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PH: Manu Ureste
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«Vivere in strada è duro, non sai chi ti vuole fregare»

Un reportage di Animal Político da Ciudad Juárez al confine tra Messico e Stati Uniti

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Ad un mese dall’incendio nel centro di detenzione di Ciudad Juárez nel nord del Messico che ha provocato la morte di 40 persone e il ferimento di 25, pubblichiamo questo approfondimento curato da Manu Ureste ed Ethan Murillo su Animal Político il 10 aprile 2023.
In queste ore un nuovo video diffuso da El Diario de Juárez, conferma le negligenze e le omissioni commesse dal personale dell’Istituto Nazionale di Migrazione (INM).
Le immagini sono state catturate dalle telecamere di videosorveglianza all’interno dell’area di detenzione, così come nelle aree sorvegliate dagli agenti federali.
Mostrano anche un gruppo di persone migranti sorvegliate da agenti dell’INM che camminano con le mani ammanettate dietro la schiena.

La traduzione dell’articolo è di Mara Girardi, una nostra collaboratrice che vive a Città del Messico.


Negli ultimi due anni, l’arrivo di migranti venezuelani in questa città di frontiera è aumentato e adesso si contano a migliaia. Sistemati in accampamenti improvvisati, questi migranti raccontano le difficoltà che affrontano per sopravvivere e la loro rabbia per l’incendio di un centro di detenzione dell’INM (Istituto Nazionale di Migrazione), che ha provocato 40 vittime.

«Guarda, amico, io mi sono salvato per tanto così», racconta Wenceslao, giovane venezuelano di 24 anni, alto, slanciato, capelli ricci che pettina allo stile afro, alza la mano e mostra all’obiettivo lo spazio impercettibile tra l’indice e il pollice, dove non entra nemmeno una mosca -. «Quella notte mi sono salvato per un soffio. Perché non stavo negli incroci e nei semafori a chiedere soldi. Perché se fossi stato lì, Migrazione avrebbe arrestato pure a me, com’è successo al mio amico. E sarei morto come lui: asfissiato e bruciato vivo come un animale».

Il suo amico era il venezuelano Rannier Requena, di 29 anni, padre di famiglia e migrante. È anche lui una delle 40 vittime fatali che, fino ad ora, è costato l’incendio nel cosiddetto ”Alloggio Provvisorio” dell’Istituto Nazionale di Migrazione (INM) a Ciudad Juárez, Chihuahua, la notte di lunedì 27 marzo. Un avvenimento per cui, a due settimane di distanza, sono stati arrestati ed incriminati una persona migrante, accusata di aver iniziato l’incendio, tre agenti dell’INM e uno dell’impresa di vigilanza privata 1.

«Quelli di Migrazione erano molto bruschi, aggressivi – ricorda Wenceslao -. Quella notte stavano facendo operativi negli incroci della città e arrestavano migranti, senza nemmeno guardare se avevano o no i documenti in regola. Li hanno sbattuti dentro, in quel posto che è una prigione, e i migranti hanno dato fuoco a un materasso per la disperazione e il timore che li deportassero. Ma poi le guardie non hanno aperto le celle e sono bruciati come cani».

Il venezuelano porta al collo la foto dell’amico con cui ha attraversato l’America Latina a piedi, in furgoncini, in autobus scalcagnati, e sul treno merci che chiamano “La Bestia”. L’osserva per alcuni secondi, in silenzio.

«Abbiamo lasciato il Venezuela in cerca di un futuro migliore, perché lì ormai non si può più vivere. Ci sono successe cose orribili lungo il cammino che ci ha portati fin qui, e guardi, eccolo là il futuro», e solleva il lungo braccio destro puntando l’indice, e gli occhi neri colmi di rabbia, verso il centro di detenzione.

Proprio qui, una pick up del Gruppo Beta dell’INM e l’insegna annerita del Ministero degli Interni sono testimoni muti di quanto accaduto.

«Qui le fiamme hanno mandato in fumo un sogno … molte vite sono finite quando erano appena a pochi passi dalla meta» – e lo sguardo del migrante adesso scorre verso la collina dove, dall’altro lato della barriera alta vari metri che segna la frontiera, nella vicina città di El Paso, si accende la “stella solitaria” che rappresenta lo stato del Texas-. «Per me questo è stato un assassinio, don” – dichiara Wenceslao afferrando di nuovo tra le sue mani la foto dell’amico Rannier-. «Non ci sono altre parole per dirlo. È stato un assassinio di migranti».

