla. Dalla periferia di San Diego è separata da un di muro di metallo arrugginito che attraversa letteralmente mari, deserti, città, fiumi, montagne e persone. Probabilmente non ci sarebbe stata una città senza la frontiera.

“Tijuana è la capitale della California Wanna Be”

Avenida Revolucion nel centro di Tijuana

Ho sentito dire da alcuni che “ Tijuana è il quartiere peggiore di San Diego” o che “la colonia migliore di Tijuana è San Diego”. Girare per la città trasmette effettivamente l’idea di essere in una città californiana: a tratti le sue strade ricordano Los Angeles, ampie, veloci, e c’è tutto ciò che troveresti vi troveresti, i negozi, i bar, le attività commerciali che pullulano in ogni dove. Spiccano in particolare officine, gommisti, dentisti, farmacie che sembrano discount da quattro soldi. La combinazione insolita salta all’occhio. Però tutto, salvo alcune eccezioni, sembra sciupato, squallido, bruto, scarnificato, primitivo, privato di qualunque senso estetico o di pudore. Il capitalismo in una delle sue espressioni più violente, quotidiane. La avenida revolución, la strada “turistica” del centro, sembra meno decadente, ma la sua attrattiva di fatto sta nella sua falsità, piena di bar, night club, ristoranti, negozi di paccottiglia per turisti.

“Tijuana non è una città. È ciò che accade a una città. Tijuana è una condizione post-urbana. Tijuana è ciò che accade quando i contrasti esplodono. Quando le lotte delle attrazioni e delle resistenze sono diventate quasi impossibili”.

La costruzione ruba continuamente spazio a centri comunitari e parchi pubblici, che scarseggiano. Il primo grande shock, margine, è dato dall’incontro tra una cultura nella quale la famiglia e la comunità hanno un certo peso e l’individualismo del dollaro. Ma la città è sincera, è vera, non cerca di nascondersi, è spontanea, così com’è. “Asi como se presenta” come un cronista di lucha libre messicana la presenterebbe mentre sale sul ring. Sempre tra i primi posti della top ten delle città più pericolose al mondo 3. Ma se si guardano bene i numeri la città non ha nulla da invidiare ad altre località della stessa regione. Nell’immaginario collettivo però è tutt’altro. È sempre stata quello che è, e quello che vorremmo che fosse. La città è quello che le hanno sempre detto di essere, quello che hanno scritto su di lei, quello che ci si è immaginati. L’idea che ne ha definito i contorni e forse il suo destino è nata prima che ci fosse una vera città. Le sue varie rappresentazioni più o meno realistiche l’hanno messa in piedi.

“Tijuana è stata creata con la forza, come una vergine che, il giorno dopo essere stata stuprata, deve assumere il ruolo di signora”.

La città ha poco più di 100 anni. E’ nata ed è cresciuta sotto la spinta di investimenti nordamericani. Nell’anno 1900 era un villaggio di poco più di 200 abitanti, e già allora, si narra, erano presenti più cantine che persone. Nei primi 20 anni del 900 si è imposta nell’immaginario collettivo, soprattutto negli Stati Uniti, come il luogo di svago per eccellenza, centro di divertimenti per attori hollywoodiani, marinai del porto di San Diego, nordamericani in cerca di una via di scampo dalla morale e dal proibizionismo. Costruita e gestita dalla Mafia, letteralmente. Si trattava a tutti gli effetti di una città messicana pianificata da nordamericani per nordamericani 4.

Tijuana trovò la sua ragion d’essere nello stare fuori, nell’essere all’esterno di qualcosa, nell’essere il contrario. Una città che è nata e cresciuta solo per essere al margine di un mondo teoricamente giusto, sano, in cui regna giustizia e morale, ovviamente dal punto di vista degli statunitensi. Come l’inferno, la città condannata, rispetto al paradiso, la città degli angeli.

La crescita della sua leggenda nera è stata inarrestabile. La città è usata come riferimento per descrivere posti anche peggiori. Altre Tijuane. Tale era la fama legata al suo nome che qualcuno propose di cambiarlo. Non funzionò 5. Si arrivò anche a registrare il nome della città, per evitare che nuove produzioni non facessero altro che affermarne ancor di più un’idea sbagliata di Tijuana, quelli che erano ormai anche stereotipi, falsi miti, pregiudizi 6. Le attività del cartel, la corruzione, le rapine per le strade, la prostituzione, i delitti commessi alla frontiera, agli occhi di molti, non facevano altro che comprovare quanto già era stato detto. Una città pericolosa, dissoluta. Tutto qui sembra avesse un significato diverso. Si tratta della frontiera più attraversata al mondo, sotto il perenne occhio della stampa nazionale e internazionale, che è sempre intenta nel catturare le manifestazioni di quello che ormai è uno spettacolo, davanti al quale, come suggerisce Heriberto Yepez in Tijuanologias, si è spettatori e mai responsabili.

