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Analisi sullo sgombero e demolizione dei magazzini occupati di Belgrado

di Mai-Britt Ruff, Bordermonitoring.ue - 14 giugno 2017

Belgrado, 11 maggio 2017: il giorno in cui gli ex-magazzini occupati dietro la stazione degli autobus di Belgrado, comunemente chiamati “barracks”, sono stati sgomberati e demoliti.
Sgombero e demolizione però, non sono iniziati di punto in bianco, inaspettatamente, ma sono perfettamente in linea con gli sviluppi delle politiche migratorie serbe e l’adattamento in territorio serbo di azioni e pratiche ben conosciute dai paesi confinanti.
Questo articolo vuole quindi denunciare lo sgombero e la demolizione degli edifici occupati dai migranti a Belgrado, e facendo ciò intende anche analizzare queste pratiche e queste politiche inserendole nel quadro più ampio degli sviluppi politici.
Così come l’esistenza delle “barracks” è fortemente connessa con la reintroduzione del Regime dei Confini in Europa, la loro demolizione non può essere letta separatamente dal più ampio quadro internazionale.
Illustrerò come l’occupazione degli ex-magazzini sia una conseguenza della maggiore chiusura dei confini al nord della Serbia (1), la situazione delle barracks durante l’inverno fino a maggio 2017 (2), la cronologia dello sgombero (3), le strategie psicologiche utilizzate durante quest’ultimo (4), le prospettive future in Serbia in generale, ed in particolare a Belgrado (5).

1. L’occupazione degli ex-magazzini

L’inasprimento delle pratiche nella gestione dei confini a nord della Serbia ha fatto si che, dal 2015, Belgrado fosse un importante punto di transito sulla cosiddetta Rotta Balcanica.
Fino all’estate 2016, anche se l’Ungheria aveva già costruito un imponente muro per proteggere i suoi confini meridionali, l’attraversamento della Serbia era sempre stato relativamente semplice, la maggior parte delle persone in transito si fermava a Belgrado da un paio di giorni a qualche settimana per riprendersi, aspettare i compagni di viaggio e organizzare i passi successivi.
La causa principale di questo flusso migratorio va identificata nel fatto che da un lato il confine verso l’Ungheria era stato materialmente recintato e dall’altro la Serbia si rifiutava semplicemente di riprendere indietro sulla base degli esistenti accordi di riammissione i migranti che erano riusciti ad entrare in Ungheria. Dunque, sebbene non ci siano state deportazioni dall’Ungheria alla Serbia, tra le 50 e le 200 persone al giorno attraversavano il confine informalmente (vedi le statistiche su police.hu).
Questa pratica ha trovato riscontro nelle politiche nei confronti dei migranti in Serbia: c’era una repressione relativamente limitata nei confronti delle persone che si muovevano senza documenti, necessari per la permanenza sul territorio serbo. Tutto ciò è cambiato con l’implementazione della cosiddetta legge degli 8 chilometri di respingimento a luglio 2016: questa ha formalizzato e legalizzato il respingimento di qualsiasi individuo che attraversi il confine dell’Ungheria illegalmente e che venga intercettato entro il corridoio di 8 km oltre la linea di confine.
Essendo la frontiera con la Serbia massicciamente militarizzata, la legge è stata di facile attuazione, e ha fatto sì che migliaia di persone fossero violentemente respinte dalla polizia (che inoltre coopera con le forze militari e la polizia locale) per poi rimanere bloccate in Serbia fino ad oggi.
A febbraio di questo anno, un ulteriore inasprimento: l’applicazione della legge è stata estesa a tutto il territorio ungherese – anche se, nella pratica, questo non fa molta differenza, dato che l’implementazione della legge da parte della polizia ha avuto luogo comunque su tutto il territorio fin dall’inizio.
La pratica dei respingimenti, già intrapresa in passato ai confini meridionali della Rotta Balcanica (specialmente al confine greco-macedone), si è quindi diffusa lungo tutto il percorso, portando ad una situazione estremamente difficile e pericolosa. Il confine orientale della Croazia che si affaccia sulla Serbia, non è così differente da quello ungherese, quando si tratta di respingimenti e violenze.
Geograficamente 2/3 del confine sono resi difficoltosi a causa del Danubio, impossibile da attraversare senza una barca, e 1/3 è caratterizzato da un’area montuosa ed ancora a rischio esplosione delle mine. A parte questo, anche le pratiche non si differenziano: le persone vengono picchiate, derubate, e respinte verso il territorio serbo.
Nonostante ciò, il confine serbo-croato è la rotta principale intrapresa dai migranti, e quasi nessuno prova più ad attraversare l’Ungheria 1. Alcune persone delle barracks hanno detto di aver tentato oltre 30 volta di traversare il confine con la Croazia senza successo. Solamente coloro che riescono a raggiungere Zagabria – a circa 300km dall’ultima città serba al confine, Sid – hanno qualche possibilità di essere accettati in centro governativo in Croazia. Poiché con la chiusura e la securitizzazione dei confini i prezzi dei trafficanti sono aumentati, molte persone rimangono bloccate in Serbia, e non hanno altra scelta se non quella di aspettare, sperando in una decisione positiva in merito all’asilo (anche se ad oggi sono ancora abbastanza rare), oppure provare ad attraversare il confine con la Croazia (o a volte quello con l’Ungheria o con la Romania), ancora e ancora. Come reazione all’aumento giornaliero dei numeri di migranti ed al cambio di governo in Serbia, a luglio 2016 una massiccia azione di polizia ha portato allo sgombero dei parchi nel centro di Belgrado. Migliaia di persone sono state quindi registrate e portate ai campi governativi 2. Ma poiché le persone continuavano ad attraversare la Serbia, in agosto e settembre 2016 il numero di persone bloccate nel paese è salito a diverse migliaia in poche settimane. Inoltre, tutti i campi governativi – eccetto quello di Krnjaca – si trovano in zone remote, ed è quindi relativamente facile scappare. Così molte persone si trovano a Belgrado e in poco tempo i parchi attorno alla stazione degli autobus si sono quindi nuovamente riempiti di persone, che dormivano lì ogni notte.

