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La porta 42 (Ciudad Juárez, Chihuahua). PH: Mara Girardi

L’amministrazione Biden ha messo fine al Titolo 42

Le conseguenze di questo cambiamento raccontate da Ciudad Juárez/El Paso

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Ciudad Juárez/El Paso – Il 12 maggio 2023 segnala fine del Titolo 42 1 e il ritorno all’applicazione del Titolo 8, rafforzato da due pacchetti di nuovi provvedimenti2.

In questo articolo si da una visione generale dei giorni immediatamente precedenti e successivi al 12 maggio, di come si sono vissuti in questa frontiera strana ma sempre crudele ed implacabile, dove si incontrano due città che sono due anime dello stesso centro abitato, un territorio diviso molto tempo fa, ma ancora intessuto di vincoli storici e familiari, oltre che economici e commerciali, due anime tuttora interdipendenti.

PH: Mara Girardi

13 maggio: un giorno senza immigranti?

La Chiesa del Sagrado Corazón, o Sacred Heart (Sacro Cuore) di El Paso, a poche centinaia di metri dal ponte che unisce il lato gringo della frontiera con il lato messicano – Ciudad Juárez – gestisce da anni un centro di accoglienza per migranti. Quando i locali si riempiono, ad ogni cosiddetta crisi migratoria, e così è successo le strade intorno funzionano come zone santuario e, fino a due giorni prima della fine del titolo 42, quando le strade hanno “ospitato” migliaia di persone stipate sui marciapiedi, nelle aiuole, in mezzo ad una strada chiusa al traffico, dappertutto.

È il 13 maggio, un giorno dopo il ritorno al titolo 8 e, invece, queste strade offrono un panorama desolato, un deserto umano interrotto da una piccola zona di gazebi, treppiedi, riflettori e telecamere spente, che sembrano set cinematografici e invece sono le attrezzature dei giornalisti, in attesa di un colpo di scena che ripaghi l’attesa.

Davanti alla Chiesa due donne venezuelane chiacchierano. Maria e Julia si sono conosciute a Matamoros, Tamaulipas dove, dopo aver attraversato il fiume insieme ai rispettivi mariti, si sono consegnate alla pattuglia di frontiera degli Stati Uniti. Le due coppie avevano passato vari giorni accampate sulla riva, in condizioni di estrema precarietà, come moltissime altre persone, prima di decidere di “provarci” e, quando sono arrivate incolumi dall’altro lato del fiume, non potevano credere di esserci riuscite. Ma la pattuglia di frontiera, a cui si sono consegnatə, separa donne e uomini e mentre le due donne, dopo 5 giorni di detenzione, sono state liberate con un documento che permette loro di rimanere negli Stati Uniti per seguire l’iter della domanda d’asilo, gli uomini no e, anzi, sono passati vari giorni e di loro non si sa nulla. Ci raccontano che uno dei due è un ex militare venezuelano, e l’altro è della comunità LGBTTTI+ 3, due circostanze per le quali il riconoscimento dell’asilo si da praticamente per scontato. Eppure non compaiono e, secondo loro: «…se non telefonano è perché non hanno il telefono, per cui sono ancora dentro, perché quando ti mettono dentro ti tolgono tutto, anche il telefono». Ma perché, se sono state catturate a Tamaulipas, Maria e Julia sono venute fin qui, a più di 1.300 chilometri di distanza, ad “aspettare” i loro compagni? Che informazioni hanno avuto? Da chi le hanno avute? Sempre più sconsolate, le ragazze rispondono che le hanno consigliato di venire a El Paso, che i mariti sarebbero stati liberati qui. Indicazione inaffidabile, che rispecchia l’opacità e il disprezzo con cui, ancora una volta, vengono trattate le persone migranti dalle istituzioni statunitensi.

