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PH: Silvia Di Meo

Il caso di Akram Taamallah: dopo 4 anni il rimpatrio del corpo in Tunisia

Quando le esistenze sono sacrificabili non solo da vive, ma anche da morte

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Il corpo di Akram Taamallah, tunisino deceduto nel Mediterraneo nel tentativo di arrivare in Europa, è stato oggi finalmente riportato nella sua comunità in Tunisia dopo anni di pressioni e di lotte. Quella di Akram è infatti una delle tante “vite di scarto” a cui il regime di frontiera ha negato l’esistenza e alla cui famiglia non ha nemmeno concesso il lutto.

Fino all’11 maggio, Akram giaceva nel cimitero cattolico di Cefalù dove era stato sepolto nel 2019 a seguito del rinvenimento dei suoi resti sulle spiagge della costa nord occidentale siciliana. Era il 30 novembre 2019 quando  insieme ad altri cinque compagni di viaggio, Akram aveva preso la strada del mare dalle coste di Biserta. Coinvolto in un naufragio che gli fu fatale, non giunse mai a destinazione. Aveva 35 anni e due figlie piccole.

Il suo corpo è rimasto per ben quattro anni nel cimitero siciliano, ciò ha di fatto impedito ai familiari di recarsi in questo lungo tempo sul luogo della sepoltura. Sono stati necessari circa due anni di lavoro e di pressioni che abbiamo caparbiamente portato avanti per volontà della famiglia finché stamattina il corpo di Akram – ottenuti i nulla osta e le autorizzazioni – fosse disseppellito e preparato per essere rimpatriato e trasportato a Menzel Bourguiba, città natale dell’uomo. 

PH: Silvia Di Meo

Jessica, la moglie di Akram, è giunta dalla Germania per essere presente nel momento in cui il corpo del compagno lasciava la terra di Cefalù per riattraversare quel mare. In questi anni Jessica ha affrontato ostacoli di ogni tipo affinché ciò avvenisse, sostenendo anche tutte le spese necessarie all’esumazione e al trasporto del feretro. Infatti, quello di Akram è un corpo tra molti di cui né lo Stato tunisino né tanto meno quello italiano si sono fatti carico, scaricando oneri e responsabilità sulla famiglia. Grazie al sostegno di solidali, Jessica è riuscita in questi anni a raccogliere l’ingente somma necessaria alle procedure di estumulazione.

Davanti alla fossa aperta, che custodiva la cassa di legno, Jessica ha ripetuto più volte: «Sono felice, sono felice, aspettavo questo momento da tantissimo tempo». Jessica infatti ha lottato senza sosta in questi anni perché il corpo di suo marito potesse tornare tra i suoi cari, incapace di accettare che la memoria di Akram restasse sepolta in una terra così lontana ed estranea a lei, alle loro due figlie e alla sua famiglia. 

Poter finalmente vedere il ritorno del proprio compagno in una terra amata è stato motivo di gioia. Una felicità che non si comprende se non si conosce la durezza della privazione del lutto e della sua elaborazione, nonché il malessere provocato dal non riconoscimento prolungato della morte. Questo sollievo non è concepibile se non si tiene conto del fatto che il trattenimento di questi corpi da parte degli Stati è un’ulteriore forma di violenza che le famiglie devono sopportare dopo la morte in mare per mano dei confini. 

Invece, come ci insegna Jessica, nel riconoscimento della morte c’è un’espressione intensa della vita che ruota attorno alla materialità di un corpo, finalmente riconosciuto e restituito alla sua comunità. 

Prima di Jessica, anche Jalila – madre di Hedi e Mhadi, due dei compagni di viaggio di Akram – ha portato avanti la stessa battaglia in Sicilia per riprendersi i corpi dei propri figli, tra impedimenti burocratici e ritardi.

Jessica e Jalila – due donne unite dallo stesso destino – hanno dovuto infatti vivere la stessa lunga e complessa sfida che riguarda tutti i familiari delle persone migranti morte in mare, affrontando l’attesa di tempistiche lunghissime e modalità di gestione amministrativa contorte. 

Da un punto di vista legale, il percorso che ci ha portato alla giornata di oggi è stato costellato da mesi di rimbalzi da un ufficio ad un altro. Abbiamo affrontato la mancanza di risposte ufficiali, la mancanza di conoscenza della materia da parte degli uffici preposti, gli innumerevoli passaggi dall’ufficio di Stato Civile, i vari colloqui con il Consolato Tunisino per cercare di fare chiarezza, i numerosi contatti con la ditta di pompe funebri, fino ad intercettare, dopo tantissimi tentativi, la strada utile a rispondere alle richieste della famiglia in attesa. 

Il caso di Akram mostra il trattamento che gli Stati destinano alle persone migranti, alle esistenze considerate sacrificabili, non solo da vive, ma anche da morte: se da vive le persone migranti sono corpi su cui si esercita dominio e oppressione, fagocitati dalla macchina del contenimento e del respingimento, da decedute non hanno più valore e in questi casi il rimpatrio – che comporterebbe il riconoscimento delle responsabilità politiche – diventa un carico individuale delle famiglie verso cui lo Stato si mostra indifferente. Tuttavia, quei corpi continuano ad essere corpi politici che reclamano e rivendicano giustizia, attraverso le voci di Jessica, di Jalila, dei familiari, delle associazioni e della comunità alle due sponde del Mediterraneo che resiste a questa barbarie in corso.

I corpi di queste persone – disperse o morte in mare, seppellite con un codice o con un nome –  benché privati di diritti e della vita, continuano ad essere catalizzatori di un’azione rivendicativa, in un contesto in cui la naturalizzazione della morte e della sparizione in frontiera è accettata acriticamente. 

Invece, nella rivendicazione di quelle morti e nella ricerca di riconoscimento trova espressione la lotta dei sopravvissuti e delle loro famiglie: denunciare la violenza, ridare qualificazione storico-sociale alle vittime, chiarire la verità e fare giustizia, portare la memoria davanti alla frontiera è inevitabilmente un atto politico.

Nel cimitero di Cefalù – dove nel corso degli anni sono passate madri e sorelle a ricordare le vittime della frontiera del Mediterraneo – questo assunto resta chiaro. 

Oggi non possiamo che celebrare questo atto di giustizia compiuto insieme a Jessica: davanti alla violenza di questi crimini, ai tentativi di seppellire verità e responsabilità, alla brutalità delle necropolitiche europee, la memoria del Mediterraneo è viva e resiste.

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Silvia Di Meo

Sono antropologa, ricercatrice e dottoranda in Scienze Sociali, attivista antirazzista. Opero nell’area del Mediterraneo, in particolare in Sicilia e in Tunisia. Mi occupo di etnografia delle frontiere, delle mobilità e delle mobilitazioni migranti, oltreché dell’analisi delle politiche migratorie ai confini esterni ed esternalizzati. Sono attiva nelle reti nazionali e internazionali per la libertà di movimento e per il supporto alle persone migranti.

Mem.Med

Mem.Med - Memoria Mediterranea si occupa di ricerca e identificazione delle persone disperse nel Mar Mediterraneo, fornendo supporto legale e psico-sociale alle famiglie che cercano verità e giustizia. Mem.Med si occupa di monitorare e denunciare le violenze della frontiera e di costruire una memoria collettiva su quanto accade alle due sponde del Mediterraneo.