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da Il Manifesto del 18 maggio 2006

Aiuto umanitario e politiche imperiali

Intervista Médecins sans frontières allo specchio

Rony Brauman, ex presidente di Msf, rilegge criticamente l’esperienza «umanitaria» e «neutralista», con le ong sempre più subordinate alla realpolitik

di Anna Maria Merlo

Mentre le ong che dipendono finanziamente dagli Usa hanno dovuto accettare di ritirarsi dalla Palestina, in seguito alla vittoria di Hamas il 25 gennaio scorso, Médecins sans frontières rifiuta di trasformarsi in ausiliaria dei diplomatici. Il rifiuto di fare la cernita tra le «buone» e le «cattive» vittime, così catalogate dall’ideologia politica dominante, è uno dei principi fondatori di Msf, la più emblematica delle organizzazioni di intervento di emergenza nel mondo, che nel ’99 è stata insignita del Nobel per la pace.
Figura centrale dell’azione umanitaria, Rony Brauman, che dal ’77 è impegnato nel campo degli aiuti internazionali dopo alcuni anni di militanza politica gauchista, dall’82 al ’94 è stato presidente di Msf. Nel corso deglmi anni, ha elaborato una visione critica dell’aiuto umanitario, che spesso lo ha portato a prendere posizioni in contrasto con la vulgata dominante in questo campo, che lui condanna come «retorica umanitaria». Ha appena pubblicato un libro molto problematico, «Penser dans l’urgence. Parcours critique d’un humanitaire – entretiens avec Catherine Portevin» (Seuil, 267 pag., 21 ), che parte dall’analisi dell’origine dell’umanitario prendendo due «modelli»: da un lato quello della Croce rossa, che nasce nella guerra, dall’altro quello che Brauman definisce «di sanità coloniale», una faccia dell’imperialismo coloniale.

L’aiuto umanitario è oggetto di grande successo, attira persone, soldi, il numero delle ong si moltiplica. Perché? Secondo lei, l’impegno umanitario è venuto a sostituire un vuoto creato dal declino dell’impegno politico?
Certo, il successo dell’umanitario negli ultimi 20-25 anni è anche segno del declino del politico. Ha però anche dei meriti propri, che non dobbiamo dimenticare. Fino ad allora, la politica aveva sempre fatto una selezione tra i «buoni» e i «cattivi» morti, le vittime che meritavano di essere commemorate e quelle che invece venivano gettate nella pattumiera della storia. Il problema è che questa visione può anche diventare un’ideologia, cioè una visione del mondo costruita attraverso una sola idea. Per esempio, la divisione in ogni avvenimento tra vittime, soccorritori e criminali, in tre ruoli distinti, può portare a una descrizione del mondo altrettanto manichea di quella che prevaleva ai tempi della guerra fredda. Di qui la necessità, secondo me, di pensare l’umanitario non solo dal punto di vista tecnico, pratico, ma anche filosofico e politico.

Lei dice che bisogna trovare il senso dell’azione. Ma come farlo, ora che l’immagine domina e produce emozione? Prendiamo l’esempio dello tsunami del Natale 2004.
La forza dell’immagine si sostituisce al discorso. Sullo tsunami, Msf disse che i soldi raccolti erano troppi. A giusto titolo, lo tsunami ha sollevato grande emozione, per ragioni legittime e molto comprensibili. Anch’io, pure abituato a situazioni di emergenza, sono rimasto scioccato. Ma subito è stato chiaro che c’erano sul posto enormi soccorsi, mentre i bisogni dell’emergenza non erano così forti. Le organizzazioni umanitarie dell’Onu e le ong hanno accettato di lasciarsi spingere all’attivismo dai media e dall’opinione pubblica. Una posizione totalmente sterile, che non portava a nulla se non a nutrire l’idea dell’onnipotenza dei soldi e dei soccorsi. Si trattava di un vero e propio spreco, quando quello di cui avrebero avuto bisogno le vittime era una distribuzione dei soldi.

