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Albania, la rotta nascosta

Intervista a Matteo Astuti e Mira Kola, progetto Medea di ASGI

Medea 1 è un progetto ideato da ASGI per difendere i diritti dei cittadini stranieri in arrivo in Italia attraverso le ricerche sul campo, il contenzioso strategico e operazioni di advocacy. Produce rapporti di monitoraggio, analisi giuridiche e approfondimenti sulla rotta balcanica e sui porti adriatici. Lo scorso giugno una sua delegazione è stata in Albania per raccogliere informazioni sulla parte di rotta balcanica che vi transita. Come rappresentanti di questa delegazione abbiamo avuto l’occasione di intervistare Matteo Astuti e Mira Kola.

MP: Matteo, Mira, cominciamo dalle ragioni del vostro viaggio in Albania. In un articolo già pubblicato sul tema, le avvocate Anna Brambilla ed Erminia Rizzi riportano che siete partiti per monitorare la situazione, dal momento che l’Albania è stato il primo paese terzo in cui Frontex ha avviato operazioni finalizzate al controllo dei confini. Qual è stata l’impressione finale di questo vostro sopralluogo?

Matteo: La presenza di Frontex è visibile, a partire dai due valichi principali al confine con la Grecia: Kapshticë e Kakavia. A Kapshticë abbiamo visto mezzi di Frontex all’interno del campo OIM. Su questo confine abbiamo fatto una breve escursione nel villaggio di Trestenik, sotto una collina al confine con la Grecia, in cui i locali ci hanno raccontato che i passaggi della polizia sono ordinari, soprattutto di notte. A Kakavia, nei pressi di Girocastro, c’è un ufficio di Frontex nei pressi del valico frontiera, ed è lì la presenza più strutturata; in quella circostanza abbiamo chiesto loro un colloquio e ci è stato risposto di fare riferimento a Varsavia. Infine abbiamo avvistato Frontex all’interno dell’aeroporto di Rinas; questo incontro è stato forse il più inaspettato, dal momento in cui la Joint Operation2 lanciata nel 2019 aveva come obiettivo dichiarato il controllo della frontiera sud. Probabilmente questa presenza è da ricollegarsi a dei nuovi accordi stipulati lo scorso marzo. Con questi accordi, sembrerebbe che Frontex abbia chiesto al governo albanese la disponibilità di porti ed aeroporti per attività di monitoraggio e di controllo. Se la loro presenza lì fosse finalizzata a rimpatri dall’Albania verso altri paesi, a rimpatri verso l’Albania o ad operazioni di controllo di documenti non ci è stato chiaro.

Mira: Io sono albanese, e vedere in prima persona la massiccia presenza di Frontex in Albania mi ha colpito molto. In Albania si parla da molto tempo dell’entrata nell’Unione Europea, e nel momento in cui ho visto Frontex operativa in quei luoghi mi è stato subito chiaro che l’Albania farebbe qualsiasi cosa pur di compiacere l’Unione Europea, anche avere in casa questa massiccia presenza poliziesca senza porsi domande in merito.

MP: Il segmento di rotta balcanica che passa per l’Albania intercetta anche il mare. Questo è un elemento diverso da altri paesi balcanici. Sono documentati respingimenti dai porti albanesi e l’arrivo di migranti via mare respinti dai porti di Bari e di Brindisi. Siete stati anche su qualche segmento costiero?

Matteo: Sì, a Durazzo e a Valona. Il progetto Medea segue nello specifico la questione dei respingimenti adriatici. Il nostro sopralluogo in Albania nasce non solo dall’idea di mappare il ruolo di Frontex nella regione e analizzare il funzionamento del sistema di asilo albanese, ma anche per sondare la situazione ai porti.

Mira: Quando siamo stati a Durazzo, abbiamo avuto l’opportunità di incontrare delle persone in transito. In Albania la presenza dei migranti non è evidente come in Bosnia, tuttavia è un segmento che viene tentato. Bisogna anche ricordare che storicamente c’è una grande differenza tra Durazzo e Valona. Nel 1997, Valona si è proclamata città indipendente, pertanto qui c’è un controllo della criminalità organizzata molto forte: ancor più che a Durazzo e nel resto del territorio albanese, non abbiamo percepito la presenza dei migranti.