2. La situazione a Belgrado fino a maggio 2017

Già alla fine di agosto 2016, i migranti hanno cominciato lentamente ad occupare gli ex magazzini vuoti dietro alla stazione degli autobus e dei treni, senza destare particolare attenzione nella comunità cittadini. Quello che è accaduto nei mesi successivi, è ben noto a tutti ed è stato diffuso su tutti i giornali. Specialmente in gennaio, quando le temperature sono scese fino a -15°C, le barracks di Belgrado hanno richiamato l’attenzione di molti giornalisti, così come quella di volontari e ONG, nazionali ed internazionali. È innegabile come le circostanze fossero decisamente invivibili e disumane, ma è anche importante sottolineare come queste immagini abbiano mostrato solamente una parte della vita nelle barracks. Le persone che vivevano l’occupazione sono state principalmente vittimizzate e presentate come individui afflitti e sofferenti, ma la verità è che le barracks sono state anche organizzazione collettiva, forme differenti di solidarietà e scambio, nonché continua comunicazione ed apprendimento. Pochi sono a conoscenza del livello di autorganizzazione presente in quegli spazi: cucina collettiva, scuole di lingua autorganizzate, attività sportive, discussioni, scambi di conoscenza e semplice vita di ogni giorno in circostanze “insolite”.
Gli ex-magazzini sono stati costantemente sotto attacco ed a rischio sgombero. Alle persone veniva spesso detto di andare nei campi governativi e registrarsi – ma comunque, continuavano ad esserci molte ragioni per cui le persone sceglievano di stare a Belgrado nelle barracks e non andare nei campi: connessioni, collettività, solidarietà, visibilità, una sorta di libertà.

