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Altra frontiera: il campo di Tel Abbas

da Tripoli, un articolo di Mazrou Lejla

Il campo di Tel Abbas

Uscire dalla città di Beirut rappresenta sempre un’impresa non indifferente. Qui è il traffico che regna sovrano per le strade e purtroppo contro di esso non si può fare molto. Essere preparati e pianificare la partenza per tempo potrebbe rivelarsi del tutto inutile.

Per dirigersi a Tripoli si deve partire da Daoura, quartiere alla periferia di Beirut, crocevia di migranti, prostituzione e di qualsiasi altra attività illegale in città.

Essendo uno dei punti di accesso della città è controllato militarmente e si trova, giusto all’altezza dell’imbocco dell’autostrada, un check point dell’esercito. Una torretta, un tank e diversi soldati armati rappresentano il peso dei muscoli dell’esercito libanese nella zona.

L’autostrada è come sempre un’avventura, in teoria in un’ora più o meno si può arrivare a Tripoli ma gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo: incidenti, traffico, l’unica cosa certa è la coda che si trova costante all’altro check point militare dopo Byblos.
Solo dopo diverse peripezie e sorpassi notevoli di un circuito di formula uno siamo arrivati in città.

Il campo di Tel Abbas
Il campo di Tel Abbas

Tripoli, è la seconda città più grande del Libano ed è a maggioranza sunnita, con una piccola percentuale di popolazione cristiana e sciita. A dissipare ogni dubbio sulla sua appartenenza religiosa e politica trovo in una delle piazze principali una grande scritta “Allah” illuminata di verde e con auto-parlanti a tutto volume, mentre sparsi ovunque sul territorio urbano si notano i poster pubblicitari di Hariri. Questa città deve essere uno dei suoi feudi e sicuro serbatoio di voti per il suo partito.

Per raggiungere Tel Abbas si deve continuare per 25km in direzione Nord ed entrare nel dipartimento amministrativo di Akkar, alla frontiera con la Siria.

Percorrendo la litoranea metto a fuoco i contrasti del paesaggio: da una parte le montagne innevate del monte Libano e dall’altra il mare, nel mezzo una vallata polverosa e rigogliosa allo stesso tempo. La strada scorre veloce, si susseguono case color ocra e negozi fatiscenti che vendono di tutto. Finalmente lontano da Beirut percepisco una chiare e forte sensazione: sono in Medio-oriente. La capitale è fin troppo occidentale ma spostandosi fuori dal suo epicentro si riesce a vivere e vedere tutto un altro Libano.

Ad un certo punto svolto verso l’entroterra. La frontiera siriana si trova molto vicina circa a 3-4 chilometri di distanza. Ancora altri 10 chilometri e arrivo al villaggio di Tel Abbas. Nel paese mi perdo ripetutamente e solo dopo diversi tentativi riesco a mettermi in contatto con i ragazzi e le ragazze di “Operazione Colomba”.

Il campo profughi siriano di Tel Abbas si trova a ridosso della strada principale ma essendo dietro una fila di alberi che coprono la vista non è visibile facilmente.
Il campo dove sono sistemati i ragazzi/e con la missione è lo 022, secondo registrazione dell’Unhcr, ed è anche relativamente piccolo: ci sono all’incirca 15 famiglie con un trenta o quaranta bambini/e. Questo piccolo campo forma parte di diversi assembramenti sparpagliati nelle zone limitrofe per arrivare a un totale di oltre 300 famiglie presenti.

Come in Grecia anche in Libano le condizioni di vita dei rifugiati siriani sono abbastanza precarie, aggiungerei quasi un affronto alla dignità: le tende sembrano relativamente grandi, con due spazi giorno/notte, ma solo recentemente sono state isolate e dotate di stufette per l’inverno. Le famiglie sono ormai due anni che vivono in questo terreno, e con le poche risorse a disposizione affrontano inverni particolarmente duri dove si può arrivare a temperature anche sotto lo zero.

Il campo di Tel Abbas
Il campo di Tel Abbas

Date le condizioni anche a Tel Abbas il tema del lavoro nero è una costante, molti degli uomini hanno lavorato nei campi agricoli limitrofi, e naturalmente o sono stati pagati molto poco o ancora oggi aspettano di essere pagati.

Seppur la frontiera con la Siria si trovi solo a 4 chilometri di distanza la preoccupazione principale dei rifugiati riguarda l’esercito libanese. Rispetto ad altre zone del Libano qui si percepisce maggiormente la tensione della guerra dall’altra parte del confine, l’esercito è costantemente in allarme per possibili infiltrazioni jihadiste e perciò reagisce mostrando i muscoli e cercando di intimorire principalmente i rifugiati che sono stanziati in queste zone.

I rifugiati siriani hanno una registrazione parziale tramite l’Unhcr, ma c’è anche una buona percentuale di loro che ancora non è stata registrata.

Tutti indistintamente temono di essere arrestati, anche perché non serve una reale motivazione basta una scusa qualsiasi: sospetti più o meno fondati, mancanza di documenti, perversione del soldato di turno, il tempo, la pioggia, se dal tabaccaio i soldati hanno trovato le sigarette, insomma tutto è relativo. In questa situazione spostarsi è veramente un impresa ardua ed è soprattutto in questo che il lavoro di supporto e monitoraggio di “Operazione Colomba” diventa imprescindibile.

Ad aumentare l’angoscia vige la regola che prima di 72h non si può chiedere informazioni alla polizia sul detenuto, e non è certo comunque che dopo si possano ottenere informazioni. Di solito i racconti di chi ritorna sono intrisi di pestaggi, umiliazioni, torture e intimidazioni.

Dopo la visita mi fermo a sorseggiare il solito thè, ascolta i discorsi di alcuni capi famiglia e percepisco come qui sia molto differente dalla Grecia, seppur anche i migranti in Grecia sentono di essere bloccati, qui lo si è davvero sia burocraticamente che geograficamente. Nessuno di loro può tornare indietro, sono quasi tutti di Homs e recentemente sono arrivate famiglie anche da Aleppo. Non ci sono trafficanti che possono farti arrivare in Germania né in qualche altro paese europeo. Ci ritroviamo schiacciati, da una parte la Siria di Assad e dall’altra il mare, non ci sono molte speranze.

Resto seduto ancora un po’ bevendo il mio thè e scaldandomi le mani davanti alla stufe, nella mia testa scorrono ancora le immagini di Idomeni, da una parte all’altra del Mediterraneo sembra di stare davanti a un film senza fine dove anche i titoli di coda scorrono fin troppo lenti.