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Sanando Juntas. Un’etnografia della cura tra donne sobrevivientes de violencia al confine tra Ecuador e Colombia

Tesi di Laurea di Giorgia Peduzzi

Papers, una rubrica di Melting Pot per la condivisione di tesi di laurea, ricerche e studi.
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Università degli Studi di Torino
Corso di Laurea Antropologia Culturale ed Etnologia

Sanando Juntas. Un’etnografia della cura tra donne sobrevivientes de violencia al confine tra Ecuador e Colombia

di Giorgia Peduzzi (Anno accademico 2021/2022)

Introduzione

“Di ombre che hai lasciato,
di parole senza labbra,
scritte su fogli di carta”
Pedro Salinas

Durante questi anni di studi in ambito antropologico ho sempre sentito parlare della mutevolezza, della fluidità e della trasformazione continua del campo di ricerca: ogni etnografia letta, ogni professore ascoltato raccontava di come, una volta giunti sul campo, la domanda di ricerca iniziale cambiava naturalmente con il corso dell’indagine e la scoperta profonda di un’altra realtà che la distanza dal campo non rivela. Al sentire queste storie sempre rimanevo affascinata, e anche un poco incredula: come era possibile che il campo prendesse tutt’altra direzione dopo tutta la preparazione, i libri letti, le informazioni cercate prima di partire?

Alla fine, esattamente come mi era stato raccontato, è successo proprio anche a me. Il campo si è imposto alla mia ricerca e, con naturalezza e disinvoltura, ha disegnato tratto a tratto il suo sentiero.

Prima di tutto è stato l’impatto con questa terra: dopo l’atterraggio del mio volo a Quito, il viaggio in auto verso la foresta amazzonica valicando le Ande e, insieme, anche tutte le quattro stagioni in un solo giorno. Mentre percorro le strade curve e tortuose verso l’Oriente, dal nulla, di colpo, mi apparve dal finestrino un mare verde infinito che allungava le sue braccia verso l’azzurro del cielo e si tuffava violento nei miei polmoni. Rimasi senza fiato. Non avevo mai visto così tanto verde, così tanto intenso, così tanto attraente tutto insieme. Mi sentivo intrappolata e affascinata al contempo, come se qualcuno o qualcosa mi stesse ipnotizzando.

Viaggiando per la selva imparai poi a conoscerla un po’ di più e percepii la sua potenza, la sua fertilità, il suo mistero e provai una sensazione di paura, mista ad un religioso rispetto. In questa tesi parlo di linguaggi altri alla parola che potrebbero essere in grado di esprimere in modo differente esperienze, emozioni, sensazioni e pensieri, arrivando direttamente al corpo dell’altro senza passare per il verbale. Ecco, non credo di riuscire ad esprimere con parole che ne possano rendere giustizia l’impatto con questa foresta pulsante e le persone che la abitano, però ritengo necessario provarci.

Il primo capitolo di questa tesi è un’introduzione al contesto storico, geografico, politico e culturale della provincia di Sucumbíos, in particolar modo parlo di Lago Agrio, capoluogo di provincia e cittadina in cui ho vissuto e situato maggiormente la mia ricerca.

Parlerò della colonizzazione, perché questo lavoro si situa in un’ottica de-coloniale, riconoscendo l’importanza e la necessità di osservare criticamente il passato per comprenderne meglio il presente. Questa narrazione storica la farò attraverso le voci di coloro che sono sempre stati ai margini della Storia, cercando di smascherare i processi storici, de-storicizzando le relazioni di dominio coloniale, per costruire un’altra storia: quella dei margini, delle lotte, delle urla soffocate.

La necessità e l’importanza di questa storicizzazione verrà poi ripresa nel terzo capitolo quando si parlerà di cura. Di fatti, per curare le ferite delle violenze subite, qualsiasi esse siano, è necessario rovesciare il sistema di dominio e tentare di costruire insieme elementi di storicizzazione delle forme di assoggettamento e coercizione perché non risultino ontologicamente naturali e assoluti.