Al momento, la Serbia è nei negoziati di ammissione nell’UE del capitolo 23 e 24. Specialmente il capitolo 24 riguardo all’acquis è rilevante per l’analisi dei fatti che si stanno susseguendo riguardo all’attuale regime migratorio serbo. Questo stabilisce:

“Le politiche dell’UE mirano a mantenere e sviluppare ulteriormente l’Unione come un’area di libertà, sicurezza e giustizia. Per questioni quali il controllo delle frontiere, i visti, la migrazione esterna, l’asilo, la cooperazione di polizie, la lotta contro il crimine organizzato e il terrorismo, la cooperazione nel settore della droga, la cooperazione doganale e la cooperazione giudiziaria in materia penale e civile, gli Stati Membri devono essere propriamente dotati per implementare adeguatamente il quadro di regole comuni. Soprattutto, ciò richiede una capacità amministrativa forte e ben integrata all’interno delle agenzie di implementazione e altri organismi competenti, i quali devono rispettare gli standard necessari. Un’organizzazione di polizia professionale, affidabile ed efficiente è di fondamentale importanza. La parte più dettagliata delle politiche dell’UE in materia di giustizia, libertà e sicurezza è l’acquis di Schengen, che comporta l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne dell’UE. Tuttavia, per i nuovi Stati Membri parti sostanziali dell’acquis di Schengen sono attuate in seguito ad una Decisione del Consiglio separata che viene adottata dopo l’adesione 3.

Di conseguenza, vengono stabiliti i successivi passi 4 da realizzare nel periodo successivo. In particolare, la Serbia dovrebbe:

– tenere una casistica delle indagini, delle azioni penali, delle condanne definitive, nonché dei sequestri e delle confische di beni nei casi di criminalità organizzata, compresi riciclaggio di denaro, la tratta di esseri umani e il traffico di esseri umani/migranti;
– adottare la strategia integrata di gestione dei confini ed implementare il piano d’azione, compreso un database nazionale;
– adottare e implementare la nuova legge sull’asilo, con particolare attenzione ai gruppi vulnerabili e alle misure di integrazione per le persone che necessitano di protezione internazionale;
– affrontare approfonditamente il fenomeno delle richieste d’asilo infondate presentate dai cittadini serbi negli altri Stati Membri dell’UE, sostenendo il trend in diminuzione dei richiedenti asilo dalla Serbia all’UE.

La visibilità dei migranti sofferenti nel centro città – che sono stati ritratti e descritti in centinaia di articoli nel gennaio 2017 quando le temperature sono scese sotto i -15°C – sono state pertanto di poco aiuto. Come con lo sgombero di Idomeni, attuato da un governo di sinistra, le immagini di sofferenza e di protesta non dovrebbero essere qualcosa di visibile troppo a lungo nella sfera pubblica. Piuttosto, la pratica allineata con le prassi dell’UE – praticamente ovunque – dovrebbe essere la sistemazione se non la detenzione di migranti e richiedenti asilo in campi profughi, situati in zone isolate del paese, per invisibilizzare ed immobilizzare soggetti in movimento. Pratica ora ben conosciuta anche dal governo serbo.

Un altro elemento importante da non tralasciare nell’analisi, è il luogo preciso in cui si trovavano le barracks, che rivela la politica contraddittoria della città in questione: Belgrado (e la sua) Waterfront (BW). BW è un progetto di investimento finanziario di fascia alta che conduce alla gentrificazione del distretto di Savamala, l’area che si concentra attorno alla stazione degli autobus e la stazione centrale dei treni. Il terreno in questione era già stato dato in affitto (per una cifra piuttosto bassa) agli investitori, quindi lo sgombero della zona era solo una questione di tempo.
La connessione tra il progetto BW e la questione della migrazione esisteva già da più tempo. Ad esempio nell’aprile 2016 si è verificato lo sgombero e la demolizione di alcune delle strutture dei migranti, in particolare Miksaliste e l’ostello No Border 5. Oltre a questi violenti sgomberi, ci sono state anche numerose manifestazioni e proteste sotto il nome di “Ne da(vi)mo Beograde” (un gioco di parole tra “non diamo” e “non soffochiamo” Belgrado), che fanno capire come il progetto sia pesantemente criticato e controverso con il diritto al movimento della città. Pertanto, molte persone che vivevano lì e alcuni attivisti si aspettavano uno sgombero da un momento all’altro, ma il modo in cui è stato condotto, alla fine, ha toccato molti più livelli di violenza rispetto alla mera violenza fisica e l’invisibilizzazione, e quindi l’immobilizzazione.

