A partire da un testo di Cristina Morini sulla cura
Effimera (30 aprile 2020)
La contraddizione:
• fra la cura relegata nel femminile subalterno, come riaffermazione del patriarcato dentro il capitalismo della sorveglianza, in una malvagia sintesi di arcaico e nuovissimo che si toccano, nella ripetizione della radici del dominio.
• e la Cura universalizzata come modalità dell’essere sociale, collettiva e insieme singolare, perché la cura è sempre del singolo e di tutti.
Un piccolo ma significativo esempio di questa seconda e fondamentale accezione della Cura è stato l’impegno di due o tre donne a Trieste, sbocco della Rotta balcanica, uscite dal chiuso delle case alla metà d’aprile, sfidando i divieti, per andare in strada nei pressi della stazione ferroviaria per curare i piedi dei migranti che continuavano e continuano ad arrivare a Trieste.
I piedi e non solo. Ma i piedi, per un migrante, sono essenziali. Sono quelli che letteralmente sopportano il peso del cammino dalla Bosnia fra i boschi e le rocce del carso croato e sloveno, in fuga dalle polizie, quella croata, nota per la sua violenza, e poi slovena ed anche europea (Frontex), con droni e cani e quant’altro.
E per fornire loro scarpe, un po’ di cibo ma, soprattutto, contatto, relazione, oltre culture, lingue – corpo, sguardo, calore – vita.
In un gesto di ri-messa al mondo, quindi se, proprio vogliamo, femminile, ma reso universale nel mostrare che mettere al mondo non ha solo un significato biologico, ma dovrebbe/potrebbe diventare il modo dell’essere sociale.