Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Anime salve: la storia di Moahmed

a cura della redazione di Rimini del Progetto Melting Pot - Emilia Romagna

Lo incontrai la prima volta qualche mese fa all’inizio dell’estate tanto attesa dopo il lungo e freddo inverno. Aveva gli occhi lucidi e arrossati, gli occhi di chi seda la mente e il dolore con “l’elisir di Bacco” in compagnia di qualche cartone fuori da un supermercato.
Sul viso le cicatrici di quell’ incidente stradale che ha segnato la sua vita, nella sua camminata il segno evidente di un tendine d’Achille che nessun medico ha mai voluto “ricucire”.
Moahmed si presenta così in uno dei tanti sportelli per migranti della città di Rimini (sic!) con l’ansia e la preoccupazione di una multa amministrativa pari a 5.164 € in quanto “esercitava l’attività di commercio su area pubblica in assenza della prescritta autorizzazione del Sindaco di Rimini”.
L’ansia e la preoccupazione nasce dal fatto che Moahmed dopo 15 anni trascorsi “regolarmente” in Italia, si trova dal 2001 sprovvisto del permesso di soggiorno.
Moahmed, prima cittadino perfettamente integrato, lavoratore instancabile presso una conceria nel vicentino, poi Moahmed l’emarginato, senza fissa dimora, segno evidente dell’assenza in questo Stato di diritti per chi non ha voce.

L’incidente che ha segnato la sua vita dal 1998 apre un calvario di cicatrici evidenti e meno evidenti, quelle delle burocrazie, dei moduli, dell’incuranza nonché insensibilità dei medici di reparto e dei censori/amministratori della legge…
Moahmed è il segno evidente, il volto di quella anomalia tipica della “democrazia” in Italia ma anche nel resto della fortezza globale, per lui ci sono solo recinti e non “finestre” o orizzonti per ricominciare a vivere, ad alzare lo sguardo. Spesso la sua mente è annebbiata dall’alcool, dai fantasmi dell’ingiustizia che lo perseguitano, dal volto di una madre che non vede da 10 anni, dalla paura di essere braccato e perseguitato per il semplice fatto che gli manca un timbro, un pezzo di carta che decida del suo futuro e della sua esistenza. Quel pezzo di carta, quel permesso di soggiorno non l’ha più riottenuto, si è perso nei meandri delle carte accatastate in qualche ufficio di chissà quale Questura, si è perso nell’insensibilità di chi poteva e doveva aiutarlo, si è perso nella malasanità che tante vittime ha fatto in questo Stato.

Seguendo la sua vicenda sembra di assistere alla proiezione del film “Brazil” di Terry Gilliams, sembra di essere schiacciati da una burocrazia incatenante e deprivante, sembra che non ci sia possibilità di riscatto, né tanto meno di riaffermare i diritti sacrosanti di ogni essere umano… salute… casa … lavoro … dignità … appartenenza … religione … rispetto.

Ogni volta che ci rivediamo ha il sorriso spezzato di uno “spirito solitario”, il sorriso di uno dei tanti che vive “fuori dal branco”, una delle tante anime da salvare dall’oblio della grande storia che fonda la propria scala di valori – ahimè – sul successo professionale ed economico e sull’esaltazione dell’egoismo privatistico/individualistico. Moahmed – che non ha nulla – ha poco da spartire con l’egoismo, lui che divide un alloggio di fortuna con altri invisibili, lui che mi offre sempre qualche sigaretta e un po’ di spiccioli per pagare il parcheggio.

La sua presenza diviene ricchezza per chi lo incontra, la sua selvatichezza lo rende a volte inavvicinabile e scostante ma se c’è un qualcosa, un riflessione che affiora pensandolo e che spesso sono proprio gli invisibili, gli oppressi, i tanti Moahmed, coloro che hanno sperimentato la vera sofferenza a diventare i “redentori” dei propri simili, a riportare a galla, in evidenza l’impossibilità – in questo qui ed ora – di un cittadino migrante di esercitare i propri diritti.

La sua vita è questo, il manifesto delle nefandezze causate da leggi proibizioniste in materia di immigrazione, la sua vita è anche la speranza “deve pur esserci un modo di vivere senza dolore?” , la sua vita è anche l’urlo tremendissimo contro l’indifferenza che lo circonda, di quei carrelli vuoti fuori da quel supermercato, di quei cartoni, di quel elisir di Bacco che entra nelle sue vene e anestetizza quel dolore dal quale Moahmed vuole fuggire.
De André diceva che rispetto alle sofferenze degli altri-da-noi, il mondo occidentale è come immunizzato perché “per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”. Per me e per chi ha camminato con Moahmed il suo dolore è anche il mio e nostro dolore, se c’è un’impotenza che nasce da leggi becere e ingiuste disumane, c’è una potenza, forza trainante che si sprigiona dall’incontro di persone vere, dall’energia, dall’affetto, “dalla capacità di sentire i bisogni di noi stessi e di tutti gli altri”.

Forse è proprio da questo sentire comune, da questo com-patire cioè “portare insieme” che possono gettarsi – come dice Toni Negri – “le basi di quello che potrebbe essere il motore della trasformazione del vivere”.