Anche le altre persone che sono con Maria e Julia sono appena arrivate. José, salvadoregno, viene direttamente da un varco irregolare della frontiera ed ha capito di essere un ritardatario: ormai consegnarsi alla migra non è un’opzione valida (se mai lo è stata per un uomo solo salvadoregno, aggiungiamo), per cui il suo obiettivo è sfuggire ai controlli e riuscire a raggiungere il fratello a Dallas, ormai quasi rassegnato a vivere negli spazi grigi e costantemente rischiosi della irregolarità pur di non perdere l’opportunità di lavorare e mettere da parte un po’ di soldi, finché dura.

Anche dall’altro lato del ponte, a Ciudad Juárez, i luoghi di ritrovo di centinaia e migliaia di migranti sono oggi luoghi silenziosi che paiono quasi disabitati, come la Cattedrale e la piazza antistante, dove fino a pochi giorni fa le/i volontari distribuivano mille pasti al giorno, o l’accampamento di fronte ai locali bruciati del centro di detenzione dell’INM, ridotto a poche tende.

Un paesaggio immerso in un clima di irrealtà, che fa pensare a Un giorno senza immigranti, come gli scioperi di lavoratorə stranieri, o senza messicani, come il film. Il silenzio non durerà a lungo, perché si avvicendano ondate diverse di migranti, ma la calma di adesso è assai inquietante per il contrasto con la realtà che si viveva solo pochi giorni prima in questi due luoghi simbolici della migrazione, da un lato e dall’altro del ponte, che in linea d’aria distano non più di un chilometro.

Il CBP ONE, un’altra speranza tradita

In seguito alla cessazione del Titolo 42 si è introdotto l’uso obbligatorio dell’applicazione mobile CBP One come unico mezzo per entrare negli Stati Uniti per chiedere protezione internazionale, “una chiara violazione del diritto internazionale dei diritti umani“, ha dichiarato Amnesty International 4.

L’applicazione ha condizionato la vita di tutti dal 12 gennaio, cioè da quasi 4 mesi, con la frustrazione per il suo cattivo funzionamento e, quindi, la sua inutilità. I risultati, infatti, sono stati assai deludenti e ben poche persone migranti si sono potute presentare in frontiera con un appuntamento.

L’opinione più plausibile è che l’applicazione sia stata disegnata deliberatamente per includere/escludere selettivamente le persone in base a criteri come classe e appartenenza etnica. Infatti, considerando le caratteristiche dell’applicazione, per funzionare ha bisogno di un internet molto potente, di un telefono con molta capacità, di una persona che abbia dimestichezza con la tecnologia: tre caratteristiche certamente non molto frequenti tra i migranti in viaggio.

PH: Mara Girardi

11 maggio: dalla speranza al panico del dopo Titolo 42

In questo contesto, alla fine il panico per l’11 maggio che si avvicinava, ha prevalso spazzando via le congetture iniziali di un “dopo Titolo 42” di frontiere aperte. Questa era l’aspettativa alimentata da tre anni di forti critiche che hanno accompagnato il titolo 42 sin dal decreto che lo ha attivato, a marzo del 2020, perché negava il diritto d’asilo 5. Anzi, ogni tentativo di revoca promosso da Biden è stato molto ben accolto da migranti ed organizzazioni di diritti umani, ma mai andato in porto per le aggressive iniziative legali di governatori repubblicani ultraconservatori ed anti immigranti.

Ma il titolo 42 aveva il vantaggio, per le persone migranti, dell’espulsione versus la deportazione prevista dal titolo 8, che sarebbe tornato ad operare, perché la prima nega il diritto d’asilo, però non implica sanzioni e consente di ripetere varie volte il tentativo di entrare in maniera irregolare, mentre la deportazione implica sanzioni immediate (la proibizione di entrare negli Stati Uniti per almeno 5 anni) e sanzioni penali molto più gravi in caso di recidiva.