MP: Leggendo interviste e relazioni già pubblicate del vostro viaggio in Albania, ci ha molto colpito l’aspetto dell’invisibilità, assente in altri paesi balcanici; in Bosnia, sul confine con la Croazia, i migranti vengono allontanati ciclicamente dai centri abitati con delle operazioni di sgombero, ma i migranti cacciati dalle strutture sgomberate si riversano nei parchi pubblici: l’allontanamento è fittizio. Dell’Albania è stata riportata un’atmosfera molto diversa. Pensate sia di interesse delle politiche interne albanesi tentare di silenziare quanto più possibile il fenomeno?

Mira: Io ne sono convinta. Un altro tema interessante da considerare a questo proposito è quello della narrazione che viene fatta intorno alla questione. Sostanzialmente, la stampa locale non narra la rotta balcanica. Tutto il contenuto degli articoli che ho letto sul tema è centrato su poche espressioni ricorrenti: “persone in transito”, “trafficanti”. A parte nelle zone di confine, in cui le persone sono più sensibilizzate al transito dei migranti, nel resto del paese la rotta non si conosce. Nonostante siamo noi stessi un popolo che emigra.

MP: Trovi strana questa mancanza di “empatia” verso la condizione di migrante?

Mira: Non so se trovo strana la mancanza di empatia. Sto parlando soprattutto di presa di posizione politica. Del resto, le persone che abbiamo incontrato ci hanno detto che c’è supporto umanitario da parte della popolazione. Quello che mi auspico è che ci sia anche una presa di posizione politica. Secondo me, questo silenzio della società civile è collegato con il silenziamento da parte dei media della questione.

MP: Ti sei fatta un’idea del perché la società civile, “empatica” con i migranti in transito, non operi questo salto politico nel guardare alla questione?

Mira: Semplicemente non conosce le procedure e le prassi con cui guardare politicamente la questione. C’è da considerare anche il filtro dato dal mito dell’Unione Europea, “America degli anni ’90” per l’Albania: c’è una fiducia cieca nell’Unione Europea. Penso che le persone non possano immaginare che l’Europa occidentale del 2021 faccia queste cose. A questo si aggiunge che c’è in Albania la percezione di essere un popolo bisognoso in prima persona.

Matteo: Oltre a tutto quello che ha detto Mira, penso ci sia anche il tema della criminalizzazione della solidarietà, che ha inibito dei moti spontanei che possono essere nati. Anche operatori che si occupano in varie forme dell’accoglienza dei migranti manifestavano disagio e paura collegate al loro svolgimento di attività di soccorso, o anche del puro sostegno immediato: consegna di cibo e di acqua.

MP: La questione migratoria è stata strumentalizzata in molti paesi balcanici, e noi in Italia lo vediamo con Salvini. Un giornalista che si è occupato molto di Balcani, Christian Elia, scrivendo dell’Albania nel 2019 ha dichiarato: “In Albania, rispetto ai popoli in cammino, c’è un clima molto differente che nel resto della regione e dell’Europa. È come se, per l’assenza sostanziale del tema nel conflitto politico, si riuscisse a mantenere quella ragionevole, lucida, umanità che è naturale quando si parla di esseri umani senza il filtro della speculazione politica”3. Qual è la percezione dei migranti nell’opinione pubblica albanese nel 2021?

Matteo: Due anni sono un’infinità di tempo. Il 2018 e il 2019 sono stati anni particolari per l’Albania, i flussi cominciavano a diventare più massicci, raggiungendo i picchi massimi nel 2020: si era in una fase in cui il fenomeno era percepito ancora molto poco. L’altro intervento che ha dato una svolta alla percezione comune è quello politico-normativo, di tipo repressivo.

Mira: Come si diceva prima, manca una consapevolezza vera del fenomeno: c’è umanità – una cosa molto bella da narrare, certo – ma non c’è chi prende posizione sul fatto che le persone vengano lasciate in strada o subiscano determinati trattamenti.

MP: Intorno ai migranti della rotta balcanica in Albania c’è quindi poca consapevolezza politica e poca partecipazione collettiva. Siete riusciti ad entrare in contatto con alcune di queste realtà o la vostra delegazione è rimasta separata dai locali?