Una città di migranti

Persone in attesa di attraversare la frontiera dopo aver ottenuto appuntamento attraverso la applicazione CBPone, porto di entrata de El Chaparral.

La vicinanza promiscua con la California, gli investimenti stranieri, il turismo, il flusso alla frontiera, hanno reso questo luogo una meta prediletta per molti messicani e stranieri. E’ difficile incontrare in città dei “Tijuanenses” da più di una generazione. Da tutto il Messico sono arrivati a lavorare e a costruire la città che è oggi. C’è lavoro, e tanto. Gli stipendi sono più alti, anche se li segue il costo della vita. La gente arrivava e, se non trovava dove stare, costruiva la propria casa dove poteva. Interi quartieri sembrano nascere ancora oggi dalla terra e dai detriti, con fondamenta fatte di copertoni d’auto, case fatte di lamiera o addirittura cartone su un terreno instabile.

La città continua a espandersi. Cambia faccia rapidamente. Grattacieli dove prima non c’era niente. Piazze commerciali dove prima c’era l’argine abbandonato del fiume e le baracche degli ultimi arrivati. Ospedali privati enormi si addossano in prossimità della frontiera, per statunitensi in cerca di cure mediche a basso costo. Le grandi fabbriche e le industrie nelle zone est della città richiamano grandi quantità di forza lavoro, in un polo industriale sterminato.

Una città di arrivo, ma anche di transito. Ci sono persone da ogni angolo dell’America Latina, grazie al grande potere di attrazione che gli stati uniti d’America esercitano. Tijuana è la frontiera del mondo.

Dall’altro lato, l’apice dello “sviluppo” economico, del capitalismo, da questo lato, le conseguenze di tutto ciò. Il mondo intero. Se succede qualcosa in Afghanistan, incontrerai afgani, se succede qualcosa in Ucraina, incontrerai Ucraini, se succede qualcosa ad Haiti, incontri haitiani. Una diversità incredibile.

La migrazione tra Messico e Stati Uniti per gran parte del ventesimo secolo seguiva la domanda di manodopera a basso costo, più o meno regolamentata, negli stati del sud come la California. Non c’era una vera frontiera. La politica migratoria degli Stati Uniti d’America è andata via via restringendosi negli anni, promuovendo la criminalizzazione delle persona migranti. Alla frontiera si giustificarono maggiori spese nei controlli con una retorica quasi di guerra, contro la grande minaccia dei migranti senza documenti 7. Negli anni i finanziamenti e discorsi anti-migranti aumentano senza importare chi fosse alla presidenza degli Stati Uniti.

Vista del muro verso San Diego

Negli anni 90 inizia la costruzione del muro che oggi vediamo a Tijuana, sotto la presidenza di Bill Clinton 8. L’aumento delle restrizioni e il muro non hanno avuto come risultato la diminuzione di persone migranti che entravano nel paese senza documenti, ma ha provocato l’aumento dei morti, a causa della pericolosità delle nuove vie intraprese dalle persone per attraversare la frontiera 9. Chi passava per Tijuana decide di attraversare il deserto a piedi, e/o pagare ingenti somme a “polleros” e “coyotes”, o gruppi criminali “padroni” del pezzo di muro che si vuole oltrepassare.

Le necessità acuite e le nuove dinamiche restrittive fanno parte di un proficuo business di frontiera. Sulla strada che va all’aeroporto dalla colonia Libertad, una delle più antiche di Tijuana, che costeggia il muro dal lato est del porto d’entrata, si potevano notare le croci commemorative dei morti alla frontiera. Una fila molto lunga. Oggi è rimpiazzata da una specie di grafico dipinto sulle barre metalliche del muro, rappresentante le morti di persone migranti per anno.

