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Afghanistan, cortocircuiti culturali e imposizioni occidentali

Il Paese tra vecchi e nuovi padroni. Nuovi slanci. Voci afghane

Photo credit: Carla Dazzi (Cisda)

Esportare la democrazia è un sogno americano1 . Meglio, un complesso americano. Nel 1943 i soldati delle truppe USA venivano accolti in Italia come alleati e “liberatori” dal regime fascista nell’entusiasmo della maggior parte della popolazione, ormai dimentica dei bombardamenti degli stessi alleati in numerose città italiane: affascinante morfologia della propaganda politica. Non fu molto diverso in Germania, su cui gli anglo-americani si estesero per destituire il nazismo.

Photo credit: Linda Bergamo (Cisda)
Photo credit: Linda Bergamo (Cisda)


L’esportazione della democrazia manu militari – oltre a sollevare questioni morali sulla contraddizione in termini: iniettare il germe della libertà con l’uso della forza? – rientra nella narrazione sull’Afghanistan dal 2001 fino a poche settimane fa, quando anche le motivazioni realpolitiche del ventennio americano si sono sciolte nel ritiro delle truppe 2, gettando nel caos un paese già svenato da decenni di occupazione. Quali sono le ragioni di questo fallimento?

Anzitutto occorre definire i termini. Dal quinto secolo avanti Cristo l’Occidente è stato disseminato di germogli di questo concetto antico: dal letterale δήμου κράτος di Pericle nella Grecia classica all’illuministica suddivisione dei poteri fondata da Montesquieu ne “Lo spirito delle leggi”, al lento processo di conquista di porzioni via via ulteriori di valori democratici che culminò nella Rivoluzione francese.

Democrazia è concetto complesso e multidimensionale, declinatosi in varie forme, con caratteri specifici in relazione al territorio in cui si è insediata. Provando a dare una definizione minima, si può definire democrazia quel meccanismo in cui il complesso dei cittadini, direttamente o indirettamente, partecipa alle decisioni mediante strumenti di consultazione popolare; e in cui le decisioni vengono prese dopo una libera discussione “a maggioranza3.

Intorno a questa definizione gravitano i fondamentali del concetto di Stato, definito con l’accezione moderna solo nel XX secolo: diritti civili, politici, economici, sociali, fino alle più recenti conquiste nel senso della libertà dell’individuo, come la libertà dell’orientamento sessuale, di decidere sul proprio corpo, il diritto all’aborto e all’eutanasia: diritti di cittadinanza che sorgono dall’intima radice della libertà individuale e dell’autodeterminazione.

Lo slancio universalistico di questi valori ha contribuito a produrre l’idea che sia sempre possibile esportare tali ordinamenti in paesi che non li hanno partoriti da sé. Questo “positivismo dei valori” manca di constatare dei fatti: l’universo dei diritti è il frutto di un preciso processo storico, una lenta presa di coscienza dei sudditi di un Regno, che oltreoceano insorsero contro la monarchia britannica diventando così cittadini, cittadini di una federazione nel segno della Dichiarazione di Indipendenza e della Carta dei Diritti; o di quei francesi che qualche anno dopo, pur dal chiuso delle officine, delle botteghe, delle corporazioni, respirarono il vento intellettuale e culturale di un’epoca – il razionalismo illuministico; e in quelle officine, in quelle botteghe, in quelle corporazioni la sofferenza divenne malcontento, e il malcontento insurrezione, e dove l’insurrezione non venne soffocata nel sangue diventò assemblea, e poi legislazione, e nuove costituzioni furono scritte, sintesi di compromessi e conquiste di questo doloroso processo popolare.
Ha senso imprimere esiti e destini occidentali su paesi che non hanno compiuto le stesse traiettorie?

