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Alcune considerazioni sul problema degli alloggi per i cittadini extracomunitari

Purtroppo lo spunto per parlare di questo argomento ci viene offerto dall’emergenza sgomberi verificatasi a Treviso, che rappresenta solamente la punta di un iceberg considerato che la situazione è praticamente la stessa un po’ dappertutto.
Per quanto riguarda gli sgomberi precisiamo che il reato di “invasione di terreni o edifici” (art. 633 c.p. ove si prevede che Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto …) posto in essere senza violenza sulle cose e persone, non impedisce il rinnovo del permesso di soggiorno.

Si evidenzia infatti che anche se l’art. 4, comma 3 del T.U. sull’Immigrazione. – così come modificato dalla Bossi Fini – prevede che le persone condannate per i delitti elencati agli articoli 380, commi 1 e 2 del codice di procedura penale non possano rinnovare il pds, è importante notare invece come la tipologia di reato sopra specificata non rientra nella elencazione dei reati « ostativi » al rinnovo del pds.
Sul tema degli alloggi dobbiamo precisare che la legge Bossi Fini, laddove prevede (art. 5 bis, lett.a)) che il datore di lavoro debba garantire la disponibilità di un alloggio, in realtà attribuisce allo stesso il semplice onere di fare una dichiarazione sotto la propria responsabilità, ovvero di dichiarare che ha verificato la disponibilità di un alloggio da parte dell’immigrato.

Stupisce quanto dichiarato alla stampa locale dall’Assessore regionale all’Immigrazione Raffaele Zanon (An), che continua a sostenere (in linea tra l’altro con le affermazioni della Lega) come sia uno scandalo che gli imprenditori non procurino l’alloggio ai propri dipendenti perché – sempre secondo lui – la legge Bossi – Fini li obbligherebbe a farlo.
In realtà – ne abbiamo già parlato –la legge non impone al datore di lavoro di procurare direttamente l’alloggio.

Perché la norma ha questo significato ?
Non potrebbe averne nessuno di diverso perchè non esiste una norma che imponga al datore di lavoro di fornire al lavoratore un alloggio, oltre alla retribuzione contrattuale; ciò, tra l’altro, costituirebbe una discriminazione tra lavoratori immigrati e italiani.
Di conseguenza in concreto accade che gli immigrati si devono procurare un alloggio e che comunque se lo devono pagare loro (salvo che il datore di lavoro possa in tal senso aiutarli eventualmente intercedendo per fornire una garanzia) e la prevista garanzia da parte del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio rappresenta una sorta di dichiarazione resa dal datore di lavoro sotto la propria responsabilità, circa l’avvenuta verifica sulla disponibilità attuale (nel momento in cui viene fatta la dichiarazione) di un alloggio, il che non implica affatto che esso sia stato procurato direttamente o indirettamente dal datore di lavoro né che egli pagherà il relativo costo. In realtà –se non ci fosse il nuovo problema della “idoneità” degli alloggi, che vedremo più oltre– nulla cambia perché anche precedentemente alla legge Bossi-Fini era prevista la verifica della disponibilità di un alloggio per autorizzare l’ingresso dall’estero, come pure per rinnovare il permesso di soggiorno.

Le forme lecite per documentare la disponibilità di un alloggio
E bene precisare che la disponibilità di un alloggio – così come prevista dalla legge – non necessariamente corrisponde ad un contratto di affitto, ma può essere anche documentata con modalità differenti che si elencano di seguito.

Dichiarazione di ospitalità: la dichiarazione, firmata dall’interessato, deve essere accompagnata dalla fotocopia del contratto di locazione registrato e intestato alla persona che ospita lo straniero unitamente alla fotocopia del suo documento di identità.

Comodato o “prestito” dell’alloggio: va fatto risultare con dichiarazione scritta e idonea documentazione che dimostri qual’è l’alloggio lasciato in uso gratuito e a che titolo la persona lo presta, per esempio con una fotocopia del contratto di locazione registrato e sempre con la fotocopia del documento di identità del dichiarante.

