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Ventimiglia, alcune note sull’operazione “Pantografo”

La guerra mediatica ai trafficanti come strategia assolutoria degli Stati-nazione

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Di 20K Genova

28 marzo 2023. Un elicottero della polizia sorvola il cielo di Ventimiglia, squadroni in tenuta anti-sommossa sotto il ponte delle Gianchette, unità cinofile dislocate lungo il fiume Roja. Questo il culmine dell’Operazione Pantografo, condotta dalle procure di Imperia e Nizza in collaborazione con la polizia di frontiera italiana e la Paf (Police aux Frontières) francese, con l’obiettivo “di ricostruire […] i contatti con i migranti a Ventimiglia ovvero il modo con cui venivano reclutati; le modalità con cui venivano fatti salire sui treni” (Alberto Lari, procuratore di Imperia).

Secondo le informazioni diffuse dalla stampa (le ultime datate al 29 marzo 2023) sono sedici le persone fermate con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, delle quali tredici sono colpite da misure cautelari. Tuttavia, secondo le osservazioni dellə attivistə in frontiera, resta forte il sospetto che i dati relativi agli arresti siano gonfiati in ragione di una celebrazione dell’operato delle forze dell’ordine e di una legittimazione pubblica della cospicua mobilitazione di mezzi e risorse.

Basta guardare il video pubblicato dalla polizia a promozione dell’operazione: la messa in scena della potenza muscolare delle forze dell’ordine, e l’allestimento di un glorioso dispiegamento di mezzi atti a stanare loschi personaggi che si nascondono nel buio dei loro covi malsani. Il tutto montato come fosse il trailer dell’ultima stagione di CSI. Il ritmo delle immagini, le dichiarazioni più pubblicitarie che pubbliche delle autorità, riproducono la vecchia retorica del migrante come “pericolo per lo Stato”, e chi guarda da casa non ha tempo di chiedersi perché uomini e donne siano costrettə a vivere sotto un ponte, cosa aspettino nascostə in case abbandonate, perché indossino vestiti lisi e stracciati, perché siano dispostə a rischiare la vita aggrappandosi al pantografo di un treno per attraversare un confine.

Per chi conosce quel territorio l’operazione condotta dalla procura è chiara: più che ricostruire i fatti si tratta di aggiornare la narrazione che vede i trafficanti come la piaga in suppurazione che infetta la limpidezza dei nostri confini, additare pubblicamente gli smugglers come i soli responsabili della morte delle persone in transito. Questa sceneggiatura militaresca non esibisce tanto una sicurezza raggiunta, ma finisce per legittimare il processo di securitizzazione dei confini; è una giustificazione pubblica per l’investimento militare a protezione dell’integrità nazionale. Il meccanismo così innescato si alimenta circolarmente riproducendo se stesso. La responsabilità delle morti, del fatto di trovarsi intrappolati al confine, è delle persone che hanno il vizio di mettersi nei pasticci da sole.

Di fronte alla risonanza mediatica di cui è investita la figura dello smuggler, sovrapposta a quella del trafficante di esseri umani, pensiamo sia urgente iniziare un processo di decostruzione del reato di favoreggiamento, sempre più utilizzato come parola magica per deresponsabilizzare l’operato dello Stato sulle frontiere di mare e di terra. Decostruire la narrazione e la retorica sulla figura del cattivo scafista o passeur diventa perciò urgente per restituire la complessità del reale.

Durante gli sbarchi, anche quelli più tragici come quello di Cutro del 26 marzo 2023, ancor prima di concludere le operazioni di salvataggio, si inizia la caccia allo scafista, spesso identificato con chi conduceva la barca. Il “chi stava al timone?” ancora prima del “siete tuttə vivə?” è alquanto significativo.

Scafista, trafficante, contrabbandiere, in italiano. Smuggler, trafficker, in inglese; passeur in francese. I termini per designare questi fenomeni sono molteplici – ognuno con le sue accezioni e sfumature – ma nel linguaggio mediatico le loro differenze vengono appiattite e i loro significati omologati.

Il meccanismo in atto è chiaro: c’è necessità di eleggere il cattivo, il capro espiatorio della storia e addossargli la responsabilità delle morti di frontiera.