Matteo: Se parliamo di attivismo, di associazioni che nascono spontaneamente intorno a un ideale, non abbiamo intercettato niente del genere. Abbiamo incontrato persone che fanno parte di organizzazioni coinvolte nel sistema di gestione delle frontiere o nel sistema di asilo. I soggetti forse un po’ più liberi da queste dinamiche fanno capo a congregazioni di carattere religioso, che però si muovono in maniera molto estemporanea, segnalando alcuni casi particolari. In effetti, prima di partire la nostra delegazione si era posta l’obiettivo strategico di imbastire una rete su quel territorio, ma non possiamo dire di esserci riusciti. Stiamo quindi ipotizzando di costruire reti non legate al mondo dell’attivismo associativo ma al mondo accademico e studentesco. Del resto, se pensiamo al network che gravita attorno alla rotta balcanica, in particolare Border Violence Monitoring Network, nessuna organizzazione che lavora in territorio albanese appartiene a questo universo. La nostra impressione è stata che tutto quanto pertiene i migranti in transito fosse costretto nei canali istituzionali e fortemente politicizzato, e che ci fosse poco spazio perché nascessero movimenti spontanei dal basso.

Mira: C’è da dire che siamo stati in Albania solo una settimana, girando tantissimo, e forse era un tempo insufficiente per riuscire a sondare il rumore di tutti i movimenti. Forse qualcosa si sta creando, ma non siamo riusciti a percepirlo.

MP: Della vostra delegazione fanno parte anche avvocati ed avvocate e il progetto ha anche un taglio giuridico. Negli stati aderenti all’Unione Europea ci sono veri e propri pattern ricorrenti in termini di violazione dei diritti umani dei migranti: respingimenti non formalizzati, valutazione sommaria delle richieste di asilo, violazione del principio di superiore interesse del minore. Qual è la situazione in Albania sotto il profilo giuridico e normativo?

Mira: Testimonianze dirette riferiscono: “I poliziotti albanesi sono più gentili di quelli croati”, una dichiarazione secondo me molto triste e poco indicativa: è facile non raggiungere i livelli di violenza della polizia croata. Mi ha colpito sentir dire, anche negli incontri formali, che quando le persone in transito vengono intercettate sul confine albanese, laddove la domanda dovrebbe essere se ci sia o meno la volontà di richiedere protezione internazionale, questa domanda viene sostituita da “dove vuoi andare?”: questa prassi non fa scattare la macchina della protezione internazionale dove necessario. Ricordo che a Bolzano prassi simili erano condotte nel 2014, quando quel confine era particolarmente poroso e i migranti non venivano registrati in alcun sistema ufficiale.

Matteo: L’aspetto più interessante dal punto di vista giuridico è legato alle procedure di pre-screening. È da notare – e già questo è indicativo – che al riguardo sono emerse informazioni contrastanti: al valico di Kakavia ci sono due uffici separati, uno di Frontex e uno della polizia di frontiera; ora, alcune persone hanno dichiarato che i migranti che arrivano vengono sottoposti a due colloqui separati, altri invece hanno smentito qualunque tipo di coinvolgimento di Frontex nella fase di pre-screening. Un altro dato interessante che abbiamo raccolto è che dall’aprile 2020 ad oggi c’è stato un forte crollo delle domande di asilo; fino ad alcuni anni fa, il numero di richieste di asilo era anche abbastanza elevato per un paese come l’Albania. Da un certo momento in poi, sembra che nessuno chieda più asilo. Perché? Da quanto ci è stato riferito, dal momento che la polizia di frontiera non è consapevole che le domande sono strumentali, non pone neanche più la possibilità di fare questa richiesta; a volte respinge, a volte lascia passare, ma tendenzialmente non raccoglie più eventuali richieste di asilo. Inoltre, non ci è chiaro chi faccia un’informativa legale nella fase di pre-screening; per mandato, dovrebbe essere UNHCR, o un soggetto incaricato da UNHCR, che in Albania è Caritas Albania; ma nei fatti quest’ultima fa solo attività di tipo umanitario. Altri aspetti riguardano l’identificazione dei minori, e in generale l’assenza di modalità di valutazione della vulnerabilità delle categorie delle persone che arrivano, e il fatto che non ci sia personale femminile nella polizia di frontiera, elemento determinante in questa fase. Tutto questo genera una situazione molto caotica, conseguenza di scelte politiche estemporanee e improvvisate.

MP: Eppure si legge ovunque che il quadro normativo sull’immigrazione in Albania viene raffinato e innovato sempre di più. Perché questa attenzione all’aspetto normativo della questione? Rientra nell’esigenza dell’Albania di compiacere l’Unione Europea?