Tutto ciò si capisce meglio se si guarda alle politiche migratorie dell’amministrazione Biden-Harris che è passata da un’epoca di promesse e di iniziative osteggiate dall’opposizione repubblicana ad un’epoca di “paura” di fronte alla crescita vertiginosa dei flussi migratori, che ha fatto scivolare sempre più il discorso ed i provvedimenti dell’esecutivo verso posizioni duramente anti immigranti. E così Biden ha prima utilizzato senza scrupoli il titolo 42, uno straordinario strumento di contenimento che, pur non eliminando il “problema”, lo scarica sul Messico, poi ha messo in piedi un insieme di misure da affiancare al Titolo 8 che rieditano provvedimenti di stampo trumpiano: le misure per il dopo titolo 42 presentate a gennaio ed entrate in vigore il 10 maggio.

Gli annunci e gli avvertimenti minacciosi degli ultimi mesi da parte delle autorità, in linea con la nuova politica migratoria, e la militarizzazione di El Paso degli ultimi giorni, sono parte di una campagna che ha avuto l’effetto desiderato: capovolgere l’aspettativa dalla speranza al panico per l’11 maggio, ancor più delle esperienze negative e traumatiche raccontate da amici deportati e famiglie divise 6.

Da Tapachula a Ciudad Juárez, da Ciudad Juárez… a El Paso?

All’inizio dell’anno, l’urgenza di allontanarsi dalla frontiera sud messicana e di attraversare tutto il paese era per accedere al CBP One, possibile solo nel centro e nord del paese. Negli ultimi giorni di aprile la fretta era causata dall’avvicinarsi dell’11 di maggio. Lo si è visto con il flusso incessante da sud a nord e, in modo emblematico, con la carovana viacrucis migrante, partita il 23 aprile e conclusasi già il 27 aprile con la consegna di visti temporanei. Delle 4.000 persone stimate alla partenza, dopo 4 giorni ne erano rimaste 1.200, perché molte avevano scelto di avanzare ad un ritmo più veloce, pur senza permessi, per timore di arrivare tardi alla frontiera.

Intanto, l’accampamento, gli albergues e le tapias 7 di Ciudad Juárez si svuotavano sempre più velocemente. Sin dall’inizio di maggio numeri ogni giorno più grandi di migranti si sono affollati lungo il “bordo”, l’argine del fiume che segna la frontiera, cercando un luogo propizio per “consegnarsi” a migrazione, oppure per lanciarsi negli Stati Uniti attraverso i cosiddetti “buchi”. Il flusso di persone in uscita non era compensato dai nuovi arrivi, anche perché ormai questi ultimi si dirigevano sempre più direttamente dai binari del treno o dai capolinea degli autobus alla lunga linea della frontiera, senza tappe intermedie né momenti di riposo.

L’attesa alla porta 40

Chi è rimasto a Ciudad Juárez?

A Ciudad Juárez sono rimasti le persone più prudenti e timorose. Le persone delle nazionalità più a rischio di deportazione, provenienti per esempio dal triangolo nord dell’America Centrale, o da vari Stati della Repubblica messicana, a cui conviene continuare i tentativi di ottenere un appuntamento con l’applicazione CBP One che tra l’altro, a quanto pare, funzionerà molto meglio in un futuro assai prossimo. Le persone traumatizzate da esperienze inattese di espulsione dagli Stati Uniti, dopo 10 o 15 giorni di detenzione, maltrattamenti, umiliazioni e tortura psicologica: senza comunicazione con l’esterno, in condizioni igieniche deplorevoli (senza doccia, senza lavarsi i denti), dormendo sul pavimento, mangiando poco e molto male, con false rassicurazioni di una pronta liberazione, e quindi portate con l’inganno in aeroporto, incatenate alle mani, i piedi e in vita, oppure espulse in punti della frontiera lontani dai punti di entrata e, quindi, dalle reti d’appoggio costruite nel viaggio. Un evidente comportamento di disprezzo e di odio da parte delle autorità statunitensi.

Rimangono da questo lato della frontiera anche un certo numero di persone che sempre hanno sostenuto di voler entrare solo attraverso i canali stabiliti, rispettando le regole del paese dove vogliono essere accolti. Ma anche chi parla di obbedienza come un valore, probabilmente è spinta dalla paura di fallire che accompagna tuttə.