Contratto di locazione: è l’ipotesi « normale » che consiste nella stipula di un contratto di affitto intestato direttamente al lavoratore immigrato. Naturalmente, in questo caso le sorti del rapporto di lavoro non possono influenzare il godimento dell’alloggio, nemmeno quando questo è stato assegnato dal datore di lavoro; quindi, se interviene il licenziamento o vi sono le dimissioni il lavoratore non è obbligato a lasciare l’alloggio. Da tenere presente che l’esistenza giuridica di un contratto di locazione può essere dimostrata anche se non c’è un formale contratto scritto, in quanto basta dimostrare che si paga un canone mensile (anche mediante trattenuta sulla busta paga) perché si constati l’esistenza di un contratto di locazione.

Contratto ad uso foresteria: in questo caso è il datore di lavoro che stipula in proprio il contratto di locazione ma si tratta di una soluzione impropria anche se praticata in molti casi. Infatti, questo tipo di contratto può essere validamente applicato solo nel caso in cui vi sia un utilizzo effettivamente transitorio dell’abitazione da parte delle persone che vi devono abitare ed è quindi contrario alle disposizioni di legge in materia di locazione. E’ bene precisare che alle condizioni contrattuali contrarie alla legge –ovvero l’uso transitorio dell’immobile– si sostituiscono per legge automaticamente le condizioni previste dalla disciplina generale delle locazioni. In pratica, un contratto ad uso foresteria per un dipendente straniero che non è “di passaggio” ma che ha invece una sede di lavoro stabile risulta stipulato in frode alla legge e quindi si trasforma automaticamente in un normale contratto di locazione della durata minima di quattro anni. In pratica, il lavoratore può pretendere di abitare legittimamente l’immobile anche oltre la scadenza originariamente fissata (di solito un anno) perché tale termine non è valido.

Centro di accoglienza: si tratta della permanenza in un centro di accoglienza con la disponibilità di un posto letto, alle condizioni stabilite dal regolamento della singola struttura (che possono essere molto diverse tra loro).

Retribuzione in natura: si tratta di una ipotesi particolare. Il datore di lavoro può stipulare un contratto di lavoro individuale con un lavoratore immigrato pattuendo che una parte della retribuzione verrà erogata anziché in denaro in natura, sotto forma di godimento di un alloggio o posto letto nell’ambito di un alloggio collettivo assegnato a più dipendenti. In questo caso non si ha un vero contratto di affitto né una semplice ospitalità, ma si tratta dell’ utilizzo di un alloggio che viene considerato come una vera e propria retribuzione in natura strettamente collegata al mantenimento in atto del rapporto di lavoro.

Esempio pratico relativo alla “retribuzione in natura” – Se un lavoratore riceve in busta paga 1.000 euro al mese, il datore di lavoro può stipulare con il medesimo un contratto integrativo di lavoro ove si stabilisce che la retribuzione viene indicata nell’ammontare totale nella busta paga (anche ai fini del calcolo delle retribuzioni accessorie, come la tredicesima, le ferie, il T.F.R., ecc., nonché di contributi e ritenute fiscali), precisando però che 800 euro verranno corrisposti in denaro liquido e il resto sotto forma di retribuzione in natura mediante godimento di un alloggio o di una parte di esso da condividere con altri colleghi (il datore di lavoro non potrà decurtare la retribuzione a suo piacimento e quindi il valore locativo dovrà essere effettivamente corrispondente, non potendosi considerare legittima l’imposizione di un valore arbitrario).
Si deve però precisare che l’evidente controindicazione della soluzione appena prospettata è quella che, nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro, termina immediatamente anche il godimento dell’alloggio. Proviamo ad immaginare cosa potrebbe succedere nel caso in cui l’alloggio non fosse utilizzato da singoli lavoratori in forma collettiva, ma anche dai rispettivi familiari. Si potrebbero verificare situazioni di ricatto poste in essere dal datore di lavoro perché, di fronte al rischio di perdere contemporaneamente sia il lavoro che l’alloggio non solo per sé, ma in taluni casi per tutti i suoi familiari, il lavoratore si troverebbe in una situazione in cui, di fatto, potrebbe sentirsi costretto ad accettare qualsiasi condizione di lavoro e qualsiasi trattamento retributivo. E’ evidente pertanto che tale soluzione non risulta essere ottimale per la sistemazione dei lavoratori immigrati.
Non è quindi delegando la questione degli alloggi ai datori di lavoro dei lavoratori immigrati che si può risolvere il problema, ma la soluzione dovrebbe essere quella di una politica dell’amministrazione pubblica, magari in collaborazione con associazioni imprenditoriali e sindacali; tutto questo però manca o è quantomeno insufficiente, nonostante vi siano gli strumenti normativi per intervenire in questa materia.