Bourdieu parlava di “ri-semantizzazione dei rapporti sociali di dominio” (1998); quello che vorrebbe essere il primo capitolo è proprio una storicizzazione del contesto di ricerca in un’ottica contro-egemonica. Mi sono scontrata in questa fase con la difficoltà di recuperare informazioni: tutte le persone che incontravo provenivano da luoghi e percorsi differenti e rimaneva il mistero di come fossero giunti qui, di come nel mezzo dell’Amazzonia si fosse creata questa cittadina così particolarmente contraddittoria e multidiversa. Per di più, non ci sono biblioteche o archivi storici pubblici dove avrei potuto consultare dei documenti, così, ho lasciato che le persone stesse delineassero la propria storia, la propria interpretazione e il proprio vissuto del luogo e del tempo. Il risultato è stato un puzzle di voci e di memorie famigliari che vanno formando la mappa mnemonica di questo luogo partecipando, allo stesso tempo, ad una volontà ed ad un posizionamento personale che vuole farsi ascoltatore di queste voci troppo spesso calpestate.

Lago Agrio oggi è un luogo difficile, un luogo all’incrocio di varie traiettorie mobili, che ha vissuto varie colonizzazioni e in cui si incontrano e scontrano differenti tipi di violenza. Tra le vene di questa foresta scorre la violenza ambientale delle multinazionali petrolifere, che hanno trovato in queste terre una “El Dorado” di oro nero, depredandola senza scrupoli a scapito dei suoi abitanti che vivono quotidianamente sulla propria pelle i danni della contaminazione brutale.

Lago Agrio, in più, si trova a soli 15 minuti di auto dal confine con la Colombia, un confine che percorre tutta la zona nord della provincia di Sucimbíos lungo le rive del fiume Putumayo, nascondendo tra la fitta selva la violenza dei gruppi armati e militari colombiani, la guerriglia legata al narcotraffico e la violenza di frontiera dello stato ecuadoriano.

Lago Agrio è luogo di arrivo e di passaggio di persone in mobilità da Venezuela e Colombia 1 e di rifugio per tutti coloro che scappano dalla violenza e dalle minacce dei narcotrafficanti. Nella cittadina, quindi, persone migranti e rifugiate vivono la violenza delle istituzioni, del razzismo e della burocrazia, anche se questo non sarà oggetto di questa tesi. Il mio lavoro si concentra su alti tipi di violenza, che sembrano quasi endemici in tutta la provincia: la violenza fisica, sessuale, economica e psicologica sulle donne (adulte, bambine e adolescenti).

Nel primo capitolo utilizzo le ricerche, le interviste e le stime raccolte dalla Federación de Mujeres de Sucumbíos, un’organizzazione rivendicativa, popolare e femminista nata nel 1987 come Federación de Mujeres del Nororiente, che si impegna nella lotta contro la violenza machista su tutto il territorio della provincia e nella creazione di una proposta alternativa al modello patriarcale attraverso la sensibilizzazione politica e la rete di organizzazioni dal basso di donne diverse. La Federación è stata la base della mia ricerca, fonte di collaborazione e lavoro interdisciplinare.

In un primo momento fu complicato collaborare con l’organizzazione perché le attività che portano avanti sono molte e sono disperse per tutto il territorio, quindi per riuscire a comprendere appieno gli sforzi, la visione e l’impegno olistico nel trattamento della violenza e della subordinazione basata sul genere, mi ci sono voluti vari viaggi, moltissime domande e tantissime incomprensioni linguistiche. Ho appreso dalla selva a non avere fretta, ad esplorare piano piano le piccole impronte che si osservano, seguirle e lasciare che esse mi conducessero alla bellezza nascosta tra le fitte liane. La difficoltà linguistica ha avuto un ruolo importante anche nello sforzo interdisciplinare di cercare di sperimentare la creazione di un’etnografia attraverso l’utilizzo di linguaggi altri, come quello artistico, unito al trattamento di cura delle violenze.

Il presente studio di campo, infatti, è stato svolto all’incrocio di molteplici saperi: quello antropologico, quello artistico e quello psicologico. Si sviluppa all’interno della cornice dello spazio arteterapeutico creatosi all’interno del centro di attenzione per donne vittime di violenza della Federación de Mujeres de Sucumbíos. La mia ricerca si inserisce in un approccio metodologico che tende a sperimentare modalità altre di fare etnografia oltre l’osservazione partecipante malinowskiana, partecipando alla costruzione e produzione di un’antropologia che, tramite il dialogo e l’arricchimento con altri saperi e pratiche, sia collaborativa, intersezionale, militante, sentipensante e sensoriale, in cui il corpo è uno strumento di conoscenza e di produzione di sapere.