Questo meccanismo (mediatico, giudiziario, politico) permette una deresponsabilizzazione degli Stati e l’attribuzione di colpa a chi, spesso, non ha modo di difendersi. A questi viene ascritta anche la forma di disumanità più assoluta: l’aguzzino senza scrupoli che sfrutta e uccide i propri fratelli e le proprie sorelle, lə proprie connazionali.

Quella che il governo Meloni sta utilizzando come grimaldello retorico rispetto alle questioni migratorie è la stessa narrazione che esiste a livello europeo, recentemente inserita nel nuovo patto sulla migrazione e l’asilo della Commissione europea: “dobbiamo fermare i trafficanti” il nuovo mantra. Se provi a ripetere la frase cento volte va a finire che ci credi. O, almeno, finisce a crederci chi viene bombardato di immagini-cartoline e parole-slogan dagli schermi televisivi.

Se guardiamo ai numeri delle persone in carcere per reati di favoreggiamento e di traffico di esseri umani a livello italiano ed europeo, il dato è sbalorditivo. In Grecia, ad esempio, secondo i dati portati alla luce da “Kathimerini”, il 20,8% dei detenuti nelle carceri sovraffollate del Paese è sotto processo o condannato per traffico di migranti. Il loro numero ammonta a 2.223 su un totale di 10.678 detenuti. Quasi eguagliano il numero di coloro che scontano pene detentive per traffico di droga (2.508), che storicamente rappresenta la categoria di detenuti più numerosa.

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai detenuti per “traffico di essere umani” negli ultimi anni non sono pubblicamente accessibili. E questo potrebbe dirci già qualcosa a proposito della trasparenza delle indagini. Tuttavia, in riferimento al report “Dal Mare al Carcere1 l’indicazione di incidenza dei fermi rispetto al totale degli arrivi per il biennio 2018-2019 risulta essere 1:100. Tenendo a mente questo dato potremmo anche sospettare che, in ragione dell’investimento mediatico sulla criminalizzazione dei trafficanti – preludio all’inasprimento delle pene previste per tale reato dal decreto-legge 10 marzo 2023, n. 20 – e dell’aumento dei numeri di persone in transito arrivate via terra e via mare, i fermi per reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina siano migliaia.

Così, dati alla mano, vale la pena chiederci ancora “quale reato si imputa al trafficante, quale colpa?”. La risposta è tanto banale quanto poco scontata: la violazione della sovranità statale.

Il bene giuridico tutelato dall’art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione, che inquadra il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è il mero interesse dello stato a regolamentare i flussi migratori. Le elevatissime sanzioni penali previste, variabili a seconda delle aggravanti che si applicano nel caso concreto, pongono non pochi problemi di legittimità costituzionale. Eppure l’art. 12 TUI continua ad essere modificato dai governi in senso repressivo, da ultimo con il decreto adottato all’indomani del naufragio di Cutro. E questo sulla base di una narrazione politica e mediatica che da anni volutamente confonde il “il favoreggiamento dell’attraversamento illegale dei confini” (smuggling) con la “tratta di essere umani” (trafficking), creando una figura dai contorni sfumati che assume il ruolo di nemico collettivo, cui addossare tutte le responsabilità e condannare a pene esemplari.

Sappiamo però che la frontiera è un business e che le narrazioni sui migranti illegali contribuiscono a mantenerla attiva e produttiva. Sappiamo anche come la frontiera sia diventata un luogo di sperimentazione di tecnologie biometriche, di affinamento di tecniche di identificazione, spazio in cui si ridefiniscono i negoziati e le gerarchie di potere tra gli Stati Nazione: la fluidità per l’importazione e l’esportazione delle merci si paga al prezzo di un aumento di controllo sul movimento delle persone senza documenti. Così, più la frontiera diventa impermeabile al passaggio di persone più il prezzo da pagare è alto, misurabile in quantità di denaro speso, in ore di lavoro in regime di sfruttamento, in prestazioni sessuali (eppure, della tratta non si parla mai, guarda caso: non dovrebbe far parte anch’essa delle pratiche di traffico? Della loro forma più brutale e violenta?).

