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Afghanistan: Quando la guerra non si chiama con il suo nome per i profughi non c’è più speranza.

Era questa la sentenza che mancava per giustificare e sdoganare definitivamente i charter già in partenza per Kabul dalla Gran Bretagna come dalla Francia.
la “Violenza indiscriminata” non appare, agli occhi di questi uomini di legge, un motivo sufficiente per offrire protezione internazionale ai profughi che anche la guerra europea ha contribuito a scacciare dalle loro case.
Ma è lo stesso termine “Guerra”, ad apparire ogni giorno di più come un tabù impronunciabile quando si parla dell’Afghanistan (come già era accaduto e continua ad accadere per l’Iraq).
“Operazioni di polizia internazionale”, “difficile cammino verso la democrazia”, “fase di transizione”: sono queste le locuzioni con cui i governo raccontano a modo loro le stragi che si consumano ogni giorno, l’avanzata inarrestabile dei Talebani mai forti come adesso, il viso bruciato dall’acido di centinaia di donne colpevoli solo di non avere indossato il burka per andare a fare la spesa, le 150 persone che muoiono in media ogni giorno sotto i colpi del fuoco incrociato.
Raccontiamolo a chi parte fuggendo per sopravvivere, che la guerra in Afghanistan è finita. Raccontiamolo a chi è nato con lo scoppio delle bombe nelle orecchie, a chi ha perso suo padre, sua sorella, sua madre, i suoi cugini, la sua casa. Raccontiamolo ai ragazzini in fuga dal reclutamento forzato dei talebani e dalle scuole coraniche dei pakistani, diciamolo a loro che non c’è nulla di così grave in Afghanistan, da meritare di essere accolti nei nostri paesi.
Il grande paradosso è che si minimizzano queste sofferenze e queste costrizioni proprio in quei paesi in cui i partiti al potere si battono contro l’apertura delle moschee e contro il fanatismo islamico, e in nome dei diritti umani chiamano eroi i soldati ammazzati in queste “missioni di pace”, parlando sempre per nome e per conto della democrazia e della civiltà.
Guardate, ovunque in Europa, la sorte riservata a chi fugge dal disastro afghano la cui responsabilità ricade anche sulle decisioni prese dai paesi dell’Unione europea.
Migliaia di persone, quasi sempre giovanissime, in fuga da uno Stato membro all’altro, da una zona di concentramento all’altra, senza incontrare un solo luogo in cui potersi fermare e vivere degnamente.
Ogni mese, ultimamente, arriva la notizia di uno sgombero forzato: la distruzione “campo” di Patrasso, ammasso di misere capanne di cellophan in cui queste persone senza posto al mondo si nascondevano sognando l’Italia per sfuggire ai manganelli della polizia greca, agli attacchi dei gruppi fascisti, alle incarcerazioni arbitrarie; lo smantellamento della “Jungle” di Calais, in cui tra gli alberi prendevano fiato questi profughi che in Francia non avevano trovato altro che un foglio di espulsione, e cercavano di raggiungere la Gran Bretagna come terra promessa per cercare un po’ di pace; infine, da ultimo, la cacciata dei migranti afghani dalla stazione Ostiense di Roma, senza offrire alcuna alternativa a chi non ha un luogo dove rifugiarsi che non sia la strada, come se disperdere queste persone equivalesse a farle scomparire.
E se non si tratta di zone di concentramento da tollerare o distruggere a seconda delle convenienze dei diversi governi, ci sono i centri di detenzione, come quello terrificante di Pagani, a Mitilene, denunciato dall’Unhcr pochi giorni fa come un luogo da dimenticare, da chiudere:

Più di 700 uomini, donne e bambini sono rinchiusi dentro il centro di Pagani (…) e molti di loro sono potenziali richiedenti asilo (…). 200 donne e bambini hanno due soli gabinetti e una doccia (…)” scrive l’Unhcr.
Abbiamo visto una tragedia umana, con condizioni che nessun essere umano dovrebbe sopportare” fa allora eco un Ministro greco, scusandosi con i detenuti come se mai avesse saputo in che luogo il suo governo li costringesse a vivere (cfr. UNHCR delegation visits detention centre on Greek island, urges closure. Source: United Nations , High Commissioner for Refugees (UNHCR).

La maggior parte di questi prigionieri, neanche a dirlo, sono afghani.
Su tutto questo, si getta inoltre l’ombra lunga e pesantissima di una verità poco raccontata: un altissimo numero dei migranti afghani che si trovano oggi in Europa sono minorenni o appena maggiorenni, perché è questo il gruppo di popolazione più a rischio in quanto obiettivo primo delle milizie talebane.
Ma il problema non si pone, dicono i giudici inglesi la cui sentenza presuppone una lettura in senso restrittivo della Convenzione di Ginevra del ’51 sullo status di rifugiato.
Se la Commissione deputata a decidere sulle domande di asilo non si pronuncerà favorevolmente le persone che avevano avanzato istanza potrenno essere messe a forza su un aereo diretto a Kabul o in altre regioni dell’Afghanistan.
Cià potra avvenire nonostante sia sotto gli occhi di tutti, e le statistiche lo dimostrano, come le decisioni di queste commissioni, di fronte a un numero sempre crescente di profughi in fuga dalle centinaia di conflitti che affliggono il pianete, tendano sempre più al conferimento di un diniego quasi generalizzato e non sempre motivato.
Bisogna provare una persecuzione personale, la violenza generalizzata non basta. La guerra non basta. O forse basterebbe se la si chiamasse con il suo nome.
Ma per distruggere il diritto alla protezione internazionale occorre derubricare i motivi della fuga. Per rimpatriare le persone verso un’alta probabilità di morte occorre banalizzare la situazione che si troveranno a vivere.
Solo in questo modo si può essere tutti assolti ignorando i paradossi, e il diritto, ancora una volta, può diventare solo una questione di parole scelte, e riempite o svuotate di significato, a seconda degli interessi di turno.