Una settimana dopo l’incidente nel centro di detenzione dell’INM, nella notte di lunedì 3 aprile, le fiammelle delle candele continuano a tremolare sotto una piccola tenda che le protegge del forte vento che solleva tonnellate di polvere e di sabbia del deserto tutt’intorno a Juárez. Vicino alle candele ci sono rose bianche sparse sul marciapiede che circonda il centro di detenzione, al cui interno, nel parcheggio, si scorgono ancora le scarpe delle vittime abbandonate sul pavimento.

INMferno” recitano i cartelli che ancora svolazzano al vento appesi alle spesse sbarre di ferro che custodiscono l’edificio federale.

Lì davanti, sul lungo marciapiede che costeggia via Generale Rivas Guillén, vicino ad un parcheggio che i migranti utilizzano per proteggersi dal sole cocente – nonostante assicurano che di notte l’entrata non è permessa -, un gruppo di venezuelani chiacchierano tra di loro fumando, in attesa che scenda la notte.

Non si tratta dell’unico accampamento di migranti improvvisato in città. Nel Centro Storico, per esempio, nei dintorni della Cattedrale, così come nel viale 16 settembre, nello spazioso marciapiede centrale, vicino ad un vecchio edificio di Pemex 2, e ad alberghi di un altro secolo, con facciate fatiscenti, o nel parco del monumento a Benito Juárez 3 – il luogo simbolico dove l’allora candidato Andrés Manuel López Obrador iniziò la sua campagna elettorale verso la presidenza del Messico nel 2018 -, è comune vedere migranti, soprattutto venezuelani, lavare i vetri delle macchine nei semafori, in cambio di qualche moneta, oppure vendere bottigliette d’acqua, sigarette, ed altre piccole mercanzie varie.

È una cartolina, dicono gli abitanti del luogo intervistati nell’alveare di gente che scorre per le strade del centro storico, che solo un paio di anni fa era inusuale in città, nonostante Juárez sia storicamente sempre stata una città di migranti, sia di andata che di ritorno. Lo dimostrano anche le statistiche ufficiali, almeno quelle relative alle detenzioni – l’unico metro affidabile con cui si possono misurare queste tendenze: in tutto il 2021, l’INM ha registrato nella frontiera di Juárez l’arresto di quattro persone migranti del Venezuela. Solo in un anno, nel 2022, la cifra è salita a 2.133, portando il Venezuela al secondo posto delle nazionalità per numero di arresti, secondo solo al Guatemala. E solo a gennaio e febbraio di quest’anno, 2023, l’INM ha già arrestato 1.469 venezuelani, più della metà delle detenzioni di tutto il 2022.

Perciò, nel crogiolo di nazionalità che oggi popolano Juárez, è ormai comune sentire espressioni come “chamo”, “pana” o “arrecho4, per le strade di questa città che alcuni cominciano a chiamare, con un certo senso dell’umorismo, “Juarezuela5.

Santiago González, direttore di Diritti Umani del municipio di Juárez, e direttore del centro d’accoglienza municipale Kiki Romero spiega che, a partire dall’entrata in vigore negli stati Uniti del Titolo 42 durante il governo di Donald Trump, una misura che permette a questo paese di respingere in Messico migliaia di migranti mentre i suoi funzionari studiano se concedere o no asilo, è avvenuto “un cambiamento epocale nell’ambito della migrazione”, per l’enorme flusso di persone che stanno abbandonando paesi le cui crisi sono relativamente recenti, come il Venezuela, Haiti e il Nicaragua, che si aggiungono ai casi di sempre, cioè le persone provenienti dal Triangolo Nord del Centroamerica, con una novità che si aggiunge: i migranti messicani, specialmente originari di Michoacan, che fuggono dalla violenza e cercano di attraversare la frontiera a Juárez.

«Siamo di fronte ad un cambiamento epocale – insiste il funzionario municipale -. Adesso quelli che arrivano sono flussi molto consistenti, sono migrazioni diverse, la normativa è differente, e perciò abbiamo di fronte una fase della migrazione differente, e non possiamo aspettarci che diminuirà né, ancor meno, ovviamente, che sia destinata a finire. Perciò dobbiamo vedere come affrontarla con lo sforzo di tutti».

In un’intervista nei locali della palestra trasformati in un grande centro d’accoglienza per migranti, dotato di assistenza medica e di spazi per l’ozio e per l’educazione, una specie di mini-scuola per le/i più piccoli e di una biblioteca, González spiega che pochi anni fa, prima della pandemia, i flussi migratori che arrivavano a Juárez erano “molto differenti”.