Quindi negli albergues di Juárez, nei giorni a ridosso dell’11 maggio c’è un’insolita disponibilità di spazio, e si sono visti attivisti così come funzionari della Direzione di welfare del comune, fare lavoro di strada per offrire alloggio a chi bivacca in modo improvvisato.

Ma… dove sono andate tutte le persone in viaggio, quando hanno vuotato accampamenti, albergues e tapias?

Il muro e le sue porte

Le famose “porte”, numerate progressivamente, sono disposte a distanza regolare l’una dall’altra lungo il muro e le si alternano, di tanto in tanto, delle enormi cancellate ad apertura elettrica. La porta 36, a una decina di chilometri dall’accampamento migrante presso il memoriale, è stata il primo destino di chi voleva consegnarsi alla border patrol, poi le autorità statunitensi hanno indicato la porta 40, a una quindicina di chilometri, come il luogo in cui ci si poteva consegnare, e alla fine è stato possibile consegnarsi anche nella porta 42. Le porte successive, soprattutto dalla 46 alla 50, sono territorio delle guide, chiamate coyotes o polleros.

Il muro in questa zona è molto particolare, fatto non di mattoni ma di tubi di ferro, straordinariamente alto, e separa l’argine del Río Bravo dalle superstrade veloci e dai quartieri residenziali di El Paso. Verso il letto del fiume è stata innalzata un’altra barriera di filo spinato, un secondo muro e, nello spazio tra i due, quando l’attese si è prolungata, è sorto un accampamento precario dove si affiancano piccole tende da campeggio e i soliti ripari di fortuna, fatti con coperte e teli fissati al filo spinato, oppure appoggiati ai pochi alberelli che crescono nel deserto. Tutto l’accampamento è in attesa di potersi consegnare alla migra.

La più affollata è stata la Porta 40. La sera del 9 maggio vi si contavano circa un migliaio di persone, ma da qui ne sono passate varie migliaia, molte delle quali già entrate negli USA, consegnandosi oppure attraverso varchi non autorizzati. L’ultima volta che il portone si è aperto è stato lunedì 1º maggio, poi da martedì 2 maggio è rimasto chiuso e nessuno più l’ha attraversato. Le persone migranti che aspettavano qui il loro turno sono rimaste intrappolate senza che venisse loro fornito né cibo né acqua, senza servizi igienici, senza assistenza, in un’attesa lunga ed incerta. Quindi è aumentato l’uscire ed entrare di migranti da questo accampamento informale, per procurarsi il necessario per la sopravvivenza, attraverso un varco nel filo spinato aperto da loro stessi e tollerato dagli agenti di migrazione. Paradossalmente, in questo modo il viavai di persone migranti che varcavano ripetutamente il confine USA/Messico nei due sensi è stato costante.

Più di una volta, nei giorni della sempre più lunga attesa, la migra ha annunciato un trasferimento imminente, ordinando alle persone accampate di buttare nei bidoni della spazzatura tutto quello che avevano, comprese coperte e cibo, ma nessun autobus è arrivato, come promesso, per portarle a El Paso provocando una grande frustrazione e disagi molto più gravi: di nuovo atti di crudeltà ed atti di odio che costringono questo gruppo di condannati della terra a dormire un’altra notte senza alcun riparo dalle temperature bassissime e dalla sabbia ed a ricostruire, il giorno dopo, l’infrastruttura vitale appena distrutta!

La lunga attesa ha anche cancellato i numeri progressivi stampigliati sul braccio a centinaia di persone al loro arrivo, giorno dopo giorno, per stabilire l’ordine di entrata e, quindi, di uscita.

Logorate e preoccupate dall’attesa, con il passare dei giorni molte persone hanno fatto la scelta più rischiosa: rinunciando ad alternative quasi regolari (consegnarsi), si sono lanciate attraverso le varie barriere anti immigranti come chi non ha più niente da perdere. In gruppi più o meno grandi, si sono spostati più lontano, verso le porte meno vigilate e, senza pagare i servizi di un coyote, quindi sfidando anche le mafie che controllano i passaggi irregolari, hanno aperto dei varchi nel muro, l’hanno attraversato e, nascondendosi tra la vegetazione, fuggendo dalla migra e camminando, hanno raggiunto la chiesa del Sagrado Corazón a El Paso, dove sapevano di trovare rifugio.

Riparazione di un varco nel filo spinato aperto dai migranti

La porta del CIELO

Si potrebbe pensare che chiunque vorrebbe fuggire da un luogo tanto apocalittico, invece chi era fuori correva per raggiungere questo “limbo migratorio” il prima possibile. Le persone scendevano dal treno sfiancate, e riprendevano ancora a camminare per chilometri e chilometri per raggiungere il prima possibile la porta 40, per paura di non esserci quando si sarebbe aperta.

Una delle ultime chat scambiata con un migrante che accampava qui da lunedì 1º maggio è della sera di martedì 9 maggio, quando i militari della guardia nazionale avevano chiuso tutti i passaggi aperti nel filo spinato della porta 40, fino allora tollerati, prendendo il controllo dello spazio che fino a poche ore prima sembrava autogestito dai migranti. Ha un tono biblico e messianico:
Attivista: Speriamo che questa sia la volta buona e che vi portino a El Paso
Migrante: Sì, credo di sì, speriamo che Dio ci apra le porte!

  1. Una misura di salute pubblica utilizzata per più di 3 anni per bloccare le richieste di asilo alla frontiera meridionale degli Stati Uniti. Per approfondire: Stop al Titolo 42 ma la crisi migratoria in Messico continua; medici Senza Frontiere (12 maggio 2023)
  2. In base al Titolo 8, i migranti possono incorrere in una multa o in una sanzione prima di essere espulsi. Se vengono sorpresi nel tentativo di rientrare negli Stati Uniti, possono incorrere in accuse penali e nel divieto d’accesso negli Stati Uniti o di richiedere l’asilo per un periodo che va dai 5 ai 20 anni, Fonte MSF
  3. L’abbreviazione LGBTTTI sta per Lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, transgender, travestiti e intersessuali
  4. USA: Mandatory use of CBP One mobile application violates right to seek asylum (8 maggio 2023)
  5. L’Unità per le politiche migratorie, la registrazione e l’identità delle persone (UPMRIP) del Ministero dell’Interno stima che nei tre anni in cui è stato attivo il Titolo 42, sono stati effettuati 2 milioni 710.494 eventi di espulsione attraverso i diversi punti internazionali di ingresso tra Stati Uniti e Messico, stimando che sei su dieci erano cittadini messicani
  6. Si sono ripetuti i casi di sempre, per esempio: madre e figliə piccolə ammessə negli Stati Uniti, padre biologico rimandato indietro con qualunque pretesto, per esempio che la coppia non è legalmente sposata
  7. Tapia letteralmente vuol dire muro, parete, ma a Ciudad Juárez vengono chiamate così, tapias, le case e gli edifici abbandonati ed in rovina che sono numerosissimi a Ciudad Juárez, sia in centro che nei quartieri periferici e che spesso sono state occupate ed attrezzate per viverci da famiglie o da gruppi di migranti. In alcuni casi le/gli occupanti hanno il permesso dei proprietari, a cui pagano un affitto. Uno degli edifici più grandi, di 3 piani, hanno abitato fino a 300 persone

Mara Girardi

Dal 1985 vivo in Mesoamerica, in Nicaragua ed in Messico.
Ho studiato filosofia in Italia e un master in studi di genere in Nicaragua.
Socia ed operatrice di ONG di solidarietà e cooperazione internazionale, le ultime esperienze sono state con i movimenti femministi dei paesi centroamericani e poi con i movimenti indigeni in educazione interculturale e plurilingue. Dal 2006 ho lavorato a temi legati alla mobilità umana, come diritti, violenza, genere e migrazioni.