3. Cronologia dello sgombero

Secondo Nenad Ivanišević, Segretario di Stato del Ministero del Lavoro, degli Affari Sociali e dei Veterani, il piano era effettuare e terminare lo sgombero entro 20 giorni. Alla fine, ci sono voluti solamente 6 giorni per concluderlo. Ora, una descrizione cronologica dello sgombero.

05.05.2017
Il Ministero del Lavoro, degli Affari Sociali e dei Veterani annuncia il ricollocamento dei migranti che si trovano a Belgrado nei centri di accoglienza sparsi sul territorio serbo, e conseguentemente lo sgombero e la demolizione delle barracks dietro la stazione degli autobus. Viene comunicato che “non verrà usata la forza per il trasferimento dei migranti”, ma che verrà offerto loro, “in maniera umana”, di trasferirsi nei centri d’accoglienza 6.
In effetti, episodi di violenza fisica sono stati pochi. Ma la violenza psicologica a cui le persone sono state sottoposte è stata notevole.

07.05.2017
A Belgrado, da quando le barracks hanno cominciato ad esistere, ha luogo una riunione settimanale di tutti i volontari indipendenti, attivi nelle barracks. Poiché la maggioranza delle persone e dei gruppi presenti hanno un background prettamente umanitario e non hanno mai percepito il loro lavoro come politica, quest’assemblea è sempre servita principalmente a coordinare i compiti, i volontari e le informazioni nelle barracks. Quando il 5 maggio il Ministro del Lavoro, degli Affari Sociali e dei Veterani ha annunciato il trasferimento dei migranti nei centri d’accoglienza, il Commissariato (agenzia nazionale per le migrazioni e i rifugiati) ha richiesto un incontro con l’assemblea delle barracks al fine di coordinarsi con i volontari nello sgombero. Ai volontari viene riferito che i documenti necessari alla registrazione nei vari centri d’accoglienza venivano distribuiti alla “White House”, uno spazio all’interno delle barracks dove era risaputo vivessero i trafficanti.
I documenti consistevano in delle liste, dove i migranti potevano scegliere in quale centro essere trasferiti: una strategia decisamente efficace per svuotare silenziosamente le barracks. Ciò fa pensare che – nonostante il Commissariato abbia dichiarato la totale estraneità da qualsiasi cooperazione con organizzazioni di trafficanti e l’intenzione di tenerle fuori dai campi – ci fosse comunque una collaborazione informale tra le strutture statali e il mercato informale dei trafficanti. In più, si vociferava che tutti coloro i quali fossero stati trovati nelle barracks il giorno dello sgombero, sarebbero stati portati a Preševo, al confine con la Macedonia. Nella regione di Preševo è molto diffusa la pratica di respingere verso la Macedonia. Di conseguenza, molte persone hanno deciso di registrarsi nei centri di accoglienza a nord, vicino al confine croato.

09.05.2017
Alcuni abitanti delle barracks hanno considerato l’ipotesi di resistere allo sgombero. Tuttavia, nella pratica era molto difficile da organizzare: le informazioni che arrivano alle barracks erano spesso contrastanti, c’era confusione riguardo alle reali conseguenze legali di un’ipotetica resistenza, molti loro compagni avevano già lasciato i campi ufficiali, e non c’era un gruppo di sostenitori determinato a lottare e resistere allo sgombero. Molti volontari ed attivisti che nel tempo avevano creato reali rapporti di fiducia con i migranti, non considerano nemmeno la possibilità di resistenza. Molti dei volontari addirittura consideravano una buona idea quella di trasferire le persone nei centri d’accoglienza, vedendo nella fornitura di cibo e nel supporto medico un miglioramento, senza cogliere il processo politico di invisibilizzazione e immobilizzazione che si celava dietro questi trasferimenti. Inoltre va considerato che non vi era una chiara istituzione o un “nemico” concreto contro cui resistere.