Cosa prevede la legge?
L’art. 40, comma 1, del T.U. sull’ Immigrazione (D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) prevede espressamente: le Regioni in collaborazione con le province e con i comuni e con le associazioni e le organizzazioni di volontariato predispongono centri di accoglienza destinati ad ospitare, anche in strutture ospitanti cittadini italiani o cittadini di altri paesi dell’Unione europea, stranieri regolarmente soggiornanti per motivi diversi dal turismo, che siano temporaneamente impossibilitati a provvedere autonomamente alle proprie esigenze alloggiative e di sussistenza. Lo stesso art. 40 al comma 2 prevede inoltre che i criteri di accoglienza sono finalizzati a rendere autosufficienti gli stranieri ivi ospitati nel più breve tempo possibile, e che gli stessi provvedono ove possibile, ai servizi sociali e culturali idonei a favorire l’autonomia e l’inserimento sociale degli ospiti. Non dovrebbe quindi trattarsi di semplici posti letto vigilati da qualche specie di bidello o poliziotto privato, ma la normativa esaminata si riferisce a veri centri di accoglienza dove svolgere non solo un’attività di alloggio, ma anche di orientamento, sostegno, assistenza per i lavoratori immigrati, soprattutto per quelli di recente arrivo; ciò al fine di favorire il loro inserimento e l’acquisizione di tutte le informazioni che possono essere utili per rendersi il più rapidamente autonomi e autosufficienti.

In realtà però la politica dei centri di accoglienza (non solo nel Veneto, ma anche in moltissime altre città d’Italia) soddisfa di fatto qualche progetto o gruppo d’interesse, ma non riesce in termini quantitativi a soddisfare in maniera minimamente percepibile il fabbisogno alloggiativo dei lavoratori immigrati che, è importante sottolinearlo, sono disposti a pagare un normale canone di mercato per fruire di un posto letto o di un appartamento.
Risulta pertanto con evidenza che, pur essendo l’immigrato disposto a pagare il necessario per poter vivere decorosamente, non si intravedono comunque soluzioni dal medesimo percorribili.

