Silvia Collesi, traduttrice per Melting Pot 1, nel mese di giugno si è recata sull’isola di Lesvos in Grecia. Dopo l’intervista alla ONG Europe Cares, pubblichiamo la testimonianza di Mahmoud, un giovane ragazzo che Silvia ha incontrato fuori dal campo di Kara Tepe.
Isola di Lesbo, Grecia. Intervista all’ong Europe Cares
di Silvia Collesi, realizzata a giugno 2023

Mahmoud ha 21 anni, i capelli lunghi, raccolti, e gli occhi gentili. Proviene dal Kurdistan siriano. Mi corre dietro lungo il marciapiede che costeggia il campo di Kara Tepe. Sono le due del pomeriggio, a Lesbo fanno più di 40 gradi. Ci sediamo lì sul terreno, vicini, all’ombra di un’acacia di Costantinopoli tutta rosa, e chiacchieriamo per qualche minuto come due amici. Siamo praticamente coetanei.
La storia di Mahmoud è unica e speciale e insieme analoga a quella di tantissimi altri.
Per diversi anni, da che era poco più che ragazzino, ha prestato servizio nell’esercito del suo paese, ma data la giovane età e l’asprezza delle situazioni ha presto perso l’attaccamento alla causa. Allontanatosi da quel mondo e rifiutati i principi militari è stato subito etichettato come disertore dallo Stato e costretto a lasciarsi in fretta tutta quanta la sua vita alle spalle, affetti e innocenza compresi.
«Io come tantissimi altri ho lasciato la mia terra in cerca di un futuro migliore, lì è ormai impossibile vivere. Lungo il percorso che ci ha portati fin qui, abbiamo dovuto affrontare esperienze terribili, cose orribili, ma abbiamo continuato guidati da tante grandi speranze. E adesso? mi ritrovo bloccato, intrappolato qui, né più né meno che come un animale in gabbia», dice con gli occhi chiari colmi di frustrazione, puntando l’indice verso la recinzione del campo di Kara Tepe.
Nonostante Lesbo disti all’incirca una decina di chilometri dalla Turchia e sia in linea d’aria l’isola più vicina al confine, l’impiego massiccio e continuo delle forze marittime da parte di Frontex nell’Egeo rende estremamente difficile l’attraversamento della frontiera.


Perché la Grecia?
«Ho trascorso del tempo in Turchia, spostandomi in continuazione, ma la vita per i curdi come me in quel paese è tutt’altro che facile… Di fronte a poche altre alternative, una notte in completa solitudine e pieno di disperazione ho preso la difficile decisione di intraprendere il viaggio verso l’Europa, volevo una vita migliore. Ho provato due volte prima di riuscire, stavo per non crederci più.» Si ferma varie volte, non approfondisce. Poi ad un certo punto riprende con un sorriso «Ma alla fine eccomi qui.»
Lo lascio parlare, non ho domande che non siano banali e superflue. Silenziosa, ascolto attentamente le sue parole mentre si confida con me. Osservo le sue mani, come si tormenta le dita mentre parla e tiene lo sguardo fisso davanti a sé, forse verso il campo o forse oltre, in direzione del mare. Kara Tepe si trova infatti proprio sulla battigia.
«Da diversi anni ormai mi trovo nel campo. Ero soltanto un ragazzo quando sono sbarcato in Grecia per la prima volta e di lì a poco avrei vissuto sulla mia pelle le fiamme distruttive dell’incendio che ha ridotto Moria in cenere. Quasi ogni notte, rivivo la stessa paura che ho provato quando Moria è stata devastata dalle fiamme. Il campo non offre sicurezza poiché siamo troppi e viviamo tutti stipati insieme. La privacy non so più che cosa sia. E’ incredibile quanto ci si possa sentire profondamente soli anche quando si è circondati da così tante altre persone.»
Com’è andata quella notte?
«Il fuoco ha sempre fatto parte della mia vita, ho attraversato molte situazioni pericolose e ormai non sento più timore riguardo a queste cose.» dice imperturbabile e fiero di sé. «Niente mi spaventa.» Finalmente mi guarda e quasi accenna un sorriso, poi riprende «Tuttavia, la notte in cui Moria è stata avvolta dalle fiamme, ho provato un’immensa paura e ancora oggi sento addosso una certa inquietudine. È strano… mi sembra di aver subito una sorta di regressione da quando mi trovo qui. Questo campo mi ha devastato psicologicamente. È difficile spiegare tutto quello che ho provato quella notte e quelle successive».


Com’è la vita a Kara Tepe?
«Non è sempre facile fare una vita tranquilla nel campo. Kara Tepe dovrebbe essere più sicura rispetto al precedente per molti aspetti diversi, ma forse è solo l’abitudine che parla al posto mio… c’è più sicurezza, migliori controlli e pulizia, ma siamo segregati qui come in una prigione, non ci lasciano uscire. In linea teorica dovrebbe essere così, ma non è quello che accade nella realtà».
Il campo manca di molti servizi essenziali e di un sistema elettrico adeguato, spesso si verificano incendi a causa di cortocircuiti o di tentativi di scaldarsi a causa delle fredde temperature durante i mesi invernali. Le condizioni precarie e il pericolo costante di incendi aggiungono ulteriori sfide e preoccupazioni a chi è già vulnerabile e in cerca di sicurezza. Del resto, avrebbe dovuto trattarsi solamente di una soluzione improvvisata e temporanea, mentre invece il governo greco ha affittato il campo di Kara Tepe per cinque anni.
La mancanza di sostegno psicologico per i migranti è sicuramente una delle problematiche più gravi all’interno del campo. Le persone che arrivano qui portano con sé un carico emotivo pesante, legato a esperienze traumatiche e difficoltà comportamentali serie. Affrontare la mancanza di supporto psicologico è una priorità e richiede un impegno da parte delle autorità e delle organizzazioni umanitarie per garantire che i migranti ricevano l’assistenza necessaria per superare i traumi e per ottenere un supporto adeguato durante il loro percorso di integrazione e di ricostruzione di una nuova vita nel presente. Tuttavia, non ci sono risorse adeguate ad affrontare i traumi psicologici e le conseguenze emotive di ciò che queste persone hanno vissuto e continuano a vivere giornalmente.
«Non sento la mia famiglia da anni ormai, non so più nulla di casa mia e del mio paese. Non so più niente del mio passato e il futuro è ancora più incerto. Per quanto riguarda il presente, le procedure per fare richiesta di asilo sono molto poco chiare, tortuose e davvero lunghissime. E’ una causa persa, l’attesa è infinita e bisogna farci i conti. Anche una volta ottenuti i permessi, non abbiamo modo di lasciare l’isola. Che senso ha?»
Una situazione assurda è che non solo i richiedenti asilo, ma anche tutti i rifugiati, compresi quelli che hanno già ottenuto lo status, non sono autorizzati a lasciare Lesbo. Questa restrizione è incredibilmente frustrante e impedisce alle persone di iniziare una nuova vita altrove.
«E’ una grave limitazione della nostra libertà e una privazione dei diritti fondamentali.»
Il nuovo campo che sorgerà a Nord di Mitilene, più precisamente a Vastria, sarà caratterizzato da un sistema di accesso controllato e sarà in grado di ospitare fino a circa 3.000 migranti, ma purtroppo non sarà mai abbastanza. La situazione è destinata a peggiorare, Lesbo è da sempre un’isola di frontiera e questo non potrà mai cambiare, il numero di migranti e richiedenti asilo in difficoltà è in crescita continua ed esponenziale.



Mentre ci salutiamo, Mahmoud mi tende la mano e si inchina leggermente, dimostrando una certa incertezza su come approcciarsi a me. Percepisco un imbarazzo nei miei confronti, forse più una soggezione. In un primo momento, sembra esitare, avanza un passo, poi ci ripensa. Sembra che voglia abbracciarmi, ma poi non lo fa e ci lasciamo. Poco dopo mi chiama da lontano mentre torna verso il campo, sorridente e luminoso mi saluta sventolando entrambe le mani in aria, come un fratello, come un bambino.
Nonostante queste infinite e sempre nuove difficoltà Mahmoud in fondo è sereno, speranzoso. Ha una fiducia viscerale e inaffondabile se non tanto nella Grecia, quanto nella vita, nel futuro, nella giustizia e nella provvidenza. Valori antichi e sacri che l’Occidente egoista, nel suo delirio d’onnipotenza, ha dimenticato da tempo o che forse non ha mai conosciuto davvero.