10.05.2017
Il giorno prima dello sgombero, le barracks vengono cosparse con uno spray chimico, tossico. Questo doveva servire “a pulire” dalla scabbia e facilitare il lavoro degli operai nei giorni successivi. Come testimonia questo video (clicca qui), le persone all’interno delle barracks sono state avvisate 5 minuti in anticipo, senza essere però informate di che spray chimico si trattasse. Alcune persone hanno ricevuto lo spray direttamente sul corpo, molti lo hanno inalato.

11.05.2017
Sono le 7 del mattino. Operai e staff del Commissariato entrano nell’area degli ex-magazzini urlando, alcuni brandendo delle asce. Le persone hanno rinunciato sin dal primo istante, non è stata neanche considerata la possibilità di resistere e ci sono voluti solamente trenta minuti affinché le barracks fossero svuotate. Quella mattina nell’area erano presenti circa 400 persone, anche se è molto difficile avere numeri precisi. Vengono fatti salire sugli autobus, per essere portati nei diversi campi ufficiali del Paese. Alle 11, la demolizione comincia iniziando dalla distruzione delle infrastrutture basilari. Il primo edificio ad essere abbattuto è stato quello dove si trova la cucina, dove le persone hanno cucinato negli ultimi 8 mesi. Dopodiché, i lavoratori impegnati nello sgombero prendono tutto il materiale di valore che si trovava all’interno delle strutture: fornelli, coperte, serbatoi dell’acqua, tubi. Le foto inviate dai campi ufficiali mostrano un cartello che minaccia i migranti di essere deportati a Preševo qualora avessero osato ripresentarvi a Belgrado.
Alla fine della giornata i parchi erano vuoti e silenziosi, come i giornali e i media. Lo sgombero è avvenuto con successo, la polizia e lo staff del Commissariato si sono congratulati vicendevolmente per il buon lavoro svolto, ringraziando i volontari per la collaborazione e per aver abbandonano la zona.

4. Strategie psicologiche

Al contrario dello sgombero dell’agosto dello scorso anno, avvenuto utilizzando principalmente violenza fisica, questa volta la strategia utilizzata si è basata molto di più sulla violenza psicologica e comunicativa. Con la nuova ondata di volontari arrivata a dicembre 2016 e gennaio 2017, il Commissariato ha cambiato atteggiamento, sia verso i volontari che verso i migranti. Se prima i (pochi) volontari presenti erano soggetti a continue intimidazioni – venivano fotografati, seguiti per strada, interrogati e portati alla centrale di polizia – , da gennaio in poi questo non è più successo. I funzionari del Commissariato si facevano vedere raramente nell’area degli ex-magazzini, addirittura alcuni volontari non sapevano neanche dell’esistenza di quest’organo, prima della decisione dello sgombero.
Il Commissariato ha così cominciato a giocare la strategia del “poliziotto buono-poliziotto cattivo”: fino a quando i volontari agivano in linea con la loro strategia, venivano trattati amichevolmente. La stessa cosa per quanto riguarda i migranti. Ma non appena c’era la minima resistenza contro le politiche ufficiali, venivano minacciati di finire nei guai, sia con la polizia che con il Commissariato.
Alcuni volontari avevano pensato di provare a convincere il Commissariato ad assumersi la responsabilità di registrazione delle persone nei campi, per evitare che le strutture dei trafficanti prendessero troppo potere. Tuttavia, non c’è stato alcun accordo su questa opzione, ed è per questo che non ha mai avuto luogo.
L’opzione di resistere allo sgombero, di protestare e di monitorare non è mai stata presa in considerazione. E i volontari erano più impegnati nella questione di come gestire lo sgombero nel modo giusto e “in modo umano”, piuttosto che nella discussione delle strategie e delle politiche che si celavano dietro ad esso.
Lo sgombero è stato quindi condotto da un regime formato da governo, Commissariato, strutture di trafficanti, volontari e migranti con l’uso di astute strategie e pressioni psicologiche. Dall’interno, non era chiaro chi fosse il soggetto da incolpare, quello contro cui lottare, quello da ritenere responsabile o quello in cui avere fiducia. Non era neanche chiaro quando e come lo sgombero sarebbe avvenuto: la conseguenza di questa incertezza era chiaramente un’incapacità di definire quali fossero gli attori contro cui resistere, o una data verso cui organizzarsi.
Queste sono le ragioni alla base del silenzio in cui lo sgombero è avvenuto, della resistenza quasi inesistente, del minimo coinvolgimento all’esterno. L’era delle barracks è finita, gli edifici all’interno dei quali si era costruito negli ultimi mesi sono stati distrutti, i gruppi di persone che vivevano al loro interno si sono divisi e sono stati trasferiti in diversi campi sul territorio serbo, i volontari stanno tornando verso il nord Europa, e le persone che vivevano là dentro sono ritornate ad essere invisibili.

