Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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A fianco di Carola e Sea Watch per nuovi momenti di rottura e atti di costruzione

Ho deciso di entrare in porto a Lampedusa. So cosa rischio ma i 42 naufraghi sono allo stremo. Li porto in salvo“. Sono queste le parole di Carola Rackete, la capitana della Sea-Watch 3, pronunciate ieri prima di entrare nelle acque italiane, sfidando la multa da 50.000 dell’illegale decreto sicurezza bis 1 e altre possibili conseguenze, come il sequestro dell’imbarcazione o l’essere indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un’accusa infamante che lo scorso anno ha già criminalizzato la Iuventa 2 e, molti anni fa, salvataggi al largo del canale di Sicilia. Tra i più conosciuti va ricordata la vicenda della Cap Anamur, caso giudiziario che si risolse dopo ben cinque anni di processo con la piena assoluzione di tutti gli imputati. 3

La scelta della capitana arriva dopo un rimbalzo di responsabilità tra l’Italia, l’Olanda e gli altri paesi europei durato 14 giorni, un lasso di tempo nel quale è emerso chiaramente come la Sea Watch sia stata abbandonata anche da quelle istituzioni europee che avrebbero potuto risolvere la situazione. E’ una scelta di disobbedienza obbligata per il peggioramento delle condizioni psico-fisiche dei naufraghi che stanno “friggendo sul ponte della nave”, e che arriva dopo il pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha respinto il ricorso dell’Ong.
In un articolato approfondimento il professore Fulvio Vassallo Paleologo spiega che la decisione dei giudici della Corte è un atto di “ignavia” che alimenta solo l’arroganza del ministro dell’interno italiano.
Dietro la decisione dei “porti chiusi”, frutto anche degli accordi e dei codici di condotta del precedente governo – afferma Paleologo – si agglomera una massa di italiani che sfoga il suo odio e la sua frustrazione contro qualche decina di persone, “colpevoli” di non essere rimaste sotto tortura nei lager libici o di non essere annegati in alto mare. Perché questo significa delegare alla sedicente Guardia costiera libica le operazioni di soccorso/intercettazione in quella che è definita come SAR libica, dal 28 giugno 2018, ma di fatto è ancora controllata dalle autorità italiane ed europee, come ha rilevato anche la magistratura italiana”.

Attorno alle operazioni di ricerca e soccorso, ancora una volta, si è aperto un campo di battaglia per i diritti e la giustizia dove i movimenti e la società civile non possono che prendervi parte. In poche ore dal responso della Corte e dalla coraggiosa decisione di Sea Watch, tante sono le piazze italiane che stanno portando la propria solidarietà e vicinanza a Carola, all’equipaggio e ai 42 naufraghi.
Un moto di solidarietà fondamentale non solo per la sua funzione solidale, ma anche per prendere parola pubblicamente e provare a cambiare una narrazione dominante “anti migrazioni” continuamente rafforzata da un sistema diffuso di disinformazione che produce una mole di articoli spregevoli, o lascia spazio solo ai latrati del governo, nell’intento di delegittimare l’operato dell’organizzazione umanitaria tedesca e più in generale di chiunque prenda una posizione in favore dei diritti dei migranti e dell’accoglienza.

In un recente articolo pubblicato su Open Democracy, Maurice Stierl e Sandro Mezzadra, spiegano che quel che sta succedendo al largo delle coste libiche non è altro che una forma di rapimento di massa effettuato dalla guardia costiera libica, la quale non è solo tollerata ma organizzata strategicamente dai governi e dalle guardie costiere europee. Affermano inoltre che “quando si guarda alla situazione del Mediterraneo centrale, si nota una cancellazione della complessità. Là dove in passato le operazioni militari-umanitarie europee come Mare Nostrum, e poi (anche se certamente con meno intensità) Triton o Eunavfor Med, avevano mescolato tra loro le dimensioni del salvataggio dei migranti e della deterrenza alle partenze, di protezione delle vite umane e protezione dei confini, ora assistiamo ad un dualismo senza precedenti nella rappresentazione della forza e della libertà”.

Utilizzare gli spazi di mobilitazione che si aprono grazie ai momenti di rottura operati in mare, da una parte deve consentirci di far conoscere lo scontro in atto, quali sono gli effetti del decreto sicurezza bis, cosa avviene nel Mediterraneo, in Libia o sulle altre rotte migratorie, per far capire come l’apparato europeo agisca per limitare la libertà di movimento delle persone, la loro possibilità di mettersi in salvo e attraccare in un “porto sicuro”; ma dall’altra parte ci mette di fronte al compito di ricercare insieme come operare “via terra” nuovi momenti di rottura allargando lo sguardo a tutto il sistema dei confini e di confinamento dei migranti (e non solo) che i paesi dell’Unione stanno agendo e consolidando in tutto lo spazio euromediterraneo e all’interno dell’area Shengen.
In altre parole ci deve spingere a capire fin da subito come lottare contro il decreto bis e gli accordi Italia-Libia per un’immediata evacuazione verso l’Europa di tutti i migranti presenti nei lager libici, contro l’ipotesi di nuovi muri e barriere sulla rotta balcanica, e, complessivamente, come riuscire ad affermare che il diritto fondamentale alla mobilità umana diventi il paradigma sul quale costruire un presente più giusto.

  1. https://meltingpot.org/Il-Decreto-sicurezza-bis-e-illegale.html
  2. https://www.meltingpot.org/OltrEconomia-Festival-2019-La-criminalizzazione-delle.html
  3. https://www.meltingpot.org/+-Cap-Anamur-+.html

Redazione

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