«Honduras, per esempio… era una migrazione sempre presente in città, anche se quasi mai la notavamo: molto discreti, non si riunivano in gruppi grandi e non li notavamo. E lo stesso succedeva con i migranti del Guatemala e del Salvador».

«Invece adesso la dinamica della vita quotidiana di Juárez è stata bruscamente trasformata dall’enorme flusso di migranti provenienti dal Venezuela che aspettano dal lato messicano della frontiera una risposta del governo di Joe Biden, e da tanti altri arrivi, anche da paesi che tradizionalmente apparivano poco nelle statistiche ufficiali delle detenzioni, come l’Ecuador». È quanto sostiene il sindaco Cruz Pérez Cuéllar che, in un’intervista negli uffici del municipio, assicura che l’arrivo di migliaia di migranti ha significato una sfida, per le “tensioni” che si sono create in questa città di 1.400.000 abitanti.

«Ricevere un flusso di migranti così sostenuto ha rappresentato una sfida complessa perché ha dato inizio ad uno stato di tensione permanente. Noi, come autorità, cerchiamo sempre di mantenere un equilibrio tra il rispetto per i diritti umani dei migranti e il rispetto per i diritti dei cittadini di Juárez. Ma mantenere questo equilibrio si sta rivelando complesso».

Quando gli chiediamo che ci parli ancora delle “tensioni” in città, il sindaco ricorda che a novembre dell’anno scorso, per esempio, hanno smantellato un accampamento di venezuelani sorto spontaneamente lungo le rive del Río Bravo, proprio sulla linea di frontiera con il Texas, il che ha provocato molte critiche e accuse nei confronti del Comune, e, d’altra parte, irritazione tra i migranti che erano lì in attesa di una risposta del governo degli Stati Uniti , che doveva esaminare i loro casi di richiesta di asilo.

«Francamente io sono sempre convinto che abbiamo preso la migliore decisione – sottolinea il sindaco -. Perché, guarda, a Juárez c’è molto vento e in alcune tende rubavano la luce. C’erano attacchi alle linee elettriche precari e rischiosi, c’era benzina e sovraffollamento. Il nostro direttore di Protezione Civile ci ha messo in guardia sul pericolo di una tragedia e così abbiamo deciso lo sgombero».

Un altro momento di forte tensione, racconta il sindaco, è stato recentemente, il 3 marzo scorso. Quel giorno i giornali locali hanno riportato che elementi della polizia municipale avevano fatto irruzione con violenza nella Cattedrale ed avevano arrestato persone migranti senza rispettare i protocolli legali stabiliti e violando i diritti umani, denuncia sostenuta anche dalle autorità ecclesiastiche. Un evento in cui il sindaco ammette che sono stati commessi degli “eccessi”, per cui ha ordinato l’apertura di un’indagine interna sul comportamento delle forze di polizia.

«Lo sgombero dell’accampamento sull’argine del Río Bravo, io sì lo rivendico come una misura che ha evitato una tragedia. Invece, quanto avvenuto nella Cattedrale è stata un intervento sbagliato dei corpi di polizia, io stesso lo dico» afferma il sindaco che, allo stesso tempo, riconosce che le sue dichiarazioni pubbliche di condanna dell’azione della polizia hanno avuto l’effetto di rendere più spavaldi i migranti che, da quel momento, hanno “invaso” gli incroci e le strade della città, provocando malessere e addirittura denunce dei cittadini che assicurano di aver subito pressioni ed aggressioni, se rifiutavano di dare denaro. Da questa situazione sono scaturite, il 23 marzo, le polemiche dichiarazioni del sindaco ai mezzi d’informazione, in cui avvertiva che “la pazienza” della città era al limite. Affermazione che, nell’intervista con Animal Político, il sindaco riconosce come “poco felice”.

«Ammetto che si è trattato di una frase ‘poco felice’, però volevo semplicemente lanciare un massaggio di ‘stiamo calmi, ragazzi, contribuiamo tutti a stare in pace in questa città’, ma sono stato frainteso», risponde il sindaco, ed insiste che «la cittànon è xenofoba’ e c’è spazio nei 40 centri d’accoglienza, dove i migranti possono sistemarsi degnamente senza necessità di improvvisare accampamenti precari né di dormire nella via pubblica. Tuttavia – aggiunge – questa situazione si spiega anche per la ‘disinformazione’ che le mafie del traffico di persone si incaricano di far circolare». È evidente che qualcuno diffonde intenzionalmente false informazioni tra i migranti. «Così li convince a non muoversi da un certo posto perché ‘pare che gli Stati Uniti apriranno la porta e tutti potranno attraversare la frontiera’. Ma questo, ovviamente, è una grande menzogna».

