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La barriera tra Bulgaria e Turchia. PH: Simone Zito
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La frontiera di terra più violenta d’Europa

Un reportage dalla Bulgaria del Collettivo Rotte Balcaniche

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Sono stati i racconti delle persone in cammino, ascoltati in Serbia, in Bosnia, in Italia, a condurci in Bulgaria. Storie di respingimenti, di gabbie, di morsi di cani, di torture. Il tratto più duro, più violento della rotta europea di terra, che nell’ultimo anno è tornato ad essere attraversato come non si vedeva dal 2015.  È stata la tensione a seguire le vie migranti, a muoversi – noi che possiamo – con chi non può non muoversi. Una tensione politica ad essere presenti nei contesti di maggiore repressione ed invisibilizzazione, dove le Ong non arrivano, dove la violenza della polizia agisce indisturbata. Una tensione che ci spinge a rincorrere una frontiera sempre più violenta, sempre più distante. Una tensione che ci porta dove non ci vorrebbero, dove non dovremmo stare, all’estremo confine d’Europa: oltre le reti, è Turchia. 

In un primo viaggio esplorativo, durato dodici giorni, abbiamo parlato con molte e diverse persone: con chi è in transito, con chi aspetta i documenti, con alcune realtà locali che lavorano dentro e fuori dai campi governativi, con attivistə che da anni si battono in prima linea nelle lotte antirazziste e antifasciste, con persone comuni che di migrantə hanno solo sentito parlare, pur essendo spesso loro stesse protagoniste di altre migrazioni, talvolta verso l’Italia. Abbiamo potuto vedere – da fuori, non avendo l’autorizzazione ad entrare – i campi e i centri di detenzione che la Bulgaria e l’Europa riservano a chi viene catturato e costretto ad avanzare la domanda d’asilo. Abbiamo esplorato i confini bulgari particolarmente attraversati da questo primo tratto di rotta balcanica – quello con la Turchia a sud e quello con la Serbia a nord – per capire, ad una prima impressione, il dispiegamento di forze da parte della polizia di frontiera, il livello e le strategie di controllo. Quello che segue è un primo e parziale contributo alla comprensione del contesto bulgaro. Dei campi, dei centri di detenzione, e del nostro viaggio racconteremo meglio successivamente.

Il campo per richiedenti asilo di Harmanli, l’unico nel sud del paese, che ospita oltre 1.000 persone prevalentemente dalla Siria. PH: Simone Zito

Un fiume carsico, un territorio di transito

La Bulgaria è un territorio di transito. Pare un’ovvietà, ma non lo è per i regolamenti europei, che vincolano la vita delle persone al paese di primo approdo. Infatti, è molto raro che qualcunə lasci la Siria o l’Afghanistan immaginando o desiderando un futuro a Sofia e dintorni: nonostante siano passati 15 anni dall’ingresso della Bulgaria nell’Unione Europea, l’economia del paese e le condizioni di vita delle persone sono ancora distanti da quelle dell’europa occidentale. Appare evidente camminando per i marciapiedi dissestati della capitale, tra gli ordinati e decadenti palazzi di epoca sovietica, così come percorrendo le strade sassose e bucate delle immense campagne del sud.

La Bulgaria stessa è una terra di lavoratori e lavoratrici migranti: subito, conosciamo varie donne che parlano italiano, hanno lavorato molti anni in Italia nel settore della cura. Ci spiegano che lo stipendio medio è di 400 euro al mese, mentre i prezzi al supermercato sono “europei”. In Italia invece – raccontano -, quando lavori in casa riesci a mettere da parte tutto, anche 800 euro al mese.

La rotta migrante che attraversa il paese diagonalmente, da sud-est a nord-ovest, è un fiume carsico, invisibile, quando va bene. Il confine si passa a piedi, saltando o bucando la rete, poi sono dieci giorni di cammino, forse di più. Spesso dei furgoni o delle macchine velocizzano il percorso, stipando più persone possibili. Ovviamente si paga il rischio: sono centinaia di euro a persona per poche ore di auto, dalla regione meridionale a Sofia, e poi su verso la Serbia.

Considerata la situazione economica, per molti abitanti del sud è un’opportunità di business incredibilmente profittevole, che ha convinto anche i più insospettabili a fare gli smuggler. Alcuni mettono a disposizione gli spazi delle proprie cascine come zone di ristoro per migrantə, altri – come testimoniato dai peculiari sequestri della polizia – utilizzano persino carri funebri e ambulanze per il trasporto. Quello che i giornali non dicono, ma che tuttə sanno, è che i migliori smuggler portano la divisa.