Con l’aumento delle restrizioni aumentano anche le deportazioni

A Tijuana la maggior parte dei senza tetto parla perfettamente inglese. La deportazione consiste nella espulsione della persona senza documenti validi verso il suo paese di origine, normalmente a causa di un reato qualunque. Il castigo, la proibizione a ritornare, può essere da 5, 10 anni, o a vita, dipendendo del reato commesso, che in alcuni casi può essere irrisorio. Il risultato però è la rimozione forzata di persone che hanno vissuto anche la maggior parte della propria vita negli Stati Uniti. Queste persone in Messico spesso non hanno famiglia, non hanno una comunità, a volte neanche parlano la lingua. Non sono messicani, ne si sentono tali. Si tratta di una popolazione discriminata, anche dalle stesse autorità. Molti restano per strada, intrappolati nel abuso di stupefacenti, vivono nel “bordo”, la canalizzazione del rio Tijuana, o in alcuni quartieri del centro e della zona nord della città.

Negli ultimi anni la migrazione cambia, e questa città è un osservatorio prediletto del cambiamento. Le carovane di centroamericani, le ondate di Haitiani, sono espressione di questi cambiamenti. E’ evidente che non si tratta solo di migranti economici, ma si tratta di una migrazione con un obiettivo diverso, entrare legalmente negli Stati Uniti e richiedendo asilo. In moltissimi puntano a Tijuana, che è lontana, ma è un punto di passaggio per molti versi più sicuro di altre città di frontiera, per il grande numero dei centri di accoglienza e organizzazioni civili, e forse per la pericolosità delle altre città di frontiera, aumentata negli anni.

A questo si aggiunge pesantemente una grande popolazione interna proveniente da particolari stati del sud del paese, Michoacan, Guerrero, Jalisco, a causa dell’escalation della violenza degli ultimi decenni, che non accenna a dare respiro.

La guerra al Narcotraffico tra 2006 e 2012 in Messico, promossa principalmente dagli Stati Uniti d’America, induce un peggioramento sensibile delle condizioni di violenza nel paese. La cosiddetta guerra coinvolge gruppi criminali grandi e piccoli con polizia e forze armate in una lotta dialettica buoni contro cattivi che vede la linea di demarcazione tra i due estremamente sottile. Il risultato di questa operazione fallimentare, con significato più politico che pratico, è stato l’aumento della violenza. Nei centri di accoglienza a Tijuana forse più del 50% della popolazione è composta da famiglie messicane provenienti da queste regioni.

Di fronte al fenomeno, come accade in Europa, si oppone resistenza. Si inizia impedendo alle persone di richiedere asilo. La gente si ammassa al porto di entrata di Tijuana, il famoso “campamento del Chaparral”, dove centinaia di persone si accampano in attesa di poter richiedere asilo, fino al suo sgombero una mattina del febbraio del 2022 10. Il piano degli Stati Uniti prevede di fatto l’esternalizzazione della propria frontiera, nel quale il Messico è il cosiddetto terzo paese sicuro 11. Accordi tra i due paesi intrappolano le persone dal lato di Tijuana o alla frontiera sud, cercando di limitare al massimo il flusso di migranti stranieri.

A Tijuana ci sono più della metà dei centri di accoglienza dell’intera frontiera nord del Messico. Le condizioni del sistema di accoglienza in città cambia a seconda della politica di frontiera del vicino nordamericano. Il programma Migrant Protection Protocol, o anche detto “Quedate en Mexico”, si applicò tra 2019 e 2022. I richiedenti asilo dovevano aspettare le udienze e seguire il proprio caso di asilo aspettando in Messico, nelle città di frontiera, con risultati disastrosi, a causa delle condizioni di insicurezza e della difficoltà ad incontrare una rappresentazione legale valida in Messico 12. I centri di accoglienza in città si riempiono.

Poi arriva la pandemia. La frontiera chiude, e migliaia di persone restano intrappolate, nell’incertezza e nel mezzo di una crisi umanitaria.

Arriva il Titolo 42

Mentre in precedenza le persone potevano in teoria richiedere asilo direttamente alla frontiera, o consegnandosi alle autorità di frontiera una volta attraversata illegalmente, con il Titolo 42 questo è impossibile.

Una sorta di push back legalizzato. Intere famiglie passano mesi o quasi anni passando da un centro di accoglienza ad un altro, in condizioni sempre più precarie nell’attesa di uno spiraglio. I centri di accoglienza si saturano.

