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Ai Weiwei: “Il silenzio dei 65 milioni di rifugiati è un’umiliazione per quelli come noi, che una voce ce l’hanno”

Luis Martínez, El Mundo - 23 ottobre 2017

Photo credit: EFE.

Traduzione di Giovanni D’Ambrosio

Può l’arte cambiare il mondo?Ai Weiwei sorride e contrattacca: “Se permette le rispondo con un’altra domanda: può forse la politica cambiarlo?”. E aggiunge: “Provarci è un obbligo per qualsiasi persona perbene. Qualunque cosa faccia”, conclude con un gesto di compiacimento. Uno a zero, e siamo solo all’inizio. L’artista, attivista, e da poco regista, cinese passeggia per Valladolid indossando un rigoroso abito nero. Sorride, ma non per le foto dei giornalisti. Sorride anche all’intervistatore. Presenta Human flow , che è a suo modo una fotografia accurata del mondo in cui viviamo. In una scena memorabile del film, la macchina da presa offre una panoramica di quello che potrebbe tranquillamente definirsi un dipinto astratto. All’interno di un preciso reticolo di toni bruni, terrosi, quasi rossi, lo spettatore è invitato ad apprezzare ciò che sembra un quadro di Paul Klee contemplato dal cielo. La telecamera si avvicina, e finalmente si intuisce, con una chiarezza che fa male, che si tratta di un campo di rifugiati. È fango mischiato a carne umana. È sangue. È una sanguinosa metafora dell’origine (veniamo dalla terra, ricordiamocelo) che potrebbe tranquillamente essere la fine. La fine di tutto questo.

Sono arrivato a questo film quasi per caso”, dice. “Non sapevo molto della questione. Ho iniziato a girare e, poco a poco, man mano che mi informavo, ho iniziato a percepire chiaramente la portata del problema”. E così fino a realizzare quasi 700 ore di riprese attraverso 23 paesi in tutto il mondo. Fino a raccogliere quasi 600 interviste realizzate in più di quattrocento campi profughi, dalla Siria al Sudan passando per la nostra civilissima Europa (nei campi di Lesvos e dell’Ungheria), per la Birmania o il Vicino Oriente. “Viviamo in un mondo in cui abbiamo tutti la consapevolezza di possedere il diritto ad una vita libera, piena e soddisfacente. Ma questo non sta accadendo. E se tutto ciò non si verifica, non resta altro che ammettere che la democrazia è null’altro che un inganno”, afferma deciso.

Weiwei, il dadaista furibondo che rompe vasi millenari, lo stravagante provocatore dei semi di girasole sparsi sul pavimento dei musei, l’artista più influente e apprezzato al mondo… Weiwei non esita nell’ammettere che Human flow è la sua opera più intima. Io sono un rifugiato, sottolinea per scacciare quanti si sono affrettati ad additarlo come un turista della miseria altrui. “Sono nato in un campo di deportazione. Mio padre, che era un poeta, fu condannato a lavare latrine, prima in Manciuria e in seguito in un luogo sperduto nel deserto dei Gobi. Io sono nato lì. Gli fu proibito scrivere, e ciò rappresentò per lui il castigo e l’umiliazione peggiore. Guardo tutta questa gente e mi accorgo che sto guardando me stesso”, osserva. Quello che non dice, forse dandolo per scontato, è che è stato 81 giorni nelle carceri del suo paese e che ora vive a Berlino da esule. O, a suo modo, da rifugiato.

In un frangente del film, forse il più criticato, il regista gioca a scambiare il suo passaporto, e addirittura il suo lussuoso studio nella capitale tedesca, con un rifugiato siriano. Ridono, si scimmiottano, si augurano buona fortuna per le rispettive nuove vite… “Siamo uguali”, dicono. Ovviamente, si tratta solo di questo: di uno scherzo davanti alla telecamera. Quando finisce la sequenza, ognuno torna al suo posto. Ognuno di loro è ciò che è. Senza trucchi e senza telecamere. “Appaio nel film perché la mia intenzione era quella di dargli un tocco personale, diverso. I reportage che i giornalisti americani girano dai campi profughi mi disgustano. Parlano come se fossero i padroni del mondo, e si comportano come se le persone che compaiono nei loro notiziari fossero esseri diversi da loro. Questo è il comportamento che ho voluto evitare”, sottolinea.

C’è un qualcosa che caratterizza e riassume la condizione del rifugiato indipendentemente dalla zona del mondo da cui proviene?” – “Sì, vogliono tutti la stessa cosa. Un mondo migliore per sé stessi e i loro figli. E tutti hanno un coraggio enorme, che li porta a sopportare e a resistere a tutto ciò che sopportano e subiscono. Somigliano in tutto e per tutto a chiunque di noi”, dice, poi si prende un secondo e conclude: “Il silenzio nel quale vivono i 65 milioni di rifugiati è un’umiliazione per quelli come noi, che una voce invece ce l’hanno”.

Weiwei non si mostra affatto ottimista. Non crede che il suo paese, la Cina, sia nella posizione di comandare alcunché, dato che è incapace di riconoscere i principi fondamentali che fanno una vita degna. “Non esiste libertà d’espressione, il potere giudiziario è sotto il controllo del governo… non si può parlare di leadership da un punto di vista meramente economico”, riflette. Non che sull’attuale presidente degli Stati Uniti riponga la benché minima aspettativa. “Viviamo in tempi corrotti”, aggiunge. E allora, perché sforzarsi tanto? Perché non lasciar perdere, ammettendo semplicemente la sconfitta? “Non saprei dirle. Immagino non rimanga altra via che continuare a provarci”. E così conclude.