Matteo: Sì, chiaramente. L’Albania ha ufficialmente iniziato i negoziati di accesso all’Unione, dunque deve dare riscontri immediati dal punto di vista dell’acquis comunitario, con un apparato che deve risultargli conforme. Ma nei fatti, a fronte di un apparato normativo sempre più strutturato – si pensi alla nuova legge sull’asilo approvata ad inizio anno, o ad altri provvedimenti recenti che hanno modificato in modo significativo il loro testo di riferimento sull’immigrazione risalente al 2013 – vi sono prassi approssimative e asistematiche.

MP: L’Albania è un paese in movimento. Nel 2019 aveva il maggior numero di richiedenti asilo in termini di popolazione, al primo posto con 59 domande per 10.000 abitanti, secondo i dati dell’Ufficio Europeo di sostegno per l’Asilo (EASO), superando con un margine significativo persino paesi come la Siria o l’Afghanistan. Cosa potete dirci su questa sovrapposizione delle “due migrazioni” in termini di politica interna?

Mira: Nel concreto, gli albanesi non sono sconvolti dai modi con cui i migranti tentano la loro traversata: salire sui barconi è una cosa che fanno anche gli stessi albanesi. Questo colpisce, soprattutto quando si domanda qualcosa delle persone in transito e nelle risposte si fa riferimento agli albanesi che provano ad uscire, soprattutto minori e donne vittime di violenza domestica. La “via di fuga” da cui negli anni ’90 gli albanesi andavano in Grecia, e da cui oggi i migranti extra-europei arrivano in Albania, è la stessa. Nonostante questo “doppio binario” sia ben presente, nell’immaginario comune i due flussi non sono parificati; nel loro sentire, gli albanesi sono convinti di avere “più diritto” o “più bisogno” di migrare dalla propria terra. Un altro modo di interpretare la scelta di partire è poi quello del tradimento, per cui chi parte sceglie la propria realizzazione individuale sottraendo forze ed energie al proprio paese.

Matteo: Quella sorta di “empatia” di cui si parlava prima non riguarda le motivazioni ma le modalità con cui determinate cose vengono fatte; quando gli albanesi ci raccontavano di come i migranti attraversano la frontiera, ce lo raccontavano quasi con un sorriso. Non si tratta di un sorriso di spregio ma di complicità, un sorriso che svela “è esattamente quello che facciamo noi, che proviamo a passare le stesse frontiere ed incontriamo gli stessi problemi”.

MP: L’Albania è membro della NATO, e in quanto tale ha il dovere, quantomeno formale, di accogliere gli afghani diretti negli Stati Uniti, che passeranno in grandi flussi in Albania fino ai nostri confini. Oggi l’opinione pubblica albanese è divisa riguardo a questa scelta del governo. Come evolverà la situazione in Albania rispetto a questa nuova emergenza?

Mira: L’Albania tre anni fa ha ospitato i mujaheddin iraniani4. Edi Rama ha abbattuto il teatro nazionale di notte durante il lock-down: può fare quello che vuole indisturbato in Albania. E non credo che ci saranno movimenti di piazza in opposizione all’arrivo degli afghani. Sono da tener presenti i rapporti che l’Albania ha con l’Unione Europea e gli Stati Uniti, ma anche con la Turchia di Erdogan, che sta estendendo nella regione la propria sfera di influenza. Temo che Erdogan potrebbe convincere Edi Rama a diventare il suo braccio destro nel ricatto dell’Unione Europea nella questione dei migranti.

Matteo: Mi sembra di aver percepito anche un po’ di disaffezione verso il mito dell’Unione Europea. Questo sentimento unito alle ambizioni della Turchia potrebbe generare nuovi equilibri in quella regione.

MP: Tornerete in Albania per questo progetto?

Matteo: La scelta di andare in Albania era stata motivata dal forte legame del progetto Medea con la rotta adriatica; d’altra parte, a fronte di paesi famosi fin quasi ad essere abusati, come la Bosnia, anche da confronti con altri ricercatori l’Albania ci è sembrato un paese nuovo, non stressato dalla lente mediatica. Come potrebbero essere in futuro il Kosovo, la Macedonia, il Montenegro.

  1. Per approfondire gli obiettivi del progetto Medea: https://medea.asgi.it/
  2. https://www.euractiv.com/section/eu-elections-2019/news/frontex-launches-first-joint-operation-outside-eu-in-albania/
  3. https://openmigration.org/analisi/albania-lumanita-che-resta-sulla-rotta-balcanica/
  4. https://it.insideover.com/politica/quartier-generale-fortificato-dei-mujaheddin-iraniani-albania.html

Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.