Nel 2021 alcune associazioni civili iniziano, attraverso concessioni del Custom and Border Protection (CBP), le autorità di frontiera degli Stati Uniti, a presentare casi di famiglie e persone migranti per il conseguimento di un permesso temporaneo chiamato parole umanitario, che diventata l’unica maniera di entrare nel paese e così iniziare un processo di asilo. La notizia che qualcosa si sta muovendo e che si debba stare in un centro di accoglienza per poterne approfittare arriva ovunque. La gente si ammassa sui marciapiedi di fronte all’entrata dei centri di accoglienza. Il flusso di persone che escono ed entrano è rapido.

Aggiornamento del numero di vittime del muro, colonia Libertad, Tijuana

Nel gennaio 2022 esce l’ultima misura. Il Titolo 42 sembrava dover sparire, però continua ad essere presente. La nuova misura del CBP prevede l’uso di una applicazione per smartphone chiamata CBP one, che mette teoricamente nelle mani delle persone migranti stesse il proprio destino. Le persone possono registrare i propri dati e cercare di prenotare un appuntamento alla frontiera e così richiedere il permesso umanitario. Un altro filtro, che vede ignorati i più vulnerabili, famiglie numerose, analfabeti, persone provenienti da comunità indigene, persone in pericolo reale con vulnerabilità specifiche che vengono totalmente appiattite. A Tijuana teoricamente il numero di persone che possono passare in un giorno sono duecento, perché duecento è la capacità del centro di detenzione del CBP a San Isidro. I centri si riempiono di nuovo al limite, in combinazione con l’arrivo di deportati Venezuelani, dopo accordi tra Stati Uniti e Messico.

“Tijuana està mareada”

Lavorare nel settore dell’accoglienza significa essere pronti a tutto, al cambiamento rapido. Migranti economici, poi i deportati che non hanno altra scelta che integrarsi, poi intere famiglie, haitiane, centroamericane, venezuelane, che non hanno nessun interesse a starsene qui, non vedono altra prospettiva se non quella di andarsene al nord. Le istituzioni si adattano a fatica, letargiche, e tutto ricade sulle associazioni civili e organizzazioni attive in città.

Purtroppo non è strano intravedere nelle politiche di frontiera, e nella gestione del fenomeno anche a Tijuana un’impostazione classista e razzista. Si preferisce spesso la detenzione all’accoglienza, criminalizzando la persona migrante. Si riempiono vere e proprie prigioni nelle città di frontiera.

Il caso di cronaca recente a Ciudad Juarez ha messo in evidenza la follia di tutto ciò. Sono morte almeno 40 persone, perché non sono riuscite ad uscire. Il fumo che le ha uccise si soffia anche sulle responsabilità. Non essere cittadino Messicano significa in genere essere più esposto a soprusi delle autorità, a ingiustizie e impunità, correre più rischi.

Purtroppo la frontiera non è uguale per tutti. Il tutto diventò evidente e ridicolo nella primavera del 2022, quando migliaia di Ucraini arrivarono in città, in fuga giustamente dalla guerra, mossi dalle stesse speranze di chi prima di loro si era presentato a questa frontiera. Centri statali normalmente semivuoti si sono riempiti, e piani di accoglienza si sono messi in atto rapidamente. Una “migrazione sofisticata” definita da alcuni, non comparabile con la migrazione di chi invece è lì da anni a quanto pare, il centroamericano, il messicano, l’haitiano 13. In pochi mesi le famiglie Ucraine ottengono un permesso speciale temporaneo che gli permette l’ingresso negli Stati Uniti. Senza tenere da conto la pandemia quindi né la capacità del centro di detenzione di san Ysidro. In pochi mesi, spariti. A dimostrazione che se si vuole accogliere, si può fare.

“Anche da questo lato ci sono sogni”
Esther Morales 14

Tijuana è tutto questo. Ma è anche altro, perché ai margini e nei conflitti e nelle frizioni che abbiamo menzionato, fiorisce il cambiamento, la resistenza.

Questa è portata avanti direttamente in quei margini da realtà, persone, migranti, associazioni che operano, che agiscono negli spazi di azione e ne creano di nuovi. Sulla linea di bell hooks 15, nel margine succedono davvero cose interessanti, le idee, l’ umanità e la sua rivincita, le azioni, il seme della rivoluzione, del cambiamento, della presa di coscienza, della resistenza. Tijuana è un piedistallo, sul quale le ingiustizie, i contrasti, l’umano contro l’inumano, gli spazi tra tutti questi elementi sono ingranditi, gonfiati a volte, allargati e vi si può entrare, spingere, fare leva.