Photo credit: Linda Bergamo (Cisda)
Photo credit: Linda Bergamo (Cisda)

Cortocircuiti culturali

Al momento dell’ingresso delle truppe americane, in Afghanistan vigeva un regime islamico instaurato dai talebani attraverso la loro interpretazione della Shari’a. Nei mesi successivi, il sistema giudiziario sarebbe stato ricostituito «sulla base dei princìpi islamici, degli standard internazionali, dello Stato di diritto e delle tradizioni giuridiche afghane»; ma i principi dell’islam sono sempre stati fortemente disomogenei, decine di formulazioni sbriciolate sulla frammentaria geografia del paese. Questa disomogeneità, ampiamente documentata in Afghanistan complice la conformazione sociale del popolo afghano, discontinua poiché basata sostanzialmente su forme tribali, non è peculiare solo dell’Afghanistan: sebbene esistano dei compendi di diritto islamico di varie epoche, distribuite tra il Medio Oriente e il Nord Africa, si tratta sempre di produzioni legate a un determinato tempo e un determinato luogo.

Tali principi “non sono riducibili a unità, né individuabili con la certezza che richiede un sistema giuridico fondato sullo Stato di diritto, risultando dall’opera di interpretazione degli ‘ulamā’, i teologi-giuristi, e dalle applicazioni giurisprudenziali, cioè dei tribunali”. Questa opacità ai margini del testo può sempre aprire la legge all’universo islamico, esponendola all’arbitrarietà.

Oltre all’interpretabilità dei testi sacri, di per sé problematica per la fondazione di un sistema giuridico proprio di uno stato di diritto, c’è da considerare che il modello proposto dai talebani degli anni ’90 presentava un apparato normativo incompatibile con i principi democratici, per motivi legati al modo in cui la Shari’a è stata interpretata e trasposta in norme giuridiche. La situazione attuale, almeno per quanto concerne l’universo dei diritti civili, non sembra molto diversa. A tale modello restano estranei il principio della libertà individuale e dell’autodeterminazione, specie per le categorie delle donne e dei non musulmani.

Ne deriva che, fin quando la legislazione afghana subirà la subordinazione ai precetti dell’islam proposta in queste forme dal governo talebano, i principi democratici le saranno sempre estranei: perché nel paradigma di tale subordinazione non vi sono criteri per cui, ad esempio, si possa giudicare ingiusta la disparità tra l’uomo e la donna: anzi, tale disparità viene formalizzata e legittimata dalla legge; come è legittimata la punibilità di atti sessuali fuori dalla sfera matrimoniale o l’omosessualità. Come viene analizzato in un articolo di ormai un decennio fa, ancora attuale 4: “In estrema semplificazione, restano i nervi scoperti della garanzia dei diritti individuali e del principio di eguaglianza, nell’islam impossibile da realizzare per i diritti delle donne e dei non musulmani; della separazione dei poteri, che è estranea alla teorizzazione e applicazione della Shari’a; e dell’impraticabilità di teorizzare un potere giudiziario incaricato di decidere questioni costituzionali.

Photo credit: Carla Dazzi (Cisda)
Photo credit: Carla Dazzi (Cisda)

Gli occhi afghani

Il popolo afghano non ha mai visto le truppe occidentali come degli alleati 5 in grado di sollevare il paese da un regime violento. Gli americani e gli altri attori internazionali hanno operato in Afghanistan con dei contingenti militari finalizzati sostanzialmente alla sicurezza, concentrando il loro impegno nel cosiddetto nation-building solo nei giorni delle elezioni 6: questo si è dimostrato insufficiente ad imprimere istituzioni democratiche solide. Una debole apertura a modalità democratiche è stata sentita nelle grandi città, come a Kabul: Hambastagi, il Partito della solidarietà 7, è un esempio, e non l’unico, di queste miracolose meraviglie; ma fino al 2021 è rimasto difficile coinvolgere nel progetto democratico la maggioranza del popolo afghano, prevalentemente organizzato in tribù arroccate sulle montagne, nelle campagne, nei villaggi.