Peraltro, lo stesso articolo 40 del T.U., nel suo testo originario prevedeva che gli stranieri regolarmente soggiornanti fossero equiparati ai cittadini italiani per la possibilità di partecipare alla assegnazione di alloggi di edilizia di residenza pubblica. Questa equiparazione è stata sostanzialmente abrogata dalla legge Bossi-Fini (art. 27, comma 1, lett. d), L. 30 luglio 2002, n. 189) che ha modificato il testo dell’art. 40 prevedendo al comma 6 che gli stranieri titolari di carta di soggiorno e gli stranieri regolarmente soggiornanti in possesso di pds almeno biennale e che esercitano una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo hanno diritto di accedere, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica.
Tale modifica ha comportato un sostanziale cambiamento perchè sappiamo che gli stranieri titolari di carta di soggiorno (espressamente disciplinata all’art. 9, T.U. sull’Immigrazione) non sono molti, ma, soprattutto, gli stranieri in possesso di un regolare pds per lavoro sono di fatto fortemente ostacolati nella possibilità di partecipare all’assegnazione di alloggi, come frequentemente viene segnalato.
Peraltro la novità introdotta dalla legge Bossi-Fini e che emerge dalla lettera della norma sopra citata, è che hanno il diritto di accedere agli alloggi di edilizia residenziale pubblica esclusivamente gli stranieri regolarmente soggiornanti che esercitano una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, con evidente esclusione pertanto degli iscritti alle liste di collocamento. Questa norma, interpretata alla lettera, potrebbe quindi significare che solo chi sta lavorando e non chi è in una fase di disoccupazione, può effettivamente ottenere l’assegnazione di un alloggio. Ma questo non è tutto perché il peggio è che la norma prevede che questa equiparazione possa riconoscersi solo nei confronti di chi ha un permesso di soggiorno di durata almeno biennale, mentre nella pratica tocca fare i conti nella maggior parte dei casi con lavoratori provvisti di permesso di durata annuale o addirittura inferiore: infatti, anche volendo trascurare che tutti i neo regolarizzati hanno ottenuto un pds di un anno, la legge Bossi-Fini ha stabilito il principio per cui il contratto di soggiorno (quindi il permesso di soggiorno) deve avere durata corrispondente al contratto di lavoro se questo è a tempo determinato, con la conseguenza che l’estensione praticamente generalizzata dei contratti di lavoro a tempo determinato produce prevalentemente permessi di soggiorno di durata annuale, a priori esclusi dalla possibilità di inserimento nelle graduatorie.
Da tale previsione può discendere che molti uffici comunali competenti, operino una sorta di decadenza dalla graduatoria specifica per l’assegnazione degli alloggi agli stranieri disoccupati o comunque a quelli che hanno rinnovato il permesso di soggiorno per periodi inferiori a due anni. Si può pertanto ben comprendere che in questa situazione gli uffici comunali, che dovrebbero assegnare gli alloggi, avranno buon gioco nel rispondere che lo straniero non rientra nei parametri previsti dalla legge.
Dobbiamo tuttavia considerare che il regime di soggiorno e di lavoro dei lavoratori immigrati regolarmente soggiornanti oltre che dalla legge Bossi-Fini è regolato anche dalla Convenzione Internazionale dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) n.143 del 1975 alla quale l’Italia ha dato adesione fin dal 1986. Questa convenzione stabilisce in principio di piena parità di trattamento e di opportunità anche per quel che riguarda l’acceso ai servizi di sicurezza sociale e agli alloggi tra lavoratori immigrati regolarmente soggiornanti e lavoratori nazionali.

Questo non è un principio puramente astratto ed obbliga il legislatore italiano a rispettare questa regola.
Di conseguenza, la legge nazionale che fosse in contrasto con questo principio cardine relativo alla condizione dello straniero, violerebbe la nostra Costituzione (con relativa possibilità di sottoporre alla Corte Costituzionale la questione di legittimità relativa alla norma stessa): infatti, l’art 10, comma 2, prevede espressamente che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge nazionale ma stabilisce anche che essa debba essere conforme alle norme ed ai trattati internazionali cui l’Italia ha aderito, tra cui rientra la Convenzione OIL sopra citata. E’ chiaro che le nuove condizioni imposte dalla Bossi-Fini comportano un evidente contrasto con il principio di piena parità di trattamento di cui alla Convenzione, e ciò soprattutto relativamente alla questione dell’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica perché, come si è prima ampiamente analizzato, la restrizione ai soli titolari di carta di soggiorno o ai soli titolari di pds almeno biennale, comporta una differenziazione tra immigrati regolarmente soggiornanti per motivi di lavoro. In altre parole, sembra palesemente in contrasto con la stessa Convenzione operare una distinzione tra immigrati di serie A in possesso di carta di soggiorno o con soggiorno biennale, e immigrati di serie B in possesso di pds di un anno o meno di due anni per il solo fatto che stanno lavorando con contratti a termine o con contratti di lavoro interinale.