5. Aspettative per sviluppi futuri in Serbia in generale, ed a Belgrado in particolare

Nonostante l’uso della forza sia stato esercitato in maniera differente, ci sono molti parallelismi e similitudini tra lo sgombero dei parchi dell’anno scorso e lo sgombero delle barracks quest’anno. Anche nel luglio 2016 le persone sono state forzate alla registrazione nei campi, dove gli è stato detto di aspettare per la loro procedura d’asilo. Eppure, è stata solo una questione di mesi prima che i parchi si ripopolassero nuovamente. Pertanto, si può prevedere che i parchi a Belgrado si affolleranno di nuovo, e che le persone occuperanno altri edifici abbandonati (e a Belgrado ce ne sono molti).

Belgrado rimarrà un luogo importante e di attrazione per i migranti nel Paese, e le persone continueranno ad entrare in Serbia. Belgrado negli ultimi anni è sempre stato molto di più di un punto di transito nascosto. È sempre stata una metropoli relativamente aperta, con un’economia di tutti quegli esercizi tra la stazione dei treni e quella degli autobus fortemente dipendente dai migranti. Se messa a confronto con la situazione ben più difficile a Sud o a Nord della Rotta Balcanica, Belgrado si distingue come un luogo che offriva una vita relativamente normale in circostanze decisamente singolari. Situata tra barche che affondano, cani che abbaiano e mordono, violenze della polizia, muri e detenzione, Belgrado è stata, nell’assurdo, per lungo tempo un’isola relativamente sicura, vicino alla destinazione sperata.
Semplicemente, esistono troppi motivi per tornare a Belgrado. Non solo per le strutture offerte da ONG locali e internazionali, volontari e trafficanti. Ma anche per la sensazione di dignità e normalità che molte persone hanno dichiarato essere il motivo principale della loro scelta di stare in città. Senza dimenticare il significato politico della visibilità, accessibilità e comunicazione di cui molte persone hanno potuto far uso.
Alcune persone hanno già provato a riavvicinarsi alla zona attorno alla stazione degli autobus, per vedere cosa sarebbe successo. Sono stati effettuati controlli sui loro passaporti, ma anche se non li avevano, non ci sono state conseguenze. Probabilmente è solo questione di tempo prima che le persone tornino a Belgrado, occuperanno un altro posto e ricostruiranno le strutture che vogliono e di cui hanno bisogno.

  1. http://www.helsinki.hu/wp-content/uploads/HHC-Hungary-asylum-figures-1-May-2017.pdf)
  2. vedi il report sulla repressione delle persone in movimento in Serbia http://bordermonitoring.eu/serbien/2016/09/recent-repression-on-people-on-the-move-in-serbia/
  3. https://ec.europa.eu/neighbourhood-enlargement/policy/conditions-membership/chapters-of-the-acquis_en
  4. https://ec.europa.eu/neighbourhood-enlargement/sites/near/files/pdf/key_documents/2016/20161109_report_serbia.pdf
  5. Per maggiori informazioni sulle due strutture, vedi il sito Moving Europe: http://moving-europe.org/between-transit-repression-and-push-backs-a-report-on-the-current-situation-for-refugees-in-serbia
  6. http://www.b92.net/eng/news/politics.php?yyyy=2017&mm=05&dd=05&nav_id=101206