Le principali strade che dal confine con la Turchia attraversano il paese sono costellate da posti di blocco. In un giorno, spostandoci da Elhovo a Burgas, incontriamo tredici auto della polizia, venendo fermati tre volte. A Burgas – crocevia per tutte le strade che arrivano dall’estremo est del confine turco, zona di intenso passaggio – sono presenti dei checkpoint negli accessi della città, che gli smuggler provano ad eludere facendo scendere le persone prima del controllo.

Per attraversare la città da sud, ovvero dalla “zona calda” del parco naturale di Strandzha e di Malko Tarnovo, un ponte sulla laguna funge da collo di bottiglia ideale, passaggio obbligato presidiato h24 dalla polizia, che ispeziona i veicoli e chiede i documenti. La polizia ha scoperto che le migrantə passavano anche per gli scarichi fognari.

Burgas è un luogo interessante anche per un altro tipo di rotta, poco conosciuta: quella del Mar Nero. Secondo i dati ministeriali, 427 persone sono state intercettate durante la traversata marittima dalla Turchia, di cui 12 accusate di smuggling. Quando arriviamo in città, cerchiamo delle associazioni a cui chiedere informazioni, per capire meglio. Contattiamo la Caritas che ci riceve con cordialità, ma non risponde alle nostre domande. Di violenza della polizia loro non sanno nulla, dicono.

Il ponte “collo di bottiglia” di accesso alla città di Burgas. PH: Simone Zito

Quando va male

Quando va bene, il flusso scorre sotterraneo e arriva in Serbia, e poi verso l’Ungheria, l’Europa. Quando va male, il fiume carsico vede la luce troppo presto, la rotta invisibile diventa visibile. Ovvero, le persone in cammino vengono viste e catturate dalla polizia – e va male, veramente. 

Come successo il 3 ottobre scorso ad Abdullah El Rustum Mohammed, diciannovenne siriano, sparato dalla polizia bulgara – fortunatamente sopravvissuto – subito dopo essere stato respinto in Turchia dalla stessa, come rivelato dall’inchiesta di Lighthouse Report. Pare che dopo il push-back alcuni ragazzi del gruppo, per la rabbia, stessero tirando dei sassi nella direzione della polizia di frontiera bulgara, che ha risposto aprendo il fuoco. Nonostante l’accurata ricostruzione dell’evento da parte del team di giornalisti investigativi, la polizia bulgara e il ministero hanno negato tutto. Sappiamo con certezza, anche da altre testimonianze, che gli ufficiali bulgari non esitano a sparare. Quello che non sappiamo è quanti ne uccidono.

O come successo il 17 febbraio, quando 18 persone provenienti dall’Afghanistan sono state trovate morte in un camion, a 20 km da Sofia in direzione Serbia, asfissiate per mancanza di ossigeno, mentre altre 34 venivano portate d’urgenza in ospedale.

Un caso che è finito nei media di tutta europa, accendendo di nuovo i riflettori verso la Bulgaria poche settimane dopo la rumorosa uscita dell’articolo – sempre di Lighthouse Report – “Europe’s Black Sites”, che filmava la gabbia per migrantə nel parcheggio della stazione di polizia di Sredets. Siamo tornati in quel punto due volte, e la gabbia era vuota ed aperta, non sembrava più in uso. Siamo riamstə stupitə di come le persone venissero detenute così in pieno centro abitato, di fianco ad una scuola, alla luce del sole.

Ma ad impattare ancora di più, e negativamente, sull’opinione pubblica – ci raccontano delle attiviste locali – era stato l’incidente occorso a Burgas l’agosto scorso, in cui erano morti due poliziotti, travolti da un bus a targa turca che portava 47 migrantə. La morte degli agenti bulgari ha esacerbato l’avversità verso le persone in transito, in un contesto già pesantemente segnato dal razzismo diffuso e dalla forte presenza – dentro e fuori le istituzioni – della destra neonazista e ultranazionalista.

Infatti, oramai da anni diverse squadre di “cacciatori di migranti” si auto organizzano per sorvegliare la frontiera. Tra loro, gli “European border defenders” riuniti nella Bulgarian voluntary border patrols, formazione guidata da veterani dell’esercito nel nome dell’eroe nazionale Vassil Levski. Nel loro canale telegram è possibile ricevere aggiornamenti giornalieri delle operazioni di cattura e respingimento, passamontagna in volto e mitra alla mano, ma anche il complesso ed originale quadro ideologico che supporta il loro operato, tra islamofobia, sostituzione etnica e purezza della nazione, contro i migranti terroristi manipolati e condotti verso l’europa dagli Usa e dalle ong.