Faccio riferimento qui ai lavori di Zamorano (2018), Hogan & Pink (2010), Marxen (2009), Matoso (2010) e Irving (2008), tra gli altri, per quanto riguarda l’incontro dell’etnografia con l’arte, le potenzialità che questo dialogo sottintende e come arricchisce il lavoro etnografico dotandolo di un ulteriore sguardo di senso 2. Mi rifaccio anche ai lavori di Casagrande (2019), Rappaport (2008), Feld (2015), Clifford & Marcus (1986), per proporre un’etnografia collaborativa che partecipa ad una più grande sperimentazione spesso rivendicata e portata avanti da una buona parte di accademia latino-americana che, tramite questa militanza e collaborazione egualitaria, non solo con altre discipline ma con i soggetti stessi della ricerca, cerca di produrre un sapere contro-egemonico e co-costruito in cui i soggetti della ricerca possano essere attori, partecipanti e creatori insieme, della teoria e del lavoro antropologico.

Considero il mio posizionamento come partecipante di processi collettivi, integrante dell’esperienza etnografica, terapeutica e artistica in primis con il mio corpo, le mie sensazioni, le mie emozioni e la connessione creatasi con le altre partecipanti, inserendomi nel dibattito antropologico conosciuto come etnografia sensoriale. Accolgo qui la proposta di Pink (2009) di un’etnografia sensoriale come una metodologia di fare etnografia che sia al contempo un processo riflessivo ed esperienziale; aperta a molteplici modalità di conoscenza e all’esplorazione di nuove esperienze di apprendimento. Una pratica che si concentra su un corpo sentipensante che può rivelare elementi interessanti circa il processo di costruzione del sé e l’articolazione di relazioni di potere in cui il corpo è immerso.

Partendo dall’analisi del mio corpo sentipensante in relazione con altri corpi sentipensanti, si è cercato di lavorare attraverso (e con) le sensazioni, le emozioni e i segnali che il corpo stesso dà per arricchire e ampliare le potenzialità della comunicazione e della ricerca etnografica. Personalmente, per quello che riguarda la mia personale esperienza corporale ed emozionale, in un primo momento mi sentii privilegiata: una donna, bianca, con una situazione economica stabile e remunerativa, che proviene da un luogo sicuro, in cui non si vive costantemente con la paura di camminare sola per strada per la possibilità concreta, palpabile, che qualcuno ti possa puntare la pistola alla testa, ti derubi, ti faccia del male o ti violenti.

Mi resi conto però, dopo un po’ di tempo, che il mio essere ugualmente straniera ai loro occhi non si caricava per forza di privilegi e gerarchie, ma, piuttosto, mi rendeva in qualche modo simile a loro: condividevamo un viaggio, un luogo straniero in cui avevamo già piantato alcune radici; un sentimento di nostalgia e melanconia 3 verso questo luogo di origine, la nostra famiglia, la nostra storia; la condivisione di ricordi sotto forma di racconti o immagini del mondo a cui sentiamo di appartenere che spesso affioravano e ci coccolavano durante i nostri incontri. Le lamentele sul cibo ecuadoriano ci univano (“ma mangiano sempre carne qua?”, “in Venezuela almeno ci sono le arrepas la mattina, qua sempre pollo”, “non riesci a fargli cucinare verdure, solo fritto, non è sostenibile”) mentre cucivamo in cerchio insieme e conversavamo, con una finta leggerezza, sulle nostre vite. In questi momenti, i privilegi di cui il mio corpo si faceva portatore, si ammorbidivano e, piano piano, sfumavano in un’identità comune.

La collaborazione e la linea collettiva che disegno già a partire dalla metodologia, segue, come un filo rosso, tutto il lavoro di tesi. Il secondo capitolo, che ha uno stampo più prettamente teorico, riprende un dibattito, molto acceso in ambienti militanti latinoamericani, riguardante la lotta al patriarcato dei movimenti femministi del continente. Di nuovo, si cerca di adottare una prospettiva critica alla colonizzazione quindi, un primo nodo da visibilizzare, è l’egemonia della teoria occidentale che si riflette anche nelle lotte che si direbbero “contro-sistemiche”.