La legge Bossi–Fini risulterebbe operare una violazione ancora più visibile se dovesse risultare confermato che il rinnovo del contratto di soggiorno continuerà ad essere condizionato ogni volta alla verifica sulla disponibilità di un alloggio idoneo (art. 5, T.U. sull’Immigrazione), perché in tal modo, di fatto, richiederebbe per la stipula di un normale contratto di lavoro delle condizioni che non solo sono estranee al rapporto di lavoro ma che, sopratutto, sono discriminatorie rispetto ai lavoratori nazionali e pregiudicano le opportunità di accesso all’occupazione.
Queste argomentazioni non sono pura filosofia ed anzi dovranno essere affrontate in sede di interpretazione da parte della magistratura, sia pure con i consueti tempi lunghi dell’amministrazione della giustizia, e potrebbero prima o poi pervenire alla Corte Costituzionale, che al momento è già gravata dall’esame di ben 460 ordinanze di diversi giudici, tute riferite a profili di legittimità costituzionale della legge Bossi-Fini.
Il problema degli alloggi risulta poi ulteriormente aggravato se si considera che, a seguito della legge Bossi-Fini, ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno si prevede che in sede di stipula del contratto di soggiorno debba essere dimostrata la disponibilità di un alloggio che rispetti i parametri stabiliti dalle rispettive norme regionali in materia di edilizia residenziale pubblica. Si tratta di parametri sostanzialmente riferiti ad una “confortevole” proporzione tra la superficie degli alloggi ed il numero degli occupanti: essi sono stati definiti in origine per dare teoriche garanzie agli assegnatari di alloggi popolari ma si sa benissimo che, nella quasi totalità dei casi, non vengono rispettati per insufficienza degli alloggi di fronte alla sovrastante quantità di domande di assegnazione; come pure si sa che anche la maggior parte dei cittadini che hanno acquisito –in affitto o in proprietà— i loro alloggi sul libero mercato vivono in condizioni definibili come “sovraffollamento” in base a tali standards. In pratica, si chiede ad un immigrato di dimostrare che vive in un alloggio sufficientemente confortevole per sé ed i propri familiari a carico quando si sa benissimo che il suo stipendio non basterebbe per pagare il relativo canone di affitto, sicché è facilmente intuibile che questa imposta dimostrazione (o finzione, per meglio dire) del proprio “benessere” non mancherà di produrre molte carte false ed ulteriori forme di sfruttamento delle condizioni di bisogno.

A tutto ciò si devono aggiungere i tempi di rinnovo dei pds delle questure che sono ulteriormente prolungati a causa della concentrazione delle pratiche di regolarizzazione.
Esempio pratico – L’appuntamento per un normale rinnovo di un permesso di soggiorno per lavoro presso la questura di Venezia, viene oggi fissato a distanza di sei mesi. Nel frattempo l’interessato dovrebbe andare in giro con la speranza di proseguire il rapporto di lavoro in corso o di riuscire a costituirne uno di nuovo, cosa che, evidentemente è molto difficile se si è in possesso della semplice ricevuta della prenotazione della questura. Inoltre quando dopo sei mesi l’interessato si presenterà alla questura se ne andrà in giro ancora per un bel po’ di tempo con la ricevuta che dimostra che ha presentato le carte, ma non ancora con il permesso di soggiorno. Si può pertanto ben comprendere che in questa situazione non solo gli interessati risulteranno molto probabilmente disoccupati (e per lo più costretti a lavorare in nero) ma inoltre gli uffici comunali, che dovrebbero assegnare gli alloggi, avranno buon gioco nel rispondere che lo straniero non rientra nei parametri previsti dalla legge.