Particolarmente celebre è poi il wrestler Dinko Valev, attivo nella provincia meridionale di Yambol, che nel 2017 aveva comprato un elicottero militare per sorvegliare le zone di confine. Le squadre di “vigilantes” collaborano attivamente e informalmente con la polizia di frontiera: l’ex primo ministro e tuttora uomo forte della Bulgaria, Bojko Borisov, in passato aveva stimolato e legittimato la loro presenza sul confine.

Si può fare di più

L’essere presi dalla polizia significa innanzitutto rischiare il respingimento. Secondo il Ministero dell’Interno, “168 378 cittadini di Paesi terzi hanno tentato di attraversare le frontiere del Paese nel 2022, un numero 3,1 volte superiore a quello del 2021 (55 012 persone)”. Non siamo in grado di stimare il numero di respingimenti: probabilmente molte di queste 168 mila persone sono state respinte più volte, alcune avranno poi attraversato il paese invisibili, altre saranno state catturate, portate nei centri di detenzione e lì costrette a chiedere asilo, oppure rimpatriate o respinte. 

Sicuramente, il passaggio attraverso la Bulgaria si è moltiplicato nell’ultimo anno, e con esso le violenze poliziesche e i push-backs. Dal 21 aprile 2022 il governo ha attivato “un piano d’azione per le situazioni di emergenza”, secondo cui “viene dispiegata l’intera capacità nazionale per contrastare la migrazione irregolare” sul confine con la Turchia, dopo aver constato che le forze del Ministero della Difesa impiegate fino ad allora non stavano ottenendo il risultato desiderato.

È stata proprio la presunta incapacità di controllare i flussi migratori, e quindi impedire l’ingresso nel Paese, a spingere Austria ed Olanda a porre il veto sull’ingresso della Bulgaria in area Schengen, assieme alla Romania, concesso invece alla più efficiente Croazia.

Il confine tra Bulgaria e Turchia. PH: Giovanni Marenda

La Bulgaria da tempo chiede alla Commissione i fondi per alzare e rinforzare i 259 chilometri di barriera di confine, che al momento appaiono troppo perforabili, soprattutto se confrontati con il muro ungherese o quello greco-turco. Tuttavia, il portavoce della Commissione Europea ha recentemente ribadito che “la Commissione non finanzierà nessun muro”, salvo poi aggiungere che con “muro” si intende “un’infrastruttura permanente che tiene fuori le persone”, “fatta di mattoni o di qualsiasi altro materiale“, mentre – incredibile ma vero –  “parlare di recinzioni è un’altra cosa“.

E visto che parlare di recinzione è un’altra cosa, Ursula Von Der Leyen ha annunciato lo stanziamento di 600 milioni di euro per supportare gli stati nel controllo dei confini, il cui primo obiettivo sarà proprio il “confine chiave” tra Bulgaria e Turchia. Strategicamente, Bruxelles mira a “rafforzare il confine con la capacità di gestione”, investendo nell’equipaggiamento tecnologico per supplire all’arretratezza della polizia bulgara, fornendo nuovi mezzi – tra cui droni, fuoristrada, e armi – e know-how attraverso Frontex.

L’agenzia è in continua interlocuzione con il Ministero dell’Interno bulgaro e affianca operativamente le guardie di frontiera: solo nel mese di marzo Frontex ha inviato 130 nuovi agenti al confine bulgaro-turco. Orgogliosamente, il ministro, annunciando l’arrivo di nuove auto e di armi a canna lunga, ci tiene a precisare che “il chiaro impegno preso ad investire sul nostro confine” da parte dell’Ue “è più un riconoscimento che un gesto di aiuto”, un successo diplomatico e un premio per l’operato.

Il Ministro dell’Interno in visita a Malko Tarnovo a fine marzo. Foto dal sito Ministero dell’Interno

Il prossimo approdo delle politiche confinarie sarà, nei prossimi mesi, l’applicazione delle fast-track border procedures, che formalizzeranno la detenzione e il respingimento all’ingresso nel paese. Ce lo racconta preoccupata un’avvocata solidale che si occupa di assistenza legale per richiedenti asilo. Le raccontiamo che in Italia, con il cosiddetto decreto Cutro, si sta andando nella medesima direzione. Come in Bulgaria, anche da noi ci sarà la possibilità di trattenimento prima di poter effettuare la domanda di protezione, in base alla lista dei “paesi sicuri”. Ancora una volta, capiamo la coerenza del disegno politico europeo che si sta gradualmente materializzando. Un disegno di apartheid.

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Giovanni Marenda

Studente magistrale di Sociologia e Ricerca Sociale all'Università di Trento. Ho trascorso la maggior parte del 2020 ad Atene, in Grecia, impegnato nel lavoro di solidarietà. Sono un attivista del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, che promuove la libertà di movimento e supporta le persone migranti lungo le rotte balcaniche e sui confini italiani.