Oltre al dominio delle immagini che determinano le ondate di emozione mondiale, l’aiuto umanitario soffre anche di un’altra evoluzione contemporanea, ben più grave: l’avvento delle «guerre umanitarie». Come sta influendo questa ideologia?
«Guerra umanitaria» è un non senso: la guerra uccide, l’umanitario salva la gente. Una contraddizione in termini, molto pericolosa, perché se vengono dichiarate delle guerre a nome della vita, del bene, della morale, possono in fretta diventare guerre illimitate. Ho però l’impressione che dopo il Kosovo questa idea di guerra umanitaria sia in declino. Anche se ora c’è l’Iraq, che un po’ le assomiglia, perché guerra del Kosovo e guerra in Iraq sono accomunate dalla menzogna di origine: per l’Iraq, sulle armi di distruzione di massa, mentre per il Kosovo era direttamente la questione umanitaria (il supposto piano Ferro di cavallo di programmazione del genocidio degli albanesi).

L’idea di smascherare la propaganda è stata presente fin dall’origine di Msf ?

All’origine Msf era un gruppo di medici che volevano porter lavorare in situazione di emergenza. C’era anche l’aspirazione a una libertà di parola che non era possibile alla Croce rossa. Msf nasce due anni dopo il Biafra – l’origine è appunto in quella crisi, anche se poi negli anni ’70 Msf non denuncerà nulla e con il tempo si capirà che in Biafra non c’era stato un genocidio, ma una guerra civile molto crudele, fomentata dalla rivalità franco-britannica in Africa. Questo episodio fondatore del Biafra mostra le difficoltà legate alla denuncia e alla presa di parola pubblica. E’ facile parlare, ma è anche facile trovarsi invischiati in una propaganda che non si è stati capaci di disvelare. A volte, questo porta gli umanitari a diventare complici dei criminali, credendo di denunciare altri criminali. Qui sta il mio motivo di dissenso con Bernard Kouchner: la nozione di testimonianza è interessante, ma deve essere riflessa. Le ong umanitarie possono diventare, in questo senso, parte del problema, invece di esserne la soluzione: come in Etiopia nell’84-’85, dove si è visto che l’aiuto poteva essere usato contro i suoi destinatari e i protagonisti dell’aiuto integrati al sistema di oppressione. O in Ruanda nel ’94, dove la crisi umanitaria è diventata sinomino di crimine perfetto, dove ci sarebero solo vittime, perché ha permesso di non chiamare il genocidio con il suo nome: un genocidio in diretta, malgrado l’idea nella quale giornalisti e umanitari amano cullarsi, cioè la suppsta garanzia che l’informazione, l’immagine, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica offrirebbero contro un genocidio.

La proclamata neutralità dell’intervento umanitario è quindi problematica?
La neutralità non è un principio umanitario, ma diplomatico. Per un’organizzazione come Msf la neutralità consiste, né più né meno, in un’esigenza di neutralizzazione dei luoghi di soccorso, che significa che non devono essere obiettivi di combattimento. Il solo principio veramente utile, secondo me, è il principio di imparzialità, che non ha nulla a che vedere con la neutralità, anche se a volte vengono confusi. L’imparzialità è: a ognuno secondo i suoi bisogni. Il resto segue. Non aiuteremo più o meno quelli perché sono più simpatici, alleati della Francia o no, perché hanno la pelle più scura o più chiara, perché hanno la religione buona o quella cattiva, ma in funzione dei loro bisogni. E’ questo un principio che deve restare al cuore dell’azione umanitaria in situazione di guerra. Con discernimento, però: se non mi interrogo sulla sofferenza che devo curare, cioè sul senso dei miei atti, posso diventare il medico di un campo di torturatori.

Come pensa che evolverà l’ormai grande macchina dell’aiuto umanitario?
Non so cosa sarà l’avvenire. L’umanitario ha molte cose da fare, da dire, ma la professionalizzazione tecnica che è stata molto importante negli ultimi 10 anni deve accompagnarsi con uno sforzo di riflessione sui punti forti e sui limiti. L’umanitario non può accontentarsi di essere un dispiegamento di mezzi e di servizi. L’occidente si riacquista l’anima a colpi di euro: è il credere alla virtù miracolosa dei soldi che è sviante. Su questo gli umanitari dovranno riflettere.

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