Sono le 5:30 del pomeriggio di lunedì 3 aprile, proprio una settimana dopo la tragedia. Il sole implacabile della frontiera inizia la sua lenta discesa, disegnando una splendida cartolina arancione sul Ponte Internazionale del Paso del Norte, meglio conosciuto dai locali come Ponte di Santa Fe, uno dei quattro valichi che collegano (o separano) Ciudad Juárez ed El Paso.

Vicino al ponte su cui scorre un flusso costante di persone da e verso gli Stati Uniti, si trovano il municipio di Juárez, il centro di detenzione dell’INM incendiato e l’improvvisato accampamento dove decine di venezuelani dormono per strada, sulla nuda terra.

Dall’altra parte della recinzione metallica, i grattacieli della Wells Fargo Bank si ergono maestosi con le loro insegne luminose. E più vicino al piccolo argine che accompagna il corso del Río Bravo, che in questa zona della frontiera somiglia, più che a un fiume, ad un rigagnolo di acque torbide che separa i due paesi, alcuni marines annoiati fumano a bordo di vistose Humvees di color beige, di quelle che si vedono nei film sulla guerra dell’Irak, e un paio di operai comunali che posano nuovi chilometri di filo spinato con l’aiuto dei militari.

Sotto il Ponte Sante Fe, su un sentiero di terra battuta dal lato messicano, dove ci sono muri di cemento con graffiti che divulgano slogan come “La frontiera dove deve vivere Dio” e un piccolo capolinea di autobus risalente agli anni 70 conosciuto come Il Paisano, il venezuelano Wenceslao cammina a testa bassa a fianco ad un altro ragazzo alto, bianco di pelle e dai capelli tinti color biondo platino.

Occhio, amico!” – grida il ragazzo per dare l’allarme vedendo, in lontananza, un gruppo di tre persone sconosciute che cammina lentamente verso di loro.

Wenceslao, che sulle guance ha ancora i segni dell’acne e che di recente ha cambiato i capelli afro con delle trecce, si porta la mano alla fronte per proteggere gli occhi dal sole calante e, dopo essersi assicurato che gli “avvistati” non indossano uniformi di Migrazione, non sono poliziotti locali né della guardia nazionale, né soldati americani, risponde al suo amico di stare tranquillo, che non sono le autorità.

Subito dopo, alza le spalle ossute e spigolose – la maglietta nera che indossa è troppo corta, ma la sua magrezza ci balla dentro – e spiega con un sorriso timido, accarezzandosi la barba a pizzetto, che dopo l’incendio la sfiducia in qualunque autorità è massima. «La strada è dura» risponde con un marcato accento venezuelano, infilando tutte e due le mani nelle tasche dei bermuda con i colori della bandiera degli Stati Uniti. «La strada è molto dura» ripete in un sussurro. «Qui fuori devi dormire con un occhio chiuso e l’altro aperto perché non ti puoi fidare di nessuno. Non sai mai chi ti passerà vicino per fregarti o chi vuole arrestarti, metterti dietro le sbarre, e pum!, tutto è finito. Si ricomincia da capo».

Non è una sofferenza eccessiva? – chiede.

Wenceslao inclina la testa. Una porta arrugginita che segna la fine delle rotaie color ocra che corrono dal lato messicano verso quello statunitense, e viceversa, e sul quale c’è un cartello con la scritta “No border“, si apre lentamente per lasciare il posto a un enorme treno rombante carico di vagoni.

Ormai è troppo tardi per porsi questi interrogativi, sembra pensare il giovane migrante, che osserva lo scorrere del treno sulle rotaie.

«Soffrire lungo questo cammino è il prezzo che bisogna pagare» – si stringe nelle spalle come risposta -. «Ma chi non rischia non vince. E chi non persevera non raggiunge la meta» riflette filosofico.

Poi Wenceslao, che si guadagnava da vivere lavorando nella campagna, comincia a raccontare l’odissea che lo ha portato dapprima dal Venezuela alla Colombia e da lì al Cile, dove si è stabilito per un periodo finché non ha deciso che il suo futuro non era nel sud, bensì nel nord, negli Stati uniti.