Incrocio nel centro di Tijuana

E’ lì che si vuole portare lo sguardo, presentando esempi di resistenza dal basso, strategie comunitarie, che vedono persone e non numeri, che seppur in un sistema, quello dell’accoglienza, che non è da meno nell’approfittare e lucrare sulla migrazione e le sue necessità, lottano per creare le condizioni affinché le persone abbiano la loro voce e possano usarla in un sistema che le invisibilizza e dimentica, oggettifica, disumanizza. Il termine “migrante” una parola che ormai fino alla nausea perpetua come per la parola “Tijuana” un immaginario deleterio disumanizzante che vede le persone non protagoniste e attori ma oggetti persi negli ingranaggi della politica internazionale, delle istituzioni, della criminalità.

Chi opera e chi resiste negli spazi che abbiamo descritto vuole costruire una nuova narrativa della città. A Tijuana ci sono persone che la amano, ma anche persone che la odiano, che l’hanno scelta dopo averla odiata, o che l’hanno amata non subito. Ci sono persone per le quali è stata una madre accogliente dopo un lungo viaggio o un posto caro a cui tornare, o quel luogo in cui la dignità, seppur forse al margine, è stata loro riconosciuta.

Con questo reportage non si vuole concludere un discorso su Tijuana e sulle sue migrazioni. La multiforme natura della città non lo permette e non lo permetterà mai, si vuole piuttosto aprirlo un discorso, aprire una prospettiva, con molta umiltà. Ci si sente ad una finestra dalla quale si scorge una rappresentazione estrema del mondo.

Ad ogni angolo, con chiunque tu stia parlando emergono altre contraddizioni e punti e spunti di lotta, con qualcuno che quella lotta la sta già facendo. Si potrebbe raccontare delle comunità operaie dei quartieri della Tijuana Est, intorno alle fabbriche, ci si potrebbe perdere nelle storie dei deportati della comunità del bordo e della Zona Norte, si potrebbero analizzare le conseguenze del turismo, entrare nelle vie del centro e scoprire ancora di più. I centri di accoglienza, le organizzazioni, i progetti, le mense sociali, nascono e operano tra mondi che collidono. Si potrebbe parlare dei movimenti, di che significa femminismo a Tijuana, di che significa anarchismo quaggiù, e di quei movimenti che cercano continuamente di riempire quei margini che si ampliano altrimenti fino a divorare persone.

Si vuole cercare di presentare una Tijuana che guarda a se stessa e trova una identità che non è dall’altro lato, che non ha bisogno dell’altro lato.

Credo che se ci sarà una rivoluzione, è da qui che deve partire, è da qui che partirà
Un’amica, passeggiando nel centro di Tijuana.

Muro nella spiaggia di Tijuana

Nota: Le frasi virgolettate nel testo sono state tratte dal libro Tijuanologias di Heriberto Yepez

  1. Biologo di formazione, sono da anni attivista per i diritti umani, prima in Italia, a Bologna, e poi a Tijuana, in Messico. A Tijuana mi sto specializzando in migrazioni internazionali e collaboro a diversi progetti con associazioni civili per la tutela dei diritti delle persone migranti, lavorando in centri di accoglienza e con associazioni binazionali. In particolare, sono interessato a progetti comunitari con finalità educative e con un approccio di genere
  2. Le citazioni nel testo sono state tratte dal libro Tijuanologias di Heriberto Yepez
  3. The Most Dangerous Cities In The World, World Atlas
  4. Barumen, H. F. (2003). Tijuana la horrible: Entre la historia y el mito. El Colegio de la Frontera Norte
  5. Tijuana de Zaragoza, Carlos Sánchez – Zeta Libre como el viento (2018)
  6. Registran nombre de Tijuana como marca – El Sol de Tijuana (2018)
  7. History of immigration policy in the United States
  8. US-Mexico Border Wall
  9. El marcado aumento de lesiones y muertes entre quienes intentan saltar el “infranqueable” muro de Trump desde México a EE.UU – BBC (maggio 2022)
  10. Desalojan el campamento de migrantes en El Chaparral en Tijuana – The San Diego Union Tribune (febbraio 2022)
  11. The vertical border, documental
  12. The “Migrant Protection Protocols
  13. Tijuana para los ucranianos: los migrantes «sofisticados», Gatopardo (maggio 2022)
  14. “De este lado también hay sueños”: La historia de Esther Morales, Alma Migrante
  15. Hooks, B. Yearning Race, Gender, and Cultural Politics (2nd ed.). Routledge