La nostra Linda Bergamo, di ritorno dall’Afghanistan nel 2018, aveva commentato questa diffidenza verso sistemi politici che in Occidente sono ormai secolarizzati: “La popolazione afgana è diffidente rispetto alle parole “politica” o “partito”: ha visto Signori della Guerra cambiare bandiera una volta al governo, facendo propaganda per i diritti umani e per i diritti delle donne dopo aver promosso lapidazioni, umiliazioni e stupri per anni. È un popolo che ha visto i governi cambiare, l’occupazione crescere e diminuire, i soldi pubblici passare direttamente nelle mani di politici corrotti, e la situazione, la vita quotidiana, le strade, le scuole, rimanere sempre uguali, impolverate”. 8

Non stupisce allora se un progetto, ancorché ambizioso nelle parole, si sia trasformato in un inglorioso fallimento o, per citare l’ex-generale Bertolini, in “una Caporetto strategica e culturale”. 9

Esportare la democrazia implica relazione con la popolazione civile, implica dialogo e confronto, implica orizzontalità, e complicità delle due parti sugli obiettivi, richiede di scalfire le diffidenze col duro lavoro con la popolazione locale.

Photo credit: Revolutionary Association of the Women of Afghanistan - RAWA
Photo credit: Revolutionary Association of the Women of Afghanistan – RAWA

Vent’anni dopo. Voci afghane

In questa lunga fase di addestramento militare, il tentativo – sghembo, goffo, mendace, fittizio – di innestare la democrazia nel paese è fallito, dopo essere stato strumentalizzato, abusato dalla propaganda e brutalizzato per almeno un decennio. In molte aree del paese l’esercito afghano non ha affrontato l’avanzata talebana. Ma il sentimento di rivolta nelle manifestazioni delle donne, delle madri, delle giornaliste, delle attiviste afghane è il guizzo di una vitalità che non ha accettato le condizioni del fondamentalismo, che non si rassegna.

Non sono solo le donne. Sono anche gli uomini, scesi in strada nel cuore della notte, e sono le figlie e i figli di quelle stesse donne che negli anni ’90 non riuscirono a sopportare l’orrore talebano e piuttosto scelsero di morire, si suicidarono “come foglie al primo vento”. 10

Questa rivolta – che è rivolta contro tutti i poteri costituiti: americano, talebano, dei competitori oltreconfine che ora si stringono attorno ad una nuova preda – è finalmente il sintomo autentico di un bisogno di libertà. Che sia sotto il nome di democrazia o sotto altro nome, per la prima volta non importa a nessuno. Quel sentimento sta partorendo meraviglie nelle piazze, in squarci di strade sterrate, contro i cieli autunnali di Kabul, ed esprime il sussulto viscerale di una voce afgana, che è la parte autentica della Storia, finalmente ripulita dal rumore delle mediazioni e degli artifici istituzionali, una voce che sfida tutti i significati ufficiali, che sfida le forzature occidentali e il protagonismo di quelli che invece la scriveranno la Storia, con la foga cruenta dei vincitori, silenziando le correnti troppo difficili da inquadrare e facendo violenza a tutto ciò che meravigliosamente, sommessamente, sta sfuggendo al secolare paradigma della forza.

  1. Leggi anche: http://letterainternazionale.it
  2. Leggi anche: “Read the Full Transcript of President Biden’s Remarks on Afghanistan“, The New York Times
  3. Leggi anche la definizione di Democrazia su Wikipedia
  4. Leggi anche: “Le parole e le cose“, Limes, 2010
  5. Leggi anche: “Si può esportare la democrazia?” di Daniele Archibugi (Lettera Internazionale)
  6. Leggi anche: “Democracy in Afghanistan: Amid and Beyond Conflict” di Anna Larson (United States Instiute of peace)
  7. Vedi: Solidarity Party of Afghanistan
  8. Leggi anche: “Afghanistan, sopravvivere ma soprattutto resistere“, Linda Bergamo (Melting Pot, 2018)
  9. https://www.corriere.it/
  10. Leggi anche: “Afghanistan: sollevatevi sorelle, sollevatevi fratelli, solleviamoci tutti!” di Simona Lanzoni (Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2021)

Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.