Lungo il cammino, nel centro del continente, nel cosiddetto “Tappo del Darién”, una fitta zona di giungla tra la Colombia e Panamá dove i gruppi della criminalità organizzata hanno stabilito un ferreo controllo, il migrante racconta che aver sofferto molto per entrare e uscire vivo dalla giungla insieme al suo amico Rannier Requena, morto nell’incendio di Juárez. Anche se il peggio, precisa, non è stata la selva, ma quello che si sono trovati di fronte molti chilometri più avanti: il Messico.

«Siamo saliti sul treno vicino ad una discarica, in un posto che si chiama Huehuetoca (Stato del Messico). Da lì parti, dritto verso il nord. Abbiamo resistito 97 ore sul tetto del treno» – dice per sottolineare che ha contato una ad una le ore che è sopravvissuto appollaiato su quella cassa di ferro. «Fratello, fa davvero freddo lassù» – continua -. «Ti congeli le dita in questo modo» – e ritorce le sue lunghe dita come se fossero artigli di una creatura sinistra -. «E poi, a volte il treno si muove lento, dolce, ma altre volte sale sulle montagne procedendo deciso, duro», e adesso fa un gesto con le mani come un rettile che serpeggia tra le pietre della montagna, «E ti tocca sopportare, qualunque cosa succeda. Non puoi dormire e ti devi mantenere vigile per tutto il tragitto, per la mafia che ferma il treno e ti sequestra».

Per questo dice che gli fa molta rabbia quello che è successo nel centro di detenzione dell’INM, il luogo dove adesso passa la notte guardando con un’aria di profonda tristezza le decine di candele che illuminano le fotografie di quanti sono morti nell’incendio. Prima di tutto, dice, perché è stata una tragedia che si poteva evitare, se solo i guardiani avessero aperto le celle; e poi, gli fa rabbia perché tanti sogni come il suo sono stati stroncati quando ormai erano così vicino alla meta, dopo aver percorso 5.000 chilometri dal Venezuela a El Paso. Anche se, nel suo caso, sta cercando di rimanere con i piedi per terra nel tentativo di non perdere la meta finale, ha ancora molta strada da fare.

«Guardi laggiù», indica con il mento i marines dall’aria annoiata che camminano dall’altra parte della recinzione metallica, insieme ad una pattuglia della Border Patrol – «E pensi: Uff! Sono così vicino… ma, allo stesso tempo, sono ancora tanto lontano…»

Qualche istante dopo, continua.

«So che ho ancora molta strada da fare» aggiunge con lo sguardo rivolto agli agenti di frontiera – «E so che, per raggiungere il mio obiettivo, deve avere un altro po’ di pazienza. Perché se sono arrivato fin qui, ora non posso commettere errori ed essere rimandato indietro» risponde quando gli chiediamo se non gli è venuto in mente di attraversare la frontiera senza documenti, dopo un mese per strada, ad aspettare di ricevere, nella app della Dogana degli Stati Uniti, l’appuntamento delle autorità per esaminare la sua richiesta di asilo-. «Devo mantenere il sangue freddo» – insiste e appoggia l’indice sulla tempia destra – «Devo essere paziente. Solo così potrò tagliare il traguardo».

  1. Dal 4 aprile sono stati accusati di omicidio e lesioni 7 funzionari dell’INM, 1 vigilante di una compagnia privata ed un migrante. Dapprima è toccato a 3 agenti, cioè dipendenti di basso rango, dell’INM insieme ad un dipendente della compagnia privata di vigilanza e ad un migrante, poi il 13 aprile a 3 funzionari dell’INM di Ciudad Juárez, e il 16 aprile è stato arrestato il contrammiraglio Salvador González Guerrero, delegato statale dell’INM di Chihuahua. Nel frattempo sono stati incriminati anche il titolare dell’INM, Francisco Garduño, ed altri 5 funzionari a livello federale, ma imputati di un delitto minore “esercizio improprio del servizio pubblico”, che fa riferimento a negligenza e non implica la detenzione. Infatti non è stata nemmeno considerata la possibilità di una rimozione di Garduño dal suo incarico
  2. Petróleos Mexicanos, PEMEX, è l’impresa statale che produce, trasporta, raffina e commercializza petrolio e gas naturale
  3. Uno dei personaggi politici di maggior rilievo nell’epoca della formazione dello stato messicano, dopo l’indipendenza
  4. Latinoamericanismi usati in alcuni paesi, tra cui il Venezuela. Chamo indica un uomo giovane con cui si ha familiarità, come dire amico, con un senso di vicinanza e complicità, pana ha più o meno lo stesso significato, arrecho vuol dire audace, determinato, incurante del pericolo
  5. Combinazione di Juárez e Venezuela