Di fatti, molti movimenti femministi di queste terre, rivendicano una propria lotta al sistema patriarcale che non sia per forza intesa nei termini dei femminismi occidentali il cui soggetto principale è la donna bianca, borghese, che lotta per la parità di genere, ma propongono un soggetto di lotta differente. In una prima parte del capitolo, commento le prospettive di Rita Laura Segato, antropologa e femminista argentina, e quelle di María Lugones circa il concetto stesso di patriarcato e il dibattito riguardante la sua origine e la sua esistenza (o meno) prima della colonizzazione. Il patriarcato è solo un prodotto occidentale? Esistono varie forme di patriarcato?

Successivamente, in una seconda parte, attraverso i lavori di femministe latinoamericane come Julieta Paredes, Lorena Cabnal, Berta Caceres, Francesca Gargallo e Yuderkis Espinosa Miñoso, si delineano i tratti di un soggetto di lotta femminista differente, che volge lo sguardo alle radici ancestrali di queste terre e che contesta l’individualità e l’individualismo occidentali proponendo una soggettività che è collettiva. Non a caso i femminismi di cui parlo si definiscono comunitari. Quello che qui mi piacerebbe mettere in luce è la percezione del corpo stesso della donna. Il corpo, incarnazione di violenze e di memorie, primo luogo di sperimentazione del mondo, primo luogo di visibilizzazione delle violenze, primo luogo di resistenza e di ricostruzione, è fondamentale nella lotta come nella cura. Il corpo di cui parlo qui è un corpo-terra, un corpo che ha radici e rami e che è inestricabilmente legato al territorio.

Riprendo quindi il pensiero di teoriche eco-femministe, come Vandana Shiva, nel tentativo di disegnare l’immagine simbolica di un corpo che è un tutto con l’ambiente circostante, per comprendere quanto la lotta delle donne non sia solo una lotta alla violenza machista, ma una lotta anche alla violenza patriarcale sul territorio in cui esse sono parte attiva. Questi femminismi si fanno portatori di una lotta, quindi, al sistema capitalista come al sistema patriarcale: un sistema di appropriazione, reificazione, saccheggiamento violento e produzione estrema. La proposta che qui si vorrebbe delineare a partire dai femminismi comunitari è invece un sistema che riparta dal comunitario, da rapporti di reciprocità tra i membri del gruppo (umano e non umano) e con l’ambiente circostante, e da una collettività che include tutte le soggettività possibili, senza un giudizio o una posizione gerarchica tra di essi.

L’impegno nel costruire comunità e nel pensarsi collettivo ci conduce poi al terzo capitolo, parte più specificatamente empirica della mia ricerca sul campo, dove questi concetti si trovano espressi e praticati nello spazio arteterapeutico della Federación. Lo sforzo di questo lavoro etnografico è indagare le forme con cui questa proposta femminista comunitaria si articolano nell’ambito della cura, tramite l’arte, di traumi ed episodi violenti, complicati dal negazionismo e dall’insabbiamento dello stato ecuadoriano colpevole di lasciare che le violenze inflitte sulle donne di questa provincia rimangano impunite.

Una delle tecniche della violenza di stato è proprio quella di colpire ai margini, colpendo coloro che già vivono in una situazione di isolamento e una condizione di subordinazione sociale. Per questo risulta necessario, nella cura, recuperare e ricostruire un tessuto sociale collettivo, che possa poi sostenere il più difficile recupero personale. “Curare è difficile se non c’è giustizia” ci ricordano Le Touze, Silove e Zwi (Beneduce, 2007, p. 309); l’impunità che vige a Lago Agrio si alimenta di corruzione e legami con il narcotraffico, la resistenza è necessaria quanto dolorosa, frustrante e complicata. Spesso assistiamo alla cura della sofferenza come ad un territorio sempre più privato, un sommesso atto di cura individuale che va ritirandosi dall’ambito della giustizia (Beneduce, 2007) depoliticizzando e destorificando il sintomo e che, proprio per questo, vede lo scontrarsi di voci e memorie che cercano di contrastarne il fenomeno.