Eppure, nonostante la frontiera sia organizzata come un dispositivo di controllo del movimento, le persone sono passate e continuano a passare. Sullo sfondo di una frontiera che alimenta dispositivi di morte dellə indesideratə si continuano a ricamare vie di fuga: brecce nel muro aperte in modo rocambolesco o reti più strutturate, create per soddisfare un bisogno, che è allo stesso tempo desiderio di vita e rifiuto di essere rifiutatə.

La frontiera così diventa anche un mercato del passaggio, e la conseguenza della crescente militarizzazione, del rafforzamento dei dispositivi di controllo del movimento, si traduce in una professionalizzazione delle persone che aiutano ad attraversarla. Gli smugglers.

Nel nostro tentativo di controcondurre la narrazione sui trafficanti non intendiamo invertire la loro criminalizzazione per farne una romanticizzazione che sa di rimozione. Sappiamo bene che ci sono uomini e donne che vendono “passaggi” attuando meccanismi coercitivi e di violenza, di vero e proprio traffico umano, ma ci sono molte persone che diventano esperte nel sapersi muovere nello space in beetween tra gli Stati Nazione – spesso per aver tentato di attraversarlo più volte senza riuscirvi -, che offrono la possibilità di andare da una parte all’altra a costi equivalenti al biglietto del treno che pagherebbe un normale cittadino europeo (i “passeur” arrestati a Ventimiglia il 28 marzo sono accusati di aver riscosso cifre che vanno da 30 ai 200 euro). Il punto non è criticare la narrazione omologante dell’UE in materia di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per decriminalizzare lo smuggler e ridisegnarlo come eroe del confine, ma far emergere la frontiera come processo in continua ridefinizione, come spazio di riterritorializzazione politica tra violenza istituzionale e pratiche di soggettivazione.

In riferimento al territorio di Ventimiglia, l’attraversamento del confine sotto pagamento è una pratica che si avvia in modo quasi spontaneo, per poi diventare, parallelamente ai processi di border reinforcing, una rete strutturata di economia del traffico, che si innesta sulle reti della ‘ndrangheta, entra in conflitto coi gruppi solidali, e riscrive le tracce che altri passaggi hanno lasciato nella storia di quel confine. Dal 2015 ad oggi, il passaggio diventa pratica sempre più individuale e quindi monetizzabile; questo processo avviene parallelamente alla criminalizzazione e allo sgombero delle forme di vita auto-organizzate da migranti e solidali, dove fra mille contraddizioni, gli attraversamenti venivano pensati e agiti collettivamente, anche come pratica politica di contestazione del regime di frontiera europeo.

Vista la complessità di contrari compresenti che abitano la frontiera possiamo pensarla come spazio vivente e vissuto piuttosto che linea da attraversare; o se si vuole, come un campo di battaglia in cui molti attori – trafficanti, poliziotti, sfruttatori, persone in transito e gruppi solidali – giocano il loro ruolo, inventano tattiche, entrano in conflitto e immaginano strategie in reciproca ridefinizione.

Alla luce di queste considerazioni, è urgente la necessità di ribaltare la narrazione che gli Stati fanno degli smugglers, invertendo l’attribuzione di responsabilità su chi sia causa di morte delle persone in transito, tanto in mare quanto in terra. Potremmo infatti chiederci chi costringe le persone a rischiare la vita per passare una frontiera? Chi nega il loro diritto al movimento? Cosa vincola le persone in transito a logiche di sfruttamento per racimolare i soldi necessari a passare? Se i cosiddetti smugglers hanno tutto l’interesse a che i loro clienti giungano a destinazione dall’altra parte, chi crea gli ostacoli al loro passaggio? Forse, se le persone muoiono fulminate sul pantografo di un treno diretto a Mentone, chi è davvero sanzionabile non è lo smuggler che ha dato la “dritta”, ma chi condanna le persone a doversi servire di quel passaggio come unica via per attraversare la frontiera.

  1. Il rapporto è pubblicato da ARCI Porco Rosso e Alarm Phone con la collaborazione di Borderline Sicilia e borderline-europe