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A Lampedusa, lavori al CIE sospesi mentre si raccolgono le firme

Sono 190 gli immigrati, tutti di nazionalità tunisina, ancora trattenuti al centro di identificazione ed espulsione (cie) di Lampedusa dopo che circa 700 sono stati rimessi in libertà alla scadenza del decreto che ne aveva autorizzato il ‘fermo’ fino a un massimo di sei mesi; altri 23 immigrati, somali e ghanesi, si trovano invece nella ex-base militare Loran. I dati sono stati riferiti alla MISNA da Cono Galipò, amministratore delegato della cooperativa incaricata di provvedere alla gestione dell’accoglienza all’interno del cie: “Ovviamente – aggiunge Galipò – sono di conseguenza migliorate le condizioni di chi è rimasto nella struttura che ha al momento una capacità ridotta a 480 posti”. La questione aperta di Lampedusa resta quella del nuovo cie che dovrebbe sorgere alla base Loran, dove però i lavori sono stati bloccati in seguito ad alcuni esposti presentati dalla locale sede di Legambiente: “In totale – dice alla MISNA Giusy Nicolini, responsabile dell’associazione ambientalista a Lampedusa – abbiamo presentato tre esposti perché i lavori di ampliamento sono stati intrapresi senza autorizzazioni e per giunta in un’area vincolata, di protezione speciale per la salvaguardia di specie e habitat minacciati da estinzione. In seguito, il ministero dell’Interno ha attivato le normali procedure di autorizzazione, ma non esistono a nostro parere motivi validi perché venga rilasciato un nullaosta”. Contro il cie continua anche la protesta della cittadinanza e del comitato ‘No cie’ che sta raccogliendo le firme dei lampedusani per lo smantellamento della struttura e il mantenimento del solo centro di prima accoglienza: “Abbiamo appena concluso una serie di eventi durati tre giorni con incontri, dibattiti e concerti – dice Paola La Rosa, una delle promotrici del comitato – le firme raccolte finora sono 1500 e andremo avanti fino al 15 giugno. Lampedusa vuole accogliere gli stranieri che arrivano sulle sue coste, ma non può ospitare per mesi in condizioni difficili e all’interno di veri e propri centri di detenzione stranieri con la sola colpa di cercare un futuro migliore”.