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da Il Corriere della Sera del 14 settembre 2004

«A Tripoli ci danno la caccia, chi può scappa in Italia»

di Fabrizio Gatti

«Sta diventando terribile qui per gli immigrati. In particolare per i neri. I libici si stanno facendo giustizia da soli. Sono diventati tutti ostili nei nostri confronti. Venerdì a Tripoli ci hanno presi a sassate». Altro immigrato, altra email dalla Libia. Stesse paure: «La situazione è degenerata in una campagna di pubblica aggressione, perfino da parte dei vecchi. Vogliono sempre sapere dove lavori, dove dormi, come vivi. E se non li convinci, chiamano la polizia. Per anni siamo stati utili alla Libia, adesso ci cacciano». Ancora un’ email, da Sebha, nel Sud: «Sappiamo che alcuni degli stranieri espulsi verso il Niger sono morti nel deserto. Altri sono stati incarcerati e picchiati. Molti miei amici hanno deciso di scappare in Europa. Raccolgono i risparmi e tentano di arrivare in Italia. Ma è dura: i burga, i trafficanti nigeriani, e i mudin, i loro colleghi libici, hanno raddoppiato i prezzi. Ora per un posto su una barca chiedono fino a duemila dollari. Con la repressione verso noi stranieri, burga e mudin stanno facendo grandi affari».

PESCHERECCI RUBATI – È una conseguenza che gli accordi tra Italia e Libia non avevano previsto. La linea dura di Gheddafi sta spingendo centinaia di immigrati a cercare salvezza in Europa. Chi ha risparmiato qualche soldo in questi anni di lavoro, davanti alla prospettiva dell’ arresto o del rimpatrio forzato, tenta l’ ultima possibilità: lo sbarco in Italia. Anche perché alcuni Paesi africani, come Tunisia ed Eritrea, arrestano i loro connazionali espatriati illegalmente. Sono giorni di grande lavoro per i trafficanti di clandestini. I burga nigeriani e i mudin libici e tunisini hanno trovato clienti inaspettati tra i lavoratori stranieri che altrimenti non avrebbero mai lasciato la Libia. Come dimostra la cronaca di queste ore, da Lampedusa alla costa della Sicilia. E proprio negli ultimi giorni in Tunisia sono aumentate le denunce di furto di piccoli pescherecci. Da anni gli armatori di Sfax, il grande porto commerciale, arrotondano i guadagni: vendono le vecchie barche ai trafficanti, poi ne denunciano il furto. Per evitare guai con la polizia. Sono le stesse barche che dopo qualche giorno riappaiono a Zuwara, la città libica più vicina al confine tunisino. E dopo qualche giorno ancora, se non affondano, arrivano a Lampedusa.
La linea dura non ha nemmeno fermato i camion carichi di immigrati che attraversano il Sahara. Gli accordi tra le due sponde del Mediterraneo non hanno per ora migliorato le condizioni di vita nei Paesi a Sud del deserto. Tra lunedì e venerdì, da Accra, in Ghana, sono partiti in cinquanta. Un addio all’ alba, come sempre in Africa. Se ne sono andati da Buduburam, affollato campo profughi alle porte della capitale. Tutti ragazzi tra i 17 e i 29 anni, liberiani da mesi in esilio per sfuggire alla guerra civile. Tra pochi giorni saranno ad Agadez, in Niger, la città di fango rosso. Tra due o tre settimane, forse, arriveranno a Tripoli. «Tra un mese o due, così hanno promesso, sbarcheranno in Europa – dice ieri sera al telefono la moglie di uno di loro -. Se ne sono andati perché a Buduburam l’ esercito sta cacciando dal campo tutti i profughi senza carta d’ identità. Siamo disperati». Ad Agadez, alle porte del Sahara, i camion della Transport Union partono carichi di passeggeri come prima. Due o tre spedizioni, a volte quattro al giorno. I guai cominciano dopo cinque giorni di viaggio, nell’ oasi di Dirkou. Solo lì gli immigrati scoprono che al confine con la Libia la pista è stata chiusa dai militari di Gheddafi. E diventano prigionieri del deserto. Così, se non vogliono unirsi agli altri stranieri trattenuti come schiavi nell’ oasi, devono pagare ancora. Altri soldi per trafficanti, soldati e poliziotti locali.
ABBANDONATI NEL DESERTO – «I militari libici hanno chiuso la pista in un punto a tre giorni di viaggio a Nord di Dirkou – conferma da Agadez un autista dei grandi camion Mercedes -. Noi, fin dove possiamo, i nostri passeggeri li portiamo». E dopo? «Dopo? Aspettano, inshallah». L’ alternativa sono i burga della mafia nigeriana che per mille dollari risolvono i problemi, accompagnando personalmente gli immigrati. L’ ultima possibilità è affidarsi ai seguaci di Al Qaeda, che ad Agadez già organizzavano i viaggi dei clandestini in arrivo da Pakistan e Bangladesh. Ma non sempre questa via è sicura. A Nord del ventesimo parallelo in Niger e sulla rotta tra l’ Algeria e la Libia i terroristi del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento rapinano soldi e abbandonano nella sabbia chi non ne ha.
«La situazione da quelle parti – racconta un ragazzo appena arrivato in Libia – è catastrofica. Solo se resisti al caldo e alla fame sopravvivi». L’ oasi di Dirkou lungo la Pista degli schiavi ha sempre fatto paura. Migliaia di stranieri in Libia, per scongiurare il rischio di doverci ritornare, si sono addirittura autodenunciati. Solo così sperano di essere rimpatriati in aereo. La polizia libica aveva lanciato un appello all’ «espulsione volontaria». Hanno risposto tremila immigrati del Mali, settemila del Ghana e altri di Niger e Nigeria. Avevano tutti un lavoro. Hanno guadagnato abbastanza per ritornare a casa e, in questo modo, non correranno altri pericoli nel Sahara. Tra sofferenze e deportazioni, è una tragica roulette. Loro hanno vinto e abbandonano il tavolo.
Altri disperati arriveranno.