Nel capitolo si cerca quindi anche di porre una critica al sistema di cura egemonico e delineare la necessità e la possibilità di sistemi di cura alternativi che possano incontrare risposta nei saperi locali e dialogare con il passato ancestrale, per accogliere e sanare queste ferite al di là del corpo biologico, in un approccio maggiormente olistico. Riannodando la matassa storica di queste terre e delle sue tradizioni, si analizza il ricamo come forma pratica e simbolica di guarigione delle ferite aperte riconducibili alla violenza patriarcale e a quella di stato. Una metafora viva che si incorpora nei corpi-terra delle donne sopravvissute e che parla, attraverso il filo, delle esperienze, delle emozioni e dei ricordi inenarrabili che queste donne portano con sé.

Nel capitolo traccio esempi di resistenza, di cura e di denuncia che, nel corso della storia del continente, si sono espressi tramite il ricamo: movimenti di resistenza di famigliari e attivisti in nome di desaparecidos (Messico e Argentina); il lavoro per la produzione di arpilleras 4 come pratica di memorizzazione e denuncia allo stesso tempo delle violenze brutali subite o assistite che le parole non riescono a narrare, riavvolgendo gli eventi e il significato che il tessere ha incorporato nella storia delle comunità di queste terre.

Per fare ciò ho utilizzato materiale differente che spazia da video, documentari, immagini, mostre e materiale cucito da vari movimenti e collettivi, ma anche interviste e performance costruite e sperimentate insieme con lo spazio arteterapeutico della Federación. In particolare, mi concentro sull’evento realizzato la vigilia del 24 novembre 2022, uno spazio di memoria, denuncia e sanazione collettiva per dare un logo emozionale e giustizia alle donne vittime di femminicidio. Indago questo evento come una pratica di memorizzazione, in cui viene fatto un uso politico della memoria e della sofferenza e che cerca di riscrivere un’altra storia.

Secondo Cathy Caruth, coloro che hanno vissuto un trauma o un evento estremamente violento, vivono una storia impossibile (Caruth, 1996). Ci chiediamo quindi: cosa significa che la storia venga vissuta come un sintomo? Che cosa comporta? Come posso esprimere il vuoto, l’indicibile che mi perseguita?

Il terzo capitolo vuole raccontare storie che, attraverso questo spazio, la resistenza di queste donne e i dialoghi altri con cui si è lavorato, hanno trovato il modo di essere catturate nell’inaccessibilità del loro materializzarsi. I fili di questo tessuto comunitario riscrivono la propria storia mentre ricuciono le loro ferite e lasciano, davanti a sé, una memoria storica contro-egemonica, che sfida il negazionismo di stato ad ogni punto cucito.

Somos contos contando contos, nada”

  1. Quando io stessa attraversai il confine nel retro di una camionetta con persone migranti venezuelane e colombiane mi viene riferito da loro che il passaggio tra La Hormiga (Colombia) e Lago Agrio, è uno dei trocha (passaggi illegali oltre confine) più economici e veloci, per questo utilizzato da molta gente che, spesso, vorrebbe poi proseguire il suo viaggio verso il sud del continente (Cile in particolare)
  2. Mi viene in mente qui il lavoro pioneristico di De Martino, “La terra del rimorso” (1961), come ricerca transculturale e approccio multidisciplinare che ha visto la collaborazione di una squadra di professionisti in varie discipline (dalla psicologia alla musica), per un’analisi a tutto tondo del fenomeno della taranta nelle terre pugliesi
  3. Per approfondimento sul sentimento di nostalgia delle persone migranti e rifugiate si veda Beneduce (2007)
  4. Opera tessile realizzata con vari ritagli di stoffa riciclata da vecchi panni di recupero, arricchiti con ricami, figure o elementi materiali cuciti in rilievo, che va raccontando la sua storia attraverso le immagini tessili qui rappresentate. La realizzazione di queste opera divenne popolare durante il periodo della dittatura cilena (a cui farò accenno nei capitoli successivi) come testimonianza e narrazione delle violenze che stavano attraversando il Paese. La produzione di questi patchwork era, ed è, quasi interamente affidata a gruppi di donne che